di Luigi Scorrano
1. La parola ‘addio’
La parola ‘addio’, nel linguaggio consueto, mi sembra d’uso sempre più raro e casuale; o forse proprio fuori uso. Esiliata volontariamente dai parlanti; forse inconsciamente scancellata dal parlato (e dallo scritto) per una sua presunta inclinazione allo iettatorio, fa oggi sorridere se a qualcuno venga in mente di utilizzarla come saluto non che di congedo – come sembra più ovvio – anche d’incontro.
Hanno il loro destino, si sa, anche le parole e le formule; ed è fuori luogo un rimpianto che potrebbe sembrare – ahimè! – solo incapacità di adeguamento al presente; quel presente che vuole l’efficienza anche nel saluto, il quale riesce magari più smanceroso e lezioso di quelli d’un tempo, d’un certo passato, ma dal quale – comunque – è stata bandita, (o sembra essere stata bandita) definitivamente la parola addio.
Guardata senza sospetto, la parola rivela la sua carica di affettività, o la preoccupazione che l’affettività muove e sottende. Preoccupazione dettata dalla premura, dalla tenerezza, dalla sincerità di cuore di chi, affidandosi ad essa, con essa affida in mani onnipotenti una persona, una vita che gli è cara. Infatti l’espressione è: a Dio, col sottinteso di vi raccomando, come si annota in un vocabolario di onorata carriera quale il Tommaseo-Bellini e come, più stringatamente, ripete oggi il Grande Dizionario della Lingua Italiana del Battaglia. Affidamento d’un bene (una persona cara) al Bene supremo; e l’uso – a dare retta al sottile Tommaseo-Bellini – o doveva realizzarsi in forma nobile o doveva scaturire da famigliarità col soggetto cui si rivolgeva il saluto. Leggiamo, infatti, in quel glorioso Dizionario:
Se non sia nello stile più eletto, nel linguaggio comune Addio è saluto famigliare, che non si darebbe a’ superiori, o a persona riverita o non bene nota.
Non sarebbe difficile fare un rapida rassegna delle espressioni che all’addio si legano, e che parlano o d’un semplice incontro o, più comunemente, di un distacco. Nelle cerimonie funebri pagane Tommaseo (ci siamo messi sulla sua strada e possiamo utilmente seguirlo) trovava che l’addio, per la definitività con cui veniva sentito ed espresso – addio per sempre – “non è modo cristiano”; al contrario, per l’espressione Addio mille volte notava che essa aggiunge all’affetto; massime quando si sottintenda, come sempre dovrebbesi, vi raccomando. Dell’amore divino e dell’umano si fa allora una cosa, e il saluto è Preghiera, Augurio, Inno.
E certo c’è modo e modo di dire addio;affidato talvolta, l’addio, anche a un gesto, a un atto, perché – e soccorre ancora il Tommaseo –
Dire addio è propriamente del suono o della parola scritta; ma diciamo anco Fare gli addii, che comprende tutti gli atti delle dipartenze…
e fare, ad es., cenni d’addio è, per dirlo ancora con la fida scorta di Niccolò, “dare l’addio con mano, con pezzuole o altro segno”. Ne sorriderà Guido Gozzano nella parte finale de La signorina Felicita ovvero la Felicità:
Giunse il distacco, amaro senza fine,
e fu il distacco d’altri tempi, quando
le amate in bande lisce e in crinoline,
protese da un giardino venerando,
singhiozzavano forte, salutando
diligenze che andavano al confine …
All’addio, però, si collega spontaneamente l’dea del dolore di un distacco, sebbene a volte il saluto appaia nella luce di speranza d’un rivedersi, com’è in certe conclusive formule epistolari del Sette e dell’Ottocento. Basterà ricordare la confidenza e l’affetto con cui si chiudono certe lettere leopardiane:
“Addio, Giordani mio” (a Pietro Giordani, 14 luglio [1817); “Addio, mio caro e soavissimo Giordani” (allo stesso, 8 agosto [1817]; “Addio addio mio in comparabilissimo Giordani” (allo stesso, 11 agosto [1817]); “Addio, caro Giordani. […] Addio addio” (allo stesso, 11 ottobre 1817); “Addio, carissimo e dilettissimo mio. […] Addio, addio” (allo stesso, 22 dicembre 1817).
E si potrebbe continuare ad esemplare, ma risulterebbe ripetitivo e inutile. È un addio, questo delle lettere di Leopardi al Giordani, che sottolinea una confidenza interamente acquisita; ed è nel luglio del 1817 che, con l’amico con cui intrattiene un rapporto per ora solo epistolare, il poeta abbandona le formule cerimoniose delle lettere precedenti. È per molto tempo l’unicocorrispondente col quale Leopardi si permetta tanta famigliarità. La ripetizione delle formule traduce la piena d’affetto che Leopardi riversa sulla prima persona con la quale, nella sua vita, riesce ad entrare in consonanza intellettuale e dalla quale sente di ricevere una risposta piena, non deludente. “Cara e bell’anima” lo saluterà in una lettera del 26 aprile 1819.
