di Gianluca Virgilio
Avvertenza
I racconti sono ordinati cronologicamente, secondo la data di composizione. Se lo scritto è datato dall’autore, vale la data indicata; altrimenti si fa riferimento alla data di pubblicazione in prima edizione del volume in cui il racconto compare, a meno che lo stato degli studi non consenta di accertare la data di composizione. Tutto questo è detto nelle note introduttive premesse a ciascun racconto. Inoltre, di volta in volta, nelle medesime note sarà reso noto il contesto letterario in cui è stato individuato il racconto (autobiografia, necrologio, discorso celebrativo, vari) e la tipologia dell’incontro (visita, presentazione (o autopresentazione), incontro scolastico, incontro-convegno, incontro fortuito). Il racconto è seguito dalla indicazione bibliografica.
Primi incontri alla fine dell’Ottocento
1
Luigi Settembrini – Basilio Puoti
Luigi Settembrini (Napoli, 1816-1872) nelle Ricordanze della mia vita rievoca l’incontro con il marchese Basilio Puoti (Napoli, 1782-1847), avvenuto a Napoli circa nel 1833. L’episodio ricalca quello del primo incontro tra De Sanctis e Puoti[1] nello stesso anno 1933, che da quello dipende, a conferma dell’importanza che gli uomini del risorgimento italiano attribuirono al purista napoletano. Il giovane Settembrini, di sua iniziativa, spinto dalla fama del Puoti, va a trovarlo e audacemente gli si presenta. Dopo rapido e accurato esame viene accolto nella sua scuola. La tipologia dell’incontro è duplice: all’autopresentazione si sovrappone l’incontro scolastico.
La prima edizione delle Ricordanze della mia vita è quella di Napoli, Morano, 1879-1880, in due volumi, con prefazione di Francesco De Sanctis.
Nulla dies sine linea
Ci è ancora chi lo [Basilio Puoti] chiama pedante: eppure la pedanteria è un santo rigorismo in mezzo alla licenza, ed ha un profondo significato nella storia del pensiero. Per me io credo ed affermo che la sua scuola in fatto di lingua ne seppe più che ogni altra in Italia, e che tra noi, se vi fu e vi è gusto di buona lingua, tutti direttamente o indirettamente ne sono obbligati a lui. Rarissimo uomo, chi lo conobbe da vicino ne amerà sempre la memoria.
Mi ricordo la prima volta che lo vidi. Senza raccomandazioni, me gli presentai così alla buona, tirato da la buona fama della sua bontà e del suo sapere.
Lo trovai fra una dozzina di giovani in una stanza dove non era altro arnese che libri negli scaffali, su le tavole, su le seggiole; ed in un canto v’era il suo letto dietro un paravento. “So che amate i giovani,” io gli dissi “ed io desidero farmi amare da voi.” “Bravo, giovanotto; se vuoi studiare, saremo amici. Vediamo quello che sai: spiegami un po’ degli Ufficii di Cicerone.” Spiegai, risposi a varie dimande: “Bene, batti sul latino ogni giorno: ogni giorno una traduzione dal latino e una lettura d’un trecentista. Nulla dies sine linea.” E mi accettò tra i suoi scolari. Ei non viveva che di studi, in mezzo ai giovani, ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi passeggiava, con essi lavorava ai commenti dei molti classici che fece ristampare per diffondere la buona lingua; ad essi dava consigli, libri, avviamento; molti ritrasse da pericoli, a molti diede anche il suo. (…)
L’opera del Puoti rimane e rimarrà, sebbene trasformata dai suoi discepoli, che vivono una vita novella e non sono più napoletani, ma italiani.
Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, in Memorialisti dell’Ottocento, La letteratura Italiana. Storia e testi, tomo I, a cura di Gaetano Trombatore, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1953, pp. 607-609.
