Variazioni di tardo autunno

di Paolo Maria Mariano

Il delta del Po era tranquillo, poche onde di Raileigh – quelle superficiali, intendo – portate dal vento e dalla corrente del fiume.

Mi piacciono i fiumi perché vanno lenti lontano, senza portare l’implicito smarrimento del mare, quello che, quando è aperto, non dà senso di libertà, almeno a me, come fa invece la riva, la frontiera permeabile. La nave può muoversi un po’ dove vuole, ma chi sta sulla nave è costretto a rimanere lì e se decide di andarsene deve aspettare l’attracco, e allora non è più il mare, è terra, vecchia e consunta, liberata o oppressa, piena di fiori o d’immondizie, bionda di frumento, gialla di limoni.

Il vecchio guardava l’acqua con sguardo che andava più lontano del fiume. Dico vecchio perché aveva più anni di me, tanti di più, quanti non saprei perché l’età era indefinita come lo sguardo. Dico vecchio perché in questa cronaca eviterò nomi o li inventerò con parsimonia perché non mi fido troppo dell’efficacia della mia immaginazione. Un nome è un suono, un’etichetta per ricordare, intendiamo nel senso comune, ma talvolta – forse più spesso di quanto ci venga istintivo immaginare – nomen omen, il nome è la cosa e sceglierne di adatti, di perfettamente adeguati al reale carattere che penso abbiano quelli di cui mi viene in mente di parlare, mi appare un’ardua impresa perché pur con le iniziali buone intenzioni so, nello scrivere, di non essere un cronista asettico – forse nessuno mai ci riesce.

Parlavo al vecchio di quello che avrei voluto scrivere semmai le parole avessero cominciato a rincorrersi. In realtà non sapevo ancora se avrei scritto, se proprio valeva la pena di cominciare, dove mai mi avrebbero portato le parole, se ero in grado di dar loro un qualche valore estetico, perché era quello che m’interessava più di altro, anche se temevo il lavoro per nulla, la vaga attesa che qualcuno volesse leggere e riuscisse alfine a decidere di pubblicare e che poi qualcun altro posasse gli occhi sulla stampa e riuscisse, andando da una lettera all’altra l’intima armonia delle parole che le lettere (quelle sì) compongono, il ritmo e la musica, la possibile melodia, se di essa fossi stato capace.

Era questo il mio vago sentire che con difficoltà riusciva a individuare almeno una possibilità d’espressione, anche se frammentaria, in una storia di congiura e d’ingiuria, di livore e di timore, di sogno e di stanchezza, quella che prende la sera e porta le membra a dormire.

Per ognuno la vita sembra essere uno sterminato monologo che talvolta condivide con altri frasi e parole, di rado comprensione che non sia superficiale, che non sia condizionata dall’intimo sottile livore per se stessi e per il mondo.

Non sono interessato alla prostituzione intellettuale. Essa, però, s’interessa a noi, è uno spirito distruttivo e bisogna indicarla, risponderle, talvolta evitarla, talaltra combatterla quando la stanchezza non ci vince e spinge a camminare nel bosco, su e poi giù per la china, come avevano fatto fin lì il vecchio ed io, parlando di queste cose.

Ogni volta che lo incontravo, mi sembrava essere come il narratore di Antichi Maestri di Bernhard, quello che va a trovare Reger, il critico musicale inviso nella patria austriaca, che sedeva a giorni alterni su una panca del Kunsthistorisches Museum a guardare l’uomo con la barba bianca di Tintoretto e a rendere così significante il suo stare nel mondo in quel tempo che per lui riteneva infame per qualche ragione.

Il vecchio non era corpulento come Reger, né come lui ricco, né tantomeno incline al dandismo, ma era alto come Reger, profondo come Reger, saggio più di Reger. Mancava Irsigler, il premuroso Irsigler, il guardiano Irsigler, qualcuno come Sancho Panza, difensore e traghettatore, quello che ricorda che la vita è nella carne e nel sangue, nella polvere e nello stinco stufato da mangiare con gusto, nel rosso dei papaveri, nel vento leggero che fa ondeggiare i prati. Il vecchio ed io (che pur vecchio penso di essere ma non quanto lui) parlavamo e camminavamo e restavamo fermi, o meglio, io ascoltavo le sue parole, il suo funesto divagare, il suo timore di essere diretto talvolta, la sua fantasia, e talvolta interloquivo precisando, chiedendo, forse solo per cambiare discorso, quando il ricordo che le sue parole generavano mi provocava un’angoscia sottile, quasi un lieve malore.

Al pontile dov’eravamo si avvicinò un barcaiolo mentre cercavo di fermare l’eloquio del vecchio per dirgli che sì, mi scusavo davvero, ma forse era meglio interrompere quel giorno. Ed erano scuse sentite perché ero consapevole che parlava per aiutare me, non per se stesso, vincendo la stanchezza dei suoi anni e le angustie per i problemi dei figli, adulti oramai, più in là di me negli anni, a loro volta genitori di altri, ma bisognosi dell’aiuto stretto e puntuale del padre. Almeno così avevo capito tra l’una e l’altra delle sue divagazioni che poi erano pertinenti al tema principale, per quanto talvolta improbabili. Anche a lui andava bene interrompere: la moglie lo attendeva e data l’età, ancora maggiore della sua, non intendeva lasciarla sola a lungo, sebbene fosse in spirito partecipe del compito virgiliano che lui si era accollato nei miei confronti, anche con un qualche senso di colpa, mi avrebbe poi spiegato.

Lo vidi andare via sulla barca dal fondo piatto del barcaiolo, una barca da palude, governata in piedi con un remo solo, lungo, come fosse una gondola. Si allontanarono parlando il loro dialetto dal sapore croato. Anche il barcaiolo era vecchio, più di me, meno di lui, la barba tagliata corta intorno alla bocca, un berretto di lana grezza sul cranio rasato, le mani sanguigne, grosse e nodose, la pelle screpolata che quasi scremava alla luce del sole ormai sull’orizzonte, pingue di rosso, imbiancato da sparsi cirri nel cielo.

[“Il Galatino” anno L n. 8 del 28 aprile 2017, p. 4]

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