Un diverso addio quello registrato in due lettere leopardiane non datate ma certo databili alla fine di luglio del 1819, al momento della progettata fuga da Recanati: rispettivamente al fratello Carlo e al padre, Monaldo Leopardi. Scriveva nella prima:
Addio, salutami Paolina e gli altri. Poco mi curo dell’opinione degli uomini, ma se ti si dà occasione, discolpami. […] Addio. Abbraccia questo sventurato. Non dubitare, non sarai tu così. […] Chi sono io? Un uomo proprio da nulla. […] Addio, caro, addio.
Nella lettera al padre manca la parola addio e qualunque formula che la contenga, ma la lettera vuol costituire un addio di fatto: ossequiosa nella forma, fin dove può essere ossequiosa l’espressione di un animo profondamente turbato, essa è un duro, spietato atto d’accusa al padre.
L’addio, com’è noto, restò nella pagina;la progettata fuga fu scoperta e sventata.
2. Una retorica dell’addio?
Gli sparsi esempi ricordati inducono a porre una domanda: c’è una retorica dell’addio? Alla domanda si può rispondere affermativamente. Del resto, e s’è potuto vedere, una retorica dell’addio era leggibile tra le righe delle definizioni del Tommaseo-Bellini. Una retorica fondata su schemi e formule semplici, determinati quasi esclusivamente dalla intensità affettiva e dalle motivazioni dell’addio. Si direbbe che nell’addio le formule sono semplici e limitate rispetto alla quantità di situazioni cui si possono riferire.
Abbiamo visto, finora, le situazioni dettate dall’affetto; ma addio può essere forma di deplorazione per qualche evento irrimediabile o può servire (come suggerisce il Tommaseo, ancora) “per troncare un discorso, che minacci d’impazientire, con scherzo che tiene più o meno dello scherno, e con un poco di cantilena nella voce”. Dove singolare è l’attenzione del Tommaseo alla modalità vocale dell’addio adibito a tagliare un discorso sgradevole. E c’è, altrettanto significativa dell’erogazione, la negazione dell’addio, della formula, se ancora nel Tommaseo-Bellini s’annota, a proposito dell’espressione “Senza dire addio”, che essa
Vale non solo Senza pronunziare queste parole o fare gli atti delle dipartenze, ma bruscamente, di subito, con sconoscenza villana.
Una retorica elementare; efficace, però, per quanto poco articolata. Fondata su due accezioni principali: addio come segnale di un distacco temporaneo o come registrazione d’un distacco definitivo e, relativamente, addio come spazio della speranza e addio come abbandono della speranza; come soglia di passaggio o come soglia di uscita.
3. Addio e sentimento del tempo
L’addio è, forse, la situazione, o una delle situazioni, che più acutamente (e quasi sempre dolorosamente) si lega a un sentimento del tempo, alla percezione della fragilità dell’uomo nella sua collocazione temporale. Un passaggio che rimescola confusamente le carte; che può mandare bruscamente all’aria il gioco della vita, anche quello ordito e condotto con maggior cura.
Se l’addio è il momento deputato di una coscienza amara della fragilità dell’uomo e, spesso, di quella dei suoi sentimenti, esso sembra anche legarsi a un preciso momento, a una sezione di tempo, crepuscolare o notturna in senso reale o metaforico. Il declinare del giorno, il buio serale o notturno, l’incerto presentimento dell’alba nel momento in cui la notte sta per cederle il passo, costituiscono lo scenario temporale di tanti celebrati addii letterari. Si ricordi Dante, e il fermo – ma intimamente commosso – inizio del canto VIII del Purgatorio:
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more… (vv. 1-6).
È l’addio che sommuove un mondo di affetti: dolcezza dell’amicizia e pena del distacco, puntura d’amore e rimembranze care suscitate dal suono d’una campana; e la campana stessa, che suona la malinconia di un distacco, d’un tempo che non sarà più, che passa come passa l’uomo – peregrin – sulla terra. La campana: un oggetto; ma sembra anch’essa umanizzarsi nel pianto sul giorno che muore; e nel Purgatorio questo preludiare sull’addio è preludio al canto dell’inno ambrosiano Te lucis ante …: invocazione, al morire del giorno, contro i phantasmata notturni, l’angosciante riemergere di tentazione e memoria della colpa.
Serale-notturno è l’altro celebre addio nella nostra letteratura: quello di Lucia nei Promessi Sposi. È un caso trovarlo nel capitolo ottavo del romanzo, come quello dantesco nel canto ottavo del Purgatorio? Forse no. A ogni buon conto ricorderò, sulla scorta di chi ha studiato le simbologie numeriche, che l’otto era “simbolo dell’eternità dopo il mutevole” e che, “oltre ad indicare la spes aeternae resurrectionis è numero cristologico per eccellenza in quanto è ottenuto dall’unione di 7+1 quasi a rappresentare la morte e la resurrezione del Cristo”. L’otto è simbolo dell’infinito, dell’equilibrio universale, della rigenerazione ecc. Ma si tenga conto che, come ha una sua valenza in positivo, l’8 ne ha anche una in malo e diventa “simbolo anticristologico e collegato al Diavolo apocalittico della moltitudo omnium vitiorum da cui nascono i principalia vitia. Sarà utile tener presente che è numero legato a morte e resurrezione, e al bene come al male; non perciò onnicomprensivo di situazioni generiche. S’attaglia bene all’addio, che può essere distacco definitivo (morte) o temporaneo e preludente al rinnovato incontro (resurrezione).