2
Francesco De Sanctis – Giacomo Leopardi
Francesco De Sanctis (Morra Irpina 1817 – Napoli 1883) ha modo di conoscere, ancora giovinetto, alla scuola di Basilio Puoti, il conte Giacomo Leopardi (Recanati 1798-Napoli 1837). Siamo a Napoli nel 1836 ed è ancora lontano il tempo degli studi critici di De Sanctis sul poeta recanatese (solo nel ’76 tenne un corso su Leopardi all’università di Napoli). Ma questo primo (e ultimo) incontro con Leopardi ha il sapore di un’investitura: “il conte mi volle a Sè vicino, e si rallegrò meco, e disse ch’io avevo molta disposizione alla critica”, scrive il critico irpino. Insomma, l’opera critica su Leopardi di De Sanctis si giustifica anche così. L’incontro rientra nella tipologia dell’incontro scolastico.
Il brano qui riportato è parte delle Memorie, cui De Sanctis attese dal 1881 (cioè dopo aver curato la pubblicazione delle Ricordanze della mia vita del Settembrini), e che Pasquale Villari pubblicò postume nel 1889 col titolo La giovinezza.
Un colosso
Intanto Giacomo Leopardi era giunto tra noi. Avevo una notizia confusa delle sue opere. Anche di Antonio Ranieri non sapevo quasi altro che il nome. Il marchese citava spesso con lodi l’abate Greco, autore di una grammatica, il marchese di Montrone, il Gargallo, il padre Cesari, il Costa, e sopra tutti essi Pietro Giordani. Tra nostri citava pure il Baldacchini, il Dalbono, il Ranieri, l’Imbriani. Di tutti questi non avevo io altra conoscenza se non quella che mi veniva dal marchese. Una sera egli ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi; lodò brevemente la sua lingua e i suoi versi. Quando venne il dì, grande era l’aspettazione. Il marchese faceva la correzione di un brano di Cornelio Nepote da noi volgarizzato; ma s’era distratti, si guardava all’uscio. Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentre il marchese gli andava incontro. Il conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri, ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso. Uno degli “Anziani” prese a leggere un suo lavoro. Il marchese interrogò parecchi, e ciascuno diceva la sua. Poi si volse improvviso a me: “E voi, cosa ne dite, De Sanctis?” C’era un modo convenzionale in questi giudizi. Si esaminava prima il concetto e l’orditura, quasi lo scheletro del lavoro; poi vi si aggiungeva la carne e il sangue, cioè a dire lo stile e la lingua. Quest’ordine m’era fitto in mente, e mi dava il filo, era per me quello ch’è la rima al poeta. L’esercizio del parlare in pubblico avea corretto parecchi difetti della mia pronunzia, e soprattutto quella fretta precipitosa, che mi faceva mangiare le sillabe, ballare le parole in bocca e balbutire. Parlavo adagio, spiccato, e parlando pensavo, tenendo ben saldo il filo del discorso, e scegliendo quei modi di dire che mi parevano non i più acconci, ma i più eleganti. Parlai una buona mezz’ora, e il conte mi udiva attentamente, a gran soddisfazione del marchese, che mi voleva bene. Notai, tra parecchi errori di lingua, un onde con l’infinito. Il marchese faceva sì col capo. Quando ebbi finito, il conte mi volle a Sè vicino, e si rallegrò meco, e disse ch’io avevo molta disposizione alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente più alla proprietà de’ vocaboli che all’eleganza; una osservazione acuta, che più tardi mi venne alla memoria. Disse pure che quell’onde con l’infinito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia o scandalo di tutti noi. Il marchese era affermativo, imperatorio, non pativa contraddizioni. Se alcuno di noi giovani si fosse arrischiato a dir cosa simile, sarebbe andato in tempesta; ma il conte parlava così dolce e modesto, ch’egli non disse verbo. “Nelle cose della lingua, -disse-, si vuole andare molto a rilento”, e citava a prova Il Torto e il Diritto del padre Bartoli. “Dire con certezza che di questa o quella parola o costrutto non è alcuno esempio negli scrittori, gli è cosa poco facile”. Il marchese che, quando voleva, sapeva essere gentiluomo, usò ogni maniera di cortesia e di ossequio al Leopardi, che parve contento quando andò via. La compagnia dei giovani fa sempre bene agli spiriti solitari. Parecchi cercarono di rivederlo presso Antonio Ranieri, nome venerato e caro; ma la mia natura casalinga e solitaria mi teneva lontano da ogni conoscenza, e non vidi più quell’uomo che avea lasciato un così profondo solco nell’anima mia”.
