di Rosario Coluccia
Questa rubrica tiene conto degli interessi dei lettori. Il pezzo della scorsa settimana trattava della punteggiatura e ha destato un certo interesse. Non l’avrei mai detto, temevo esattamente il contrario. E invece molti hanno chiesto di saperne di più. Le lettere mi raggiungono mentre rientro dalla Germania, da Saarbrücken, dove studenti e professori di mezza Europa hanno festeggiato l’85° compleanno di Max Pfister, uno dei maestri mondiale della filologia e della lessicografia, che molti all’università del Salento conoscono.
Di Pfister e della sua opera mi occuperò in una prossima occasione. Ora torniamo a chi mi scrive per discutere di punteggiatura. Tra questi un “professore di Tricase” (preferisce restare anonimo): «Oltre all’uso improprio di virgole e punti, spesso negli articoli di giornale, negli avvisi pubblicitari e perfino nei libri si trovano accenti di tipo diverso segnati sulle stesse parole: “caffè” e “caffé”, “benchè” e “benché”, “ventitrè” e “ventitré”, ecc. A volte alcune parole vengono scritte in modo differente. Per esempio, bisogna scrivere “qual è” (senza apostrofo) o “qual’è” (con l’apostrofo)? Si applica la regola riferita dalla grammatiche o ognuno può scrivere come gli pare?».
Partiamo da quest’ultimo caso che è relativamente semplice, per lo meno in teoria. Nella pratica spesso si sbaglia, forse per distrazione. Qualcuno, meno rigidamente, dice che si oscilla: «qual è» e «qual’è» coesistono, nella pratica dello scrivere. Sbagliano (o usano le due forme) anche persone colte, perfino linguisti importanti e scrittori celebrati. La regola indicata dalle grammatiche scolastiche dice (più o meno) che l’apostrofo tra due parole va segnato quando la prima non ha un’esistenza indipendente; se invece una parola può vivere autonomamente l’apostrofo non va usato. Di conseguenza, non bisogna mettere l’apostrofo in «qual», perché «qual» è parola autonoma, ricorre correttamente in espressioni come «qual vita», «qual gesto», ecc. Questo fenomeno, la caduta di «e» finale in «quale» si chiama troncamento. È diversa l’elisione, che si indica con l’apostrofo. Si verifica quando la vocale finale di una parola cade perché si incontra con la vocale iniziale della parola seguente: si scrive sempre «un’amica» (si elide la «-e» finale dell’articolo femminile), ma «un amico», perché «un» è l’articolo maschile. E ancora: si scrive «l’uomo» (con apostrofo) perché non esiste in italiano una parola indipendente come «*l» davanti a un’altra (e non potremmo mai pronunziare o scrivere «*lo uomo»). E si mette l’apostrofo in «bell’azione» perché in italiano non esiste «*bell» (ma potremmo anche scrivere «bella azione»), «quest’opera» perché in italiano non esiste «*quest» (ma potremmo anche scrivere «questa opera»), «com’eravamo» perché in italiano non esiste «*com» (ma potremmo anche scrivere «come eravamo»). «Come eravamo» era il titolo di un film struggente di Sidney Pollack con Barbra Streisand e Robert Redford, innamorati e incompatibili, che traduceva l’inglese «The way we were».
Nonostante le regole grammaticali, a volte un po’ lambiccate e non unanimemente condivise, i dubbi pratici restano. Vagabondando in rete (https://it.answers.yahoo.com/question/) trovo la domanda (un po’ vecchiotta, risale al 27 ottobre 2011): «Un’amore si scrive con l’apostrofo?». Ecco le risposte, riprodotte alla lettera, in tutti i particolari: «No perchè è maschile» (Paolo Bonolis, proprio il presentatore televisivo, lo riconosco dalla foto); «NO. E’ un sostantivo maschile quindi non porta l’apostrofo. E chi lo scrive con, evidentemente non lo sa» (Martina); «NO. Perchè amore é un nome maschile e l’apostrofo con UN si mette solo davanti ai nomi FEMMINILI inizianti per vocale. Es Un’INFERMIERA» (Laura. Insegno italiano); «Fai conto che ho 8 ad italiano (faccio il secondo) e neanche lo so.. ^_^ comunque credo di no!» (Sara Lindemann).