Manzoni non è uomo del Medioevo, come Dante, né, ch’io sappia, aveva propensione a indagini numerologiche. Ma, anche se casuale, la collocazione dell’addio nel capitolo ottavo dei Promessi Sposi può acquistare una suggestione nuova una volta nota la simbologia del numero 8.
L’addio di Lucia è morte (almeno provvisoria) delle speranze e dei sogni vagheggiati con tanta fiducia e tenerezza, ma il narratore introduce nei pensieri di Lucia, di cui si fa interprete, un tema di resurrezione, il recupero della speranza e della fiducia a suggello dell’addio, scrive: Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande.
Il momento dell’addio, qui, s’innesta in un tempo della speranza che sormonta il tempo del dolore e delle prove. Ma si diceva del tempo come ‘scenario’ dell’addio. E varrà ricordare il bel notturno che fa da fondale – quieto e pacifico in contrasto con l’agitazione degli avvenimenti – alla manzoniana notte degli imbrogli:
Era il più bel chiaro di luna; l’ombra della chiesa, e più in fuori l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza […]. Ma fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente;
e ancora:
… Tutt’a un tratto, si sentì venir rimbombando dall’alto, nel vano immoto dell’aria, per l’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: “aiuto! aiuto!”;
e infine:
Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo, ecc.
Tra notte e alba si scandisce un altro addio, quello di ‘Ntoni Malavoglia nel grande romanzo verghiano. Quello di ‘Ntoni è un addio non involontario, come quello di Lucia, ma sentito come soluzione necessaria, come uscita da uno spazio (quello della casa e del paese) e da un tempo (la confusa giovinezza che ha perduto il giovane Malavoglia) che non gli appartengono più. “Addio addio! Lo vedete che dovevo andarmene?” dice ad Alessi. E Alessi, che gli legge negli occhi il desiderio di rivedere la casa, lo conduce nel viaggio del distacco definitivo, lo porta attraverso quel breve spazio da cui all’inquieto ‘Ntoni giunge confermato un sentimento di inappartenenza:
“Addio, ripetè ‘Ntoni. Vedi che avevo ragione d’andarmene! Qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti”.
Questo peccatore che è ‘Ntoni non ha speranza che qualcuno, oltre il tempo dell’espiazione, gli prepari una gioia più certa e più grande. Il distacco dai luoghi è definitivo: una specie di autocertificazione di morte. Il perdono richiesto non salva dall’espiazione, e non rasserena il colpevole. ‘Ntoni, lo ha scritto Giacomo Debenedetti ne Il romanzo del Novecento, è uno sradicato, accomunato a tanti sradicati da leggenda, a quei “senza paese, che una maledizione ha bandito da ogni convivenza nei paesi degli uomini, ha condannato a vagare sul mare” (e Debenedetti ricorda l’Olandese volante).
L’addio si costituisce, nella pagina finale dei Malavoglia, come soglia d’uscita, definitivo distacco , morte simbolica. Quello di ‘Ntoni è un distacco paragonabile, per certi versi, a quello di chi lascia il mondo per seguire una via che impone una rinuncia assoluta. L’addio registra, così, un taglio netto, una cesura: il transito verso l’esclusione da un consolidato mondo di affetti, il salto decisivo verso l’immersione (fatale) nel cerchio ostile di un mondo diverso, privo di certezze. Il passo d’addio (en passant ricorderò che Passo d’addio è il titolo di un romanzo di Giovanni Arpino apparso nel 1986) si consuma nel giungere del giorno, nel presentimento del riaversi della luce. A chi è rimasto fedele al proprio destino la luce riporterà non l’amarezza del distacco ma, se non la gioia, la certezza di una quotidianità senza sogni ma sicura di solidi e solidali legami. L’addio disancora definitivamente ‘Ntoni dalla memoria del suo passato, ne fa un battello sbattuto dalla tempesta. Macchia, o ombra, ‘Ntoni sarà cancellato definitivamente dal giorno che sorge, dal consueto ordine delle cose dal quale egli si è, e per sempre, disancorato.