Francesco De Sanctis, La giovinezza, Einaudi, Torino, 1961, pp. 74-76.
3
Edmondo De Amicis – Jules Verne
Accompagnato dai suoi due figli, Edmondo De Amicis (Oneglia 1846 – Bordighera 1908) si reca a far visita al famoso e anziano scrittore francese Jules Verne (1828-1905) nella sua casa di Amiens, dove rimane ospite per una giornata. La sua prima reazione alla vista dello scrittore tanto a lungo letto e ammirato è, com’egli dice, di stupore; grande, difatti, è la differenza tra la potenza immaginativa della pagina scritta e la figura prosaica di un attempato borghese che gli compare davanti. Sicché infine De Amicis, sebbene preso e quasi commosso dalla bonomia dell’artista, deve concludere che il suo amico torinese aveva ragione: Jules Verne è solo uno pseudonimo collettivo.
Riporto il brano iniziale dello scritto autobiografico datato ottobre 1895.
Jules Verne non esiste
Andammo a trovare il Verne ad Amiens, dove sta tutto l’anno, a due ore e mezzo di strada ferrata da Parigi. Una lettera scritta da lui al mio buon amico Caponi m’accertava che la sua accoglienza sarebbe stata più che cortese, e questa certezza faceva più vivo il mio desiderio antico, e quello dei due cari giovinetti che eran con me, di conoscer di persona l’autore ammirato e amato dei Viaggi straordinari; il quale, fuor dei suoi libri, ci era sconosciuto affatto, poiché non n’avevamo mai visto neppure un ritratto in fotografia. Parlavamo appunto, durante il viaggio, del caso singolare, che d’un scrittore francese vivente e così celebre si sapesse dal più dei suoi così poco, quando del carattere e della vita di quasi tutti gli altri si avevan notizie continue e minute, e anche indiscrete, come dei re e degli imperatori; e la nostra curiosità era accresciuta da questo mistero.
Picchiammo alla porta d’una palazzina, posta all’imboccatura d’una strada solitaria, in un quartiere signorile, che pareva disabitato. Ci aperse una donna, che ci fece attraversare un piccolo giardino e entrare in un’ampia sala a terreno, piena di luce; e subito comparve Jules Verne, col viso sorridente e con le mani tese.
Se, incontrandolo senza conoscerlo, m’avessero dato a indovinare la sua condizione, avrei detto: un generale in riposo, o un professore di fisica e matematica, o un capo di divisione di Ministero: non un artista. Non dimostra gli ottant’anni a cui è vicino, ha un po’ la travatura di membra di Giuseppe Verdi, un viso grave e buono, nessuna vivacità artistica nello sguardo e nella parola, maniere semplicissime, l’impronta di una grande sincerità in ogni manifestazione più sfuggevole del sentimento e del pensiero, il linguaggio, gli atteggiamenti, il modo di vestire d’un uomo per cui non conta assolutamente nulla il parere. Il mio primo senso, dopo il piacere di vederlo, fu di stupore. Fuorché nella bontà dell’aspetto e nell’affabilità dei modi non riconoscevo nulla di comune tra il Verne che mi stava davanti e quello che era prima nella mia immaginazione. E mi tornarono in mente le parole che m’aveva dette, tra il faceto e il serio, un mio amico di Torino: – Lei va a vedere Jules Verne? Ma se Jules Verne non esiste! Non sa che i Viaggi straordinari sono d’una società di scrittori che hanno preso uno pseudonimo collettivo? – Crebbe il mio stupore quando, condotto a parlare delle sue opere, ne parlò con un fare quasi distratto, come avrebbe fatto delle opere d’un altro, o meglio come di cose in cui non entrasse alcun merito suo, d’una collezione di stampe o monete, ch’egli avesse acquistate, e delle quali s’occupasse più per bisogno di far qualche cosa, che per passione dell’arte. Tentò più volte, in principio, di stornare il discorso da sé stesso per volgerlo cortesemente sopra un’altra persona, e, non riuscendogli, lo fece cadere con garbo sui suoi due giovani visitatori.