La questione non è banale, non riguarda solo pochi indecisi. Alcune settimane fa (il 13 febbraio) ha suscitato molto clamore la campagna pubblicitaria per San Valentino di «Real Time», emittente del canale «Discovery», che in una pagina a pagamento del «Corriere della Sera» ha scritto: «Vi auguriamo un’amore che è tutto un programma», inserendo l’apostrofo tra «un» e « amore», parola maschile, fino a prova contraria. La rete si è scatenata, con commenti di ogni tipo, la maggior parte irridenti. Il giorno dopo (14 febbraio) l’emittente ha ribadito, ancora con una pagina a pagamento sullo stesso quotidiano, che non ha sbagliato un bel niente e che la provocazione in realtà era funzionale ad attirare l’attenzione sulla vera iniziativa, sintetizzata in un apostrofo volontariamente sbagliato. Ecco la precisazione dell’emittente di «Discovery»: «In tutto il mondo l’amore assume mille forme diverse e non si cura dell’età, delle convinzioni religiose, del colore della pelle, del genere o dell’orientamento sessuale. I pregiudizi e la discriminazione iniziano dal linguaggio, dalle parole. Per combatterli dobbiamo partire dalla lingua, perché sono le parole che influenzano il nostro modo di pensare. Se i pregiudizi iniziano dal linguaggio, è arrivato il momento di cambiare la nostra lingua». Concludendo: «In italiano la parola “amore” è di genere maschile. Chiediamo all’Accademia della Crusca di poter scrivere la parola “amore” sia al maschile sia al femminile. Un amore universale, che certifichi in ogni momento la legittimità dell’amore, di ogni genere di amore. In tal modo vogliamo istituire il genere neutro per la parola “amore”. Anche se il genere neutro nella nostra lingua non esiste».
La giustificazione ha aumentato le perplessità dei lettori, non le ha diminuite: «errare è umano, cercare improbabili giustificazioni è invece come arrampicarsi su uno specchio bagnato», ha sentenziato qualcuno. E l’Accademia della Crusca non può (né vuole) imporre a coloro che parlano e scrivono la nostra lingua di cambiare la grafia e la morfologia delle parole, usando in maniera arbitraria apostrofi e accenti. Anche perché non è “opprimente” (come pure è stato scritto) accordare “amore” al maschile. L’ortografia va rispettata, non può essere violata a piacimento, alla ricerca di effetti stilistici o per veicolare contenuti ideologici. Nel 2008 apparve un libro di Antonio Donadio intitolato proprio Un’amore con l’apostrofo, che raccontava «una breve ma intensa storia nata, all’improvviso, leggendo Rimbaud, un “dialogo in versi” che conduce un uomo ad accettare, e forse capire, il ruolo paritario e libero della sua giovane compagna fino ad imporre ad un amore un femminile apostrofo» (così recitava la pubblicità). Non molti hanno letto quel libro, e forse hanno fatto bene. A buon diritto, più lettori ha avuto il romanzo di Dino Buzzati intitolato Un amore (senza apostrofo) che descrive l’attrazione di un architetto di mezza età per una minorenne prostituta e ballerina part-time alla Scala: la qualità letteraria è più elevata e il titolo non va alla ricerca di effetti speciali (grafici). Probabilmente la coincidenza tra qualità letteraria e correttezza ortografica non è casuale.
In conclusione. L’apostrofo non può avere un valore ideologico, le forzature sono inutili. Rispettiamo le regole dell’ortografia, la bellezza e l’efficacia della comunicazione ne risulteranno avvantaggiate.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 30 aprile 2017]