Queste annotazioni, pur rapsodiche, ci hanno portato lontano dal particolare su cui avevamo fissato l’attenzione; ch’era quello del ‘tempo’ nel quale è spesso collocato un addio letterariamente rappresentato. Crepuscolo, notte, alba; e s’è visto. A rafforzare con qualche esempio ancora, basterà richiamare il Carducci di Alla stazione una mattina d’autunno, quel paesaggio di brume, quel sentore di tristezza greve che accompagna l’addio degli amanti e il sentimento di fine di un amore. All’ora del tempo si accompagna la non dolce stagione: la cupezza dell’atmosfera rispecchia quella dell’animo:
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Con la donna amata sono come dileguati luce, calore e vita; il volto luminoso inghiottito dall’ombra, quasi un oscuro presentimento di morte. E occorrerebbe, forse, puntare l’attenzione sul verbo scomparire un cui uso traslato indica il morire:
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
Il saluto è quello dell’addio definitivo, se la partenza della donna non sommuove dolci pensieri di speranza e di rinnovabili incontri ma solo una profonda tristezza e quasi il timore del poeta d’esser divenuto “un fantasma”, uno ch’è di là dalla vita. E forse dal paesaggio – anche morale! – di quella celebre poesia è stata sollecitata l’immaginazione di Montale per l’incipit di un mottetto delle Occasioni:
Lontano, ero con te quando tuo padre
Entrò nell’ombra e ti lasciò il suo addio;
oppure, e basterà, il vano pregare perché non si consumi un addio anche nella memoria:
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala … Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
Il guscio di cicala
Nella prima belletta di Novembre.
4. Addio, giovinezza!
C’è un altro rapporto tra addio e tempo, ed è quello che registra la consapevolezza di certe svolte cruciali nel cammino della vita. Si pensi all’addio alla giovinezza, o a quello – del quarantenne – a una parte della sua maturità.
Addio, giovinezza! fu, alla vigilia della prima guerra mondiale, una specie di manifesto: il manifesto di una gioventù che presto avrebbe dato anche l’addio alla vita nella bufera della grande guerra. La commedia, scritta a quattro mani da Sandro Camasio e Nino Oxilia, oggi è praticamente dimenticata; nel 1911, quando fu rappresentata per la prima volta, costituì un clamoroso successo destinato a durare. Salvator Gotta (altro scrittore semi-dimenticato, o dimenticato del tutto), che ne fu il curatore della stampa, scriveva che Addio, giovinezza! aveva fatto vibrare tutti i cuori in tutti i teatri italiani perché gli autori, Camasio e Oxilia, con mezzi semplicissimi, “seppero trarre [cito] dalla congerie della vita un sentimento d’universale importanza … [e] fermando l’ora in cui l’uomo sta per caricarsi sulle spalle il fardello delle responsabilità e guarda indietro i bei giuochi abbandonati, conseguirono il più nobile fine dell’artista, che è quello di interpretare e celebrare l’anima umana nei suoi moti più salienti e generali”.
Era il meno. Camasio e Oxilia avevano interpretato l’eterno addio da una stagione della vita che si vorrebbe duratura, ed è quella che più veloce passa e più è destinata ad essere rimpianta. Tramontava la giovinezza e tramontava l’ingenuo sogno d’amore dei protagonisti della commedia, Mario e Dorina. Lui, conseguita la laurea in Medicina, che lascia Torino; lei, la ragazza appassionata ma d’umile condizione, che pensa agli errori che farà scrivendogli e che, romanticamente, in pegno del suo affetto, gli regala un portafogli da lei stessa ricamato con le iniziali dell’amato ma, ahimé, ormai fuggitivo Mario.
L’addio , come esigeva il taglio sentimentalistico della commedia, decisamente ormeggiava il patetico:
Dorina: Addio, Mario. (Reprimendo i singhiozzi). Fa buon viaggio!
Mario: Addio, Dori! (Si abbracciano disperatamente). Addio, amore!
Dorina: Scrivimi …
Mario: Sì, sì… Addio, gioia! Addio, giovinezza! Addio!
E si potrebbe immaginare il seguito: lui, lontano, in ascesa: buona posizione, matrimonio borghese, oblio del grande ‘disperato’ amore; lei, arresa al rimpianto, a veder scolorire i sogni ed a cercare, prima che sia tardi, una sistemazione. La prosa della maturità dopo la poesia della giovinezza. Ma se si pensa a quella che fu la sorte dei due autori, si vedrà come quell’addio alla giovinezza si mutò nella tragedia di una serie di addii alla vita. Camasio morì di meningite; la sorella, affezionatissima a lui, si uccise prima ancora ch’egli spirasse, quando udii dai medici la sentenza inappellabile. Nino Oxilia, che per l’amico aveva scritto un commosso ricordo ne La vita cinematografica del 30 maggio 1913, sarebbe morto in guerra nel 1917.
La scia di quell’addio alla giovinezza era come la coda di una funesta cometa. Un seminìo di morte. Nel ricordo di un sogno comune, Oxilia aveva scritto il suo commosso ricordo per Camasio: la retorica del patetico era intrisa di lacrime sincere:
Addio, Camasio! Addio povero Sandro, che cantavi a voce piena la tua giovinezza, addio buon compagno delle ore più dolci […]. Addio lenti peregrinaggi compiuti insieme […] Addio, speranza di percorrere insieme i sentieri più aspri: tu mi hai lasciato solo a metà dell’ascesa erta e la fatica mi parrà più greve senza di te, e la vetta mi parrà meno dolce. Perché presso il tuo letto di morte la mia giovinezza veglia la tua e quando tu sei morto essa è morta… E io dico addio a te e a lei con un solo grido disperato.