Ma fu pure forzato, in fine, da una domanda diretta a dire del suo modo di concepire e di scrivere, e lo fece in poche parole, con grande semplicità e con chiarezza ammirabile.
Edmondo De Amicis, Una visita a Jules Verne, in Memorie, Treves, Milano 1904.
4
Gabriele D’Annunzio – Enrico Nencioni
Quanto segue è parte dell’Elogio funebre che Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938) scrisse in onore di Enrico Nencioni (Firenze1837 – Ardenza 1896) nell’agosto del 1896. In esso racconta la visita all’illustre anglista avvenuta nell’aprile del 1881, quando il poeta pescarese aveva appena diciott’anni, mentre Nencioni era già un uomo maturo. Si noti la commozione che pervade il ricordo, la stessa che spinse i due ad abbracciarsi fraternamente, malgrado la differenza d’età, nel momento del loro primo incontro. Più avanti, nello stesso necrologio, D’Annunzio definisce il critico il “mio dolce pedagogo fiorentino Enrico Nencioni” (vedi la p. 914 dell’op. cit. in basso): perfettamente calzante è dunque il paragone tra i due e Socrate ed Alcibiade, stretti, gli uni e gli altri, da un fraterno rapporto pedagogico.
Socrate e Alcibiade
Ho ancòra lucida e precisa nella memoria l’imagine di lui quale mi apparve la prima volta in un lontanissimo giorno della mia puerizia. Egli era allora nella sua piena virilità, forse nel momento più fortunato della sua vita, preso anch’egli nell’illusione di quella specie di rinascenza letteraria promossa dal robusto paganesimo delle Odi barbare, già tutto penetrato dalla poesia di Roma dov’egli viveva allora: da quella poesia ch’egli doveva più tardi rivelarmi, eloquentissimo pedagogo, conducendo me giovinetto sotto i cipressi della Villa Ludovisi e tra gli elci della Villa Medici. Io era un fanciullo, triste prigioniero in un gran collegio toscano dove la disciplina troppo duramente soffocava la mia precoce avidità di vivere e feriva la mia sensibilità già inquieta. Avevo scritto a lui dalla mia prigione, in un giorno d’insofferenza più aspra e di malinconia più grave; ed egli mi aveva risposto senza indugio, con impreveduta benignità, comprendendo il mio male, versando sul mio ardore la dolcezza delle sue parole fraterne. Fratello egli mi parve fin da quel tempo, fratello più che padre, poiché la sua anima era la più giovenile ch’io m’abbia conosciuto mai, e tale restò sempre pur nell’estrema decadenza della sua carne miserabile.
Trovandosi in Firenze desiderò di vedermi, di parlar meco. Ed io mi ricordo, come d’un immenso abbagliamento, di quel mattino fiorentino in cui mi mossi verso la casa dov’egli mi aspettava. Era d’aprile, e la città armoniosa risplendeva tutta quanta in una di quelle stupende illuminazioni pasquali che davano “volontà di dire” al giovane Allighieri prima dell’esilio. Io mi pensava di andare a cresimarmi per la gloria; e il lieto rumore delle vie popolate giungeva al mio orecchio come di lontano.
