Solo leggendo possiamo capire da dove veniamo

di Antonio Errico

Dicono le statistiche che nel 2016, trentatré milioni di italiani con più di sei anni, pari al 57,6% della popolazione, non hanno letto nemmeno un libro. 4.300.000 in meno rispetto al 2010. Non è un fatto nuovo, in fondo. E’ la conferma di una situazione che si ripropone in continuazione e per la quale diventa sempre più difficile trovare soluzioni.

La circostanza che questo Paese abbia un numero considerevole di non lettori, può suscitare almeno due reazioni. La prima consiste in una totale noncuranza che può trovare una giustificazione culturale ed esistenziale nei versi finali di “Er mercato de piazza Navona”, un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, che dicono così: “Li libbri nun zò robba da cristiano: fiji, pe carità, nu li leggete.”

La seconda consiste in una preoccupazione che provoca la domanda su quale possa essere la relazione che un paese con milioni di persone che non leggono quasi niente stabilisce con la realtà e con l’immaginario, con il presente e con il passato, con quali strumenti e quali strutturate forme di pensiero si confronta con una condizione di futuro.

Dando per acquisita la connotazione ironica e provocatoria del Belli, il sentimento che diventa dominante è quello della preoccupazione.

Se si azzardasse l’ipotesi che una persona che non legge si ritrova, inevitabilmente, a dover interpretare i fenomeni della natura e le storie che attraversano il mondo con modalità superficiali, per naturale conseguenza si dovrebbe considerare che un paese che non legge si ritrova costretto alla stessa superficialità. Ovviamente non è regola valida per ogni tempo.

C’erano una volta contadini che non avevano mai letto una sola riga in vita loro perché non erano andati a scuola ma che sapevano leggere la direzione del vento e i movimenti delle nuvole e sapevano tessere dialoghi interminabili con gli alberi, e capivano dal colore della terra che cosa si doveva o non si doveva piantare, e avevano una saggezza che soltanto l’esperienza delle cose che nascono, maturano e muoiono può dare.

Ma poi i tempi sono cambiati e quei contadini non ci sono più.

Quando i tempi sono cambiati, non è bastato più saper interpretare il vento, i movimenti delle nuvole, il colore del cielo. C’è stato bisogno di altre conoscenze, e quelle conoscenze di cui si è rivelato il bisogno stavano nei libri. Forse soltanto nei libri. Da quando i tempi sono cambiati, se si è voluto conoscere le ragioni profonde delle cose che accadevano, si è dovuto cercarle nei libri.

Forse la differenza sostanziale determinata dalla conoscenza che viene dai libri è proprio quella della profondità.

Un uomo e l’insieme degli uomini che costituiscono una comunità, un paese, hanno bisogno di arrivare alla profondità dei fatti, di comprendere le cause di quello che accade, le radici del presente, di rendersi conto delle correnti sotterranee che provocano le situazioni in superficie. Hanno bisogno dei contesti di riferimento, dei concetti fondamentali, delle coordinate basilari, degli assi culturali, dei significati essenziali che consentono una comprensione autentica ed una interpretazione significativa del proprio essere nel tempo che attraversano, nei luoghi che abitano.

La comprensione autentica e l’interpretazione significativa sono la conseguenza di una discesa nelle profondità; il tempo che si attraversa proviene da un altro tempo; quello che accade qui e ora è l’esito di quello che è accaduto sempre qui ma allora.

Non esiste nulla, dunque, che non abbia una storia, e la storia è sempre profonda: spesso anche spaventosamente profonda.

Così viene da domandarsi se questo Paese possa comprendere la propria storia senza una lettura che permetta o che comunque agevoli la discesa nelle profondità. Per esempio viene da domandarsi come si possa comprendere il tempo che viviamo senza una comprensione di quello dal quale veniamo, senza un’analisi della storia del Novecento italiano ed europeo, come si possono capire i motivi e i moventi delle situazioni politiche, economiche, sociali che decidono i nostri destini senza rintracciare le cause di quei moventi e di quei motivi.

Restando in superficie si può vedere soltanto una parte di paesaggio, ma non si può capire per quale ragione il paesaggio assume quella configurazione. In altre parole non si arriva al lievito dei fatti, ai nuclei che li hanno generati.

Per scendere, per comprendere, è indispensabile – a tutt’oggi- leggere: i libri. Non riesco a intravedere altre modalità, altre condizioni. Può essere miopia ma può anche essere che le altre modalità e le altre condizioni che esistono permettano soltanto l’osservazione della superficie. Ma poi, non si tratta neanche di procedere per esclusione di mezzi; si tratta, piuttosto, di integrare i mezzi a disposizione e di mettere in relazione le risorse di conoscenza che essi offrono.

Così un paese che non legge, che limita il rapporto con il sapere all’immediatezza e alla rapidità dell’informazione, osserva la superficie. Quello che accade è sospeso nel vuoto e penzola privo di qualsiasi origine e di qualsiasi direzione. Spesso, per i fatti, per le storie, non si riesce ad individuare una motivazione, nemmeno una giustificazione, per la semplice ragione che non si riesce a rintracciare la situazione che li ha determinati. Di conseguenza la reazione che risulta più naturale è quella della paura oppure, per una istintiva difesa dalla paura, dell’indifferenza.

Ma tanto la paura quanto l’indifferenza negano il processo di comprensione.

Di conseguenza il paese non comprende quello che vive; non può contare sulla conoscenza e sull’esperienza che servono per assumere le decisioni; non possiede le cognizioni indispensabili per ricostruire i passaggi e quindi per rinvigorire le virtù e per correggere gli errori. Ricomincia sempre daccapo, per tutto.

Eppure, alle volte, basterebbe un libro, anche uno solo. Uno di quei libri dove si dice che in un’altra occasione è accaduta la stessa cosa, quali sono state le cause, gli effetti, i vantaggi, gli svantaggi, i rimedi. Alle volte basterebbe anche un libro solo per scendere nelle profondità e per tornarne fuori con il tesoro di possibili soluzioni.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 28 aprile 2017]

 

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