Il linguaggio era quello patetico della commedia, le parole le stesse. La vita, però, le portava giù dal palcoscenico, fuori delle finzioni, e il pianto simulato diventava un pianto vero. Con una buona dose di autocommiserazione, ma tutt’altro che mentita.
Il titolo della commedia passò nei necrologi. Oxilia e altri lo usarono per Camasio; Renato Simoni e altri lo usarono per Oxilia. E Simoni, nel suo ricordo di Oxilia apparso nella Illustrazione Italiana del 9 dicembre 1917, scriveva accomunando i due amici di un tempo:
Adesso sì, addio giovinezza! Addio alla vostra cara libera fragrante giovinezza, o fanciulli innamorati della vita. In Nino oggi rimuore anche Sandro. Erano ragazzi romantici e giocondi. Vollero la felicità e sognarono la gloria. Cantori della giovinezza, sono giunti là dove è andato, dove va, nel nome d’Italia, il fiore della nostra gioventù. Oggi i nostri morti sono quasi tutti ventenni.
Un altro addio, meno tragico, meno doloroso, è quello da una stazione (e da una stagione) più avanzata della vita. Il limite, di solito, è quello dei quarant’anni. Qualche pimpante signora se ne distacca leggera buttando giù un po’ di annotazioni frivole sui suoi primi quarant’anni; qualche scrittore prende la cosa molto sul serio e, non proprio capace di sorriderne, si lascia andare, nelle pagine del proprio Diario, a una riflessione un poco immusonita. Mi riferisco a Giovanni Papini che, nel suo Diario, sotto la data del 9 gennaio 1921, scrive:
Oggi finisco quarant’anni. […] Paiono pedanterie cronologiche eppure hanno un significato morale: fine di un’epoca, principio di un’era – un’era per noi, “ombre effimere”! – proponimenti per il futuro, sempre sinceri, sempre smentiti.
E sui quarant’anni come discrimine drammatico, come svolta di una parte dell’esistenza, Riccardo Bacchelli, più tardi rispetto a Papini, avrebbe annotato in Mal d’Africa:
Fra le cose di cui l’uomo s’accorge arrivando ai quarant’anni, c’è l’avviso, […] che gran parte di speranze ed ambizioni non sarà più a tempo – quel tempo che ieri pareva tanto, e magari così lento! – a cogliere ed avverare.
Ma c’è chi non sente il dramma dell’addio a una parte della vita e, in più, a un’esperienza fondamentale collocata nel proprio passato prossimo. Infatti quell’addio registra il maturare, nella coscienza, d’un sentimento del tempo che richiede distacco da abitudini e modi di vita propri di un’età; talvolta distacco da certi modi di impostazione del pensiero e dell’espressione di esso.
Dante, ad es., traguardando dal Convivio l’esperienza (umana e stilistica) della giovinezza e della Vita Nuova scrive:
E se ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. Ché altro si conviene a dire e operare ad una etate che ad altra; perché certi costumi idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra […]. Ed io in quella dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata (Cv I i 17).
E Dante dava una strigliatina, in rima, all’amico Cino da Pistoia rimproverandogli la leggerezza con cui s’innamorava (quasi fosse un giovincello) e il sostare ancora nel cerchio dello stilnovismo: “Io mi credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino…”: dove la coscienza del distacco dallo stilnovo è tutta e solo dantesca nell’affermazione di un superamento che non consente indugi o marce indietro. Lo strazio dell’addio, pur guardato con la fermezza di chi non si abbandona alla disperazione ma, al contrario, si arma di fortezza, è nell’annuncio doloroso di Cacciaguida a Dante nel canto XVII del Paradiso:
Tu lascerai ogni cosa diletta / più caramente …
Che sarebbe stato ben altro che dire addio alla giovinezza e alla poesia della giovinezza.
5. L’addio all’opera…
Forse è il caso di discendere dall’altezza dantesca a qualche piano più basso. È vero che c’è addio e addio e non è che un addio ne valga un altro, ma a vederlo solo con un paio di occhiali ‘nobili’ rischia di saziare. E allora proviamo a guardarlo con lenti più modeste, qualche volta – forse – fin troppo modeste … Ma non è male se non si dimentica che, almeno in passato, la modestia era una virtù: alla quale, pare, abbiamo detto addio.
C’è addio e addio. C’è, per esempio, l’addio come ce lo propongono i melodrammi. Inutile prender le cose da troppo lontano, per esempio dalla metastasiana Didone abbandonata in cui Enea, piazzato in mezzo alla scena, sembra l’asino di Buridano indeciso sul da farsi:
Se resto sul lido,
se sciolgo le vele,
infido, crudele
mi sento chiamar.
E intanto confuso
nel dubbio funesto,
non parto, non resto …
Ma poi, fatta la sua brava cantatina, parte (come dice la didascalia). Strazio di Didone e prevedibile sollievo degli spettatori.
Vediamo come stanno le cose nel melodramma dell’Ottocento e del primo Novecento. C’è un vero spreco di addii. Di solito è il tenore che dà l’addio al soprano; ma qualche volta è il soprano che dà l’addio al tenore, oppure alla casa, o, in combutta col tenore, alla terra. Ce n’è per tutti i gusti.
Nella Lucrezia Borgia di Donizetti, libretto di Felice Romani, i due amici, Gennaro ed Orsini si danno l’addio come due innamorati:
Addio, dunque …
Addio, Gennaro.
[…]
Ah! non posso abbandonarti!
Ah! non io lasciar ti vo’.
Nella Traviata di Verdi, libretto di Francesco Maria Piave, Violetta dà l’addio ai bei sogni ridenti del passato; “le rose del volto già sono pallenti”, si è già al terzo atto e la povera traviata non riuscirà a sbarcarlo, per cui l’opera al terzo atto è bella e conclusa. E anche Gilda morente, nel Rigoletto, fa appena in tempo a dire addio al padre che già il sipario sta per chiudersi impaziente su un altro terzo e definitivo atto del solito Piave (Francesco Maria).
Una maggiore resistenza mostra Aida che, prima di dare l’addio alla terra, spalleggiata dall’amato Radamès, lascia scorrere un quarto atto, del resto breve. Cantano, Aida e Radamès:
O terra, addio; addio, valle di pianti…
Sogno di gaudio che in dolor svanì…
A noi si schiude il cielo e l’alme erranti
Volano al raggio dell’eterno dì.
Insomma, per quanto la situazione sia tragica, l’addio dell’Aida non divide ma riunisce definitivamente gli amanti inscrivendone la fine nel binomio romantico di amore e morte. L’addio alla terra cementa l’unione dolorosa e dà modo a Verdi di scrivere una pagina musicale toccante nella sua serenità.
Non mancano addii nel Ballo in maschera, al terzo atto. Addii sopra le righe. Riccardo ed Amelia, dopo ardenti melodrammatiche dichiarazioni d’amore giungono all’addio. Anche in questo caso gli ingredienti di sicuro effetto sono amore e morte.
Riccardo!
Amelia: anche una volta addio,
L’ultima volta!
Ed è proprio l’ultima, perché il perfido Renato trafigge Riccardo, e Riccardo, prima di cadere e spirare – dopo aver cantato quanto era necessario cantare – finalmente chiude con un ultimo addio:
Addio per sempre, o figli miei … per sempre
Addio … diletta America …
(e dell’addio del Ballo in maschera ha approfittato Mario Soldati per ricavarne il titolo di un suo romanzo del 1979, Addio diletta Amelia: dove Amelia sta per America). E come non ricordare, sempre nella produzione verdiana, uno degli addii operistici più famosi, quello del Trovatore, l’appassionata dichiarazione di Manrico:
Sconto col sangue mio
L’amor che posi in te! …
Non ti scordar di me!
Leonora, addio!
Un addio che dovette piacere a Pirandello se proprio Leonora, addio si intitola una delle sue novelle. E d’altri addii è punteggiato qua e là Il Trovatore.
Nei cassetti del melodramma ci sono addii di tutte le specie. Un piccolo palleggio con l’addio eseguono Fernando e Leonora nella Favorita di Donizetti:
Fernando: Pria freddo il cor mio
Per morte sarà,
ma dirti l’addio
ah mai non potrà.
Leonora: Ah freddo il cor mio
Per morte sarà,
Nel dirti l’addio!
Ma dirtel dovrà.
Insomma, nel melodramma non si scappa dall’addio. C’è nella Bohème di Puccini, cinguettato da Rodolfo e Mimì:
Mimì: Addio.
[…]
Addio, senza rancore.
Rodolfo: Dunque è proprio finita.
Te ne vai, te ne vai la mia piccina?
Addio, sognante vita.
Mimì: Addio dolce svegliare alla mattina.
Addio rabbuffi!
Rodolfo: Con subite paci!
E in Madama Butterfly Pinkerton canta l’addio al “fiorito asil / di letizia e d’amor” mentre la protagonista, prima di suicidarsi, lo rivolge al suo bambino: “Addio! Piccolo amor!. Ma il più patetico addio, nel melodramma, come vogliono le buone regole, è quello degli amanti uniti fino alla morte e nella morte. Ancora un esempio, da Andrea Chénier. Maddalena, ad Andrea:
Per non lasciarti
Son qui: non è un addio!
Vengo a morire,
vengo a morire anch’io
con te!
Non ci si meraviglia più di tanto se l’addio del melodramma è sempre un po’ troppo turgido, un po’ troppo sentimentalmente sottolineato. Lo richiedeva la convenzione del genere, lo comportava il linguaggio dell’epoca. E al melodramma può riportare, o in un melodramma sarebbe degno di figurare, l’addio di Consalvo ad Elvira nel Consalvo leopardiano:
Elvira, addio. Non ti vedrò, ch’io creda,
un’altra volta. Or dunque addio.
Ma Consalvo non si accontenta di vedere presso di sé, nel momento in cui sta morendo, la donna tanto tempo segretamente amata. Chiede un bacio e lo ottiene. Dopo di che – per l’effetto tonificante del bacio – ha ancora tanto fiato da fare un lunghissimo discorso meglio di ogni tenore che ne ha altrettanto per morire (in scena, e da personaggio) cantando stentoreamente.
6. … e nelle canzoni
Piacque, e sono passati ormai troppi anni, una canzone di Prevert e Kosma che cantava un addio, anzi la memoria di un addio: affidato, quel fondo rimpianto e quel percorso della memoria, alla voce stregante di Juliette Greco.
Due amanti non lo sono più da tempo. Uno, forse, ha dimenticato; l’altro ricorda ma vorrebbe che anche chi ha dimenticato ricordasse i tempi della loro comune felicità. I ricordi ed i rimpianti sono come foglie morte che un freddo vento rapisce verso la fredda notte dell’oblio. Unico legame rimasto, una canzone, quella che uno dei due amanti cantava all’altro. Ma la vita divide coloro che si amano, in silenzio; e l’onda cancella dalla sabbia le orme degli amanti separati. Uno ricorderà. Lui, con un amore silenzioso e fedele:
T’amavo tanto, eri così graziosa;
come vuoi ch’io ti scordi?
È forse il più tenero addio. O la più tenera memoria di un addio, che siano mai apparsi in una canzone. Ed è l’uomo a soffrire più della donna; lui che dichiara la profondità della ferita. Come avviene in una poesia di Saba che s’intitola Foglia:
Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.
La canzone non è certo avara di addii. Si pensi alla celebre e popolare Addio, mia bella, addio i cui versi nacquero al tavolino di un caffè, nel marzo del 1848, per essere adattati ad una melodia d’ignoto autore che già era in circolazione. L’autore delle parole, Carlo Alberto Bosi, era, dice un antologista di poesia minore dell’Ottocento, “un modesto brav’uomo” che, sperimentato il successo di Addio, mia bella, addio, pensò di fare il bis scrivendo l’Addio dell’innamorata al volontario. Ma, commentava argutamente Ettore Janni (l’antologista al quale ho accennato), “le innamorate non cantano marciando e la fortuna languì”.
Il protagonista dell’Addio del Bosi, previdente, non aveva voluto partire col timore di essere del tutto dimenticato dalla bella, e le ricordava:
Io non ti lascio sola,
Ti resta un figlio ancor;
Nel figlio ti consola.
Nel figlio dell’amor.
Non ogni addio ha di queste conseguenze,,, demografiche; o non sempre coloro che sospirano addii nelle canzoni hanno la faccia tosta di spiattellare i fatti propri. Se mai l’addio, proprio per il momento che rappresenta, è circondato da languori, come nelle romanze di Tosti e nei fac-simili venuti poi, e magari con minori pretese. Nell’Addio di Tosti e Rizzelli ci sono le rondinelle che lasciano il nido perché “verso altro lido le trae desio”; ciò che obbliga il paroliere a gemere (2 volte): “Estate addio … addio! / Estate addio … addio!”. Ma, ovviamente, l’addio è anche metaforico, come morte della speranza che – siamo nella Belle Époque – è speme, come vogliono i cascami poetici dell’età: “O speme, addio… addio!” – anche in questo caso due volte. Ma per ben tre volte risuona l’addio all’amore, aggiuntovi un anaforico per sempre: “Per sempre, addio!”
Patetico era l’addio al tabarin “paradiso di voluttà” che inghiottiva “nel ventre dorato / i soldi di papà”. Altrettanto patetico l’Addio signora pronunciato da un amante che, dopo aver sognato, s’è svegliato bruscamente battendo il muso (non si vuol dire le corna) contro la verità effettuale delle cose. Un addio che esclude il ricorso a soluzioni tragiche:
Perché mi guardi, pallida
Con quella smorfia strana?
Temi che possa ucciderti
E vendicarmi qui?
No, penso, fra le lacrime
A mamma mia lontana:
non voglio farla piangere
e poi per chi? … Per te! …
Il pensiero onnipotente della mamma (italiana, nella fattispecie) e il deprezzamento della bella signora evitano, per fortuna, almeno nelle canzoni, qualche grave fatto di sangue. Basta prendere le cose con un po’ di (spicciola) filosofia:
Addio, mia bella signora,
lasciamoci così senza rancor
[come Rodolfo e Mimì nella Bohème, da cui il paroliere copia spudoratamente];
al destino che vien
rassegnarsi convien;
sospirare, piangere, perché?
Non vale la pena. Basta, come si dice, farsene una ragione e aspettare che funzioni la medicina del tempo. Ma non c’è bisogno di andare troppo indietro nel tempo a ripescare l’addio nella canzone. L’addio, come situazione, è presente in ogni tempo. Difficile da accettare, può essere il segno di una realtà alla quale non ci si vuole arrendere. Così, ne La canzone di Marinella di Fabrizio De André, il re senza corona e senza scorta non vuole arrendersi all’evidenza di quel definitivo addio che comporta la sorte della fanciulla:
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent’anni ancora alla tua porta.
Un figurino Belle époque sentito con malinconia ed ironia, il ciarpame di un immaginario che può essere rivisitato solo perché la rivisitazione è consentita dalla distanza temporale, è in Vecchio frac di Domenico Modugno.
Non un uomo, più, ma quasi il vuoto involucro, elegante e patetico, di ciò che fu un uomo nel momento di passare volontario tra le ombre. E l’addio al mondo, nel suo bilinguismo, è anche – curiosamente – l’addio ad una lingua che aveva prestato il linguaggio all’immaginario mondano e trasgressivo e sentimentale di un’epoca:
Adieu adieu adieu, addio al mondo …
Ultimi fuochi, fatui, che palpitano un momento nel buio. Ben altri drammi si annunciano, ben altri addii emergono dalle parole dei cantautori. Quello, ad esempio, del Cantico dei drogati di De André; addio dalle fedi che potrebbero consolare e dei sentimenti che potrebbero salvare, in un consapevole lungo viaggio verso la notte:
Ho licenziato Dio
Gettato via un amore
Per costruirmi il vuoto
Nell’anima e nel cuore …
Fino a che l’addio fuoriesce dal rigo musicale e dai ritmi dell’orchestra, dai cerimoniali futili e dallo scintillio dei lustrini e diventa, per Luigi Tenco, un disperato addio alla vita. È il 1967. E l’addio faceva capolino sotto il ciao all’amore:
Andare via lontano,
cercare un altro mondo,
dire addio al cortile,
andarsene sognando …
Ma non è necessario insistere. Se mai si può cogliere l’attenuazione del dolore di un addio attraverso una specie di gioco, come in Arrivederci di Umberto Bindi:
… esco dalla tua vita,
salutiamoci,
arrivederci,
questo sarà l’addio
ma non pensiamoci …
Il tragico si attenua nel pudore di sentimenti meno gridati. I cantautori degli anni Sessanta restituiscono all’addio una misura di dignità evitando sia la scivolata nel melodramma sia la sottolineatura dello strazio. Se mai qualche nota da inno politico s’intrude e prende eccessivo rilievo, ma il ritornello sembra consegnare a una dimensione di fiabesca ballata quanto appare troppo esposto o dichiarato sul piano dell’impegno, come nella canzone di Sergio Endrigo Anch’io ti ricorderò:
Addio, addio, chi mai ti scorderà?
Addio, addio, anch’io ti ricorderò.
7. Altre voci, altri addii
Insistere ancora diventerebbe tedioso. E velocemente è giusto condurre in porto la navicella di questa navigazione nel mare dell’addio. Con la consapevolezza che si tratta di un mare magnum che abbiamo navigato appena bordeggiando.
Valga, perciò, al momento di concludere, qualche altra veloce osservazione, qualche altro rapido esempio.
Espressione dell’addio è l’autobiografia, il diario, il libro di memorie. Il diario è come un addio a se stessi, in cui s’insinua la consapevolezza che anche la memoria non può farci ripassare la soglia dell’addio, non può restituirci nulla realmente di quel che fu vissuto. Così nella riflessione di Francesco De Sanctis:
A che giovano le memorie? Di noi muore la miglior parte, e non c’è memoria che possa risuscitarla.
L’addio ‘rappresentato’ (in opere letterarie, liriche, canzoni, ecc.) è un addio destinato a replicarsi indefinitamente, nella durata dell’opera in cui è rappresentato, sempre uguale a se stesso per la forma, rinnovato continuamente nell’interpretazione. Come la fenice mitica, muore e rinasce; ciò che non accade nella vita, dove gli addii, anche quelli provvisori, hanno carattere di unicità e di irrepetibilità.
L’addio si consuma talvolta tra parole e silenzio. Silenzioso il distacco di Virgilio da Dante sul monte del Purgatorio; di appassionata gratitudine che si esprime nell’ardore della parola quello di Dante da Beatrice nella gloria del Paradiso. In un caso e nell’altro l’addio è giustificato come restituzione della creatura alla pienezza della propria libertà morale.
Anche Dio, mi piace pensare, ha il suo momento di malinconia quando deve dire addio all’uomo scacciato dal paradiso terrestre, quando deve far sentire che un avvenimento ha determinato la separazione tra il creatore e la sua creatura. E necessario è l’addio che l’artista dà alle creature della sua immaginazione: Pirandello ai suoi personaggi non compiuti, allontanati nel momento in cui avrebbero desiderato esprimere interamente il proprio dramma.
Mi piace ricordare, in conclusione, un singolare addio. Alla fine di ogni suo libro, lo scrittore francese Gilbert Cesbron si distaccava dai suoi personaggi con un saluto. Li scioglieva da sé, li mandava nel mondo, attraverso i libri, a vivere la loro vita. E il saluto era come un segno estremo di affetto per tutti i suoi personaggi, buoni o cattivi che fossero. Se ne distaccava con queste trepide parole:
Addio, dunque, creature del mio cuore.