Salii le scale d’un tratto, palpitando, avendo ancora negli occhi il barbaglio esteriore; e fui introdotto in una stanza un poco oscura, le cui pareti erano interamente occupate da scaffali folti di volumi. L’uomo illustre mi venne incontro per abbracciarmi; e io sentii subito che la mia commozione s’era comunicata a lui, e ch’egli non era più per me un estraneo ma un congiunto prediletto ch’io rivedessi dopo una lunga assenza con lagrime di gioia. Egli era alto della persona e magro, con qualche cosa di vibrante in ogni sua attitudine, come se continue onde di forza nervosa attraversassero la sua debilità; aveva gli occhi azzurri ed entusiastici, la bocca così fine che si alterava ad ogni più piccolo moto dell’anima, la fronte straordinariamente pura come quella che non visitavano se non le belle idee; e le sue mani lunghe e sensitive sapevano i gesti che tracciano nell’aria l’effigie dei fantasmi mentali, come la sua voce appassionata sapeva gli accenti che convengono alle sillabe rivelatrici nei ritmi della grande poesia.
Fresco dei Dialoghi platonici, io pensai che fosse il lui qualche parte di quella incitante virtù che emanava da Socrate sulla varia corona dei discepoli; poiché anche a me, come ad Alcibiade, il cuore balzava assai più che ai coribanti, mentre l’udivo, e l’anima turbata si appenava come di sentirsi servile. Io non ho conosciuto alcuno che, parlando di cose spirituali, giungesse ad una tale intensità di calore comunicativo. E in quel giorno, mentre ascoltavo, apparivami singolare il contrasto fra quella sua alta fiamma di vita e la gelida stanza triste ov’eravamo seduti.
Gabriele d’Annunzio, Elogio di Enrico Nencioni, in Prose di ricerca…, III, Mondadori, Milano Verona 1968, pp. 374-376.
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Giovanni Pascoli – Giosue Carducci
In occasione del 35° anniversario dell’insegnamento (9 novembre 1896) di Giosue Carducci (Val di Castello 1835 – Bologna 1907), Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 – Bologna 1912) rievoca il suo primo incontro con il poeta di Val di Castello. Siamo nel 1873 a Bologna dove Pascoli diciottenne si era recato per partecipare al concorso bandito dal Comune a sei sussidi per chi frequentasse l’università di Bologna e fosse privo di mezzi. Il “vecchio scolaro”, parla di sé in terza persona. I ricordi si affollano sulla pagina e danno alla rievocazione un tono commosso e fortemente patetico. Lo scritto è stato poi inserito nel volume Limpido rivo. La tipologia è quella dell’incontro scolastico.
Il sorriso del maestro
Il vecchio scolaro era allora un povero ragazzo smilzo e scialbo. Veniva dalla Romagna, da una casuccia dove una famiglia di ragazzi, di ragazzi e bambine soli soli, fatti orfani da un delitto tuttora impunito, e poi abbandonati e lasciati soffrire soli soli (era indifferenza della gente? era viltà?); una famiglia che aveva per capo il ragazzo più grande [Giacomo], sedicenne appena quando ebbe tutta la nidiata da imboccare; faceva economia.
Il ragazzo più grande (ora non vede e non sente più nulla, di là dove da un pezzo dimora, tra Savignano e San Mauro, a mezza strada), il ragazzo che faceva da babbo, credeva di scorgere in uno dei suoi figliuoli fratelli una certa disposizione alle lettere. Poi, in quell’anno, era bandito per la prima volta il concorso a sei sussidi per chi studiasse lettere nell’università di Bologna. […] il ragazzo più grande udì il buon invito: fornì il suo minore (il vecchio scolaro: oh! dolcezza amara di ricordi) di poche lire, troppe per chi le dava, un po’ pochine per chi le riceveva; lo imbarcò solo soletto in una terza classe del treno e gli disse: Tuo babbo ti aiuti! Era il giorno avanti il primo esame. La mattina dopo, il povero ragazzo smilzo e scialbo si trovava tra una ventina d’altri ragazzi, venuti da tutte le parti d’Italia, o sorridenti o rumorosi, aspettando… Aspettando chi? Carducci. Egli doveva venire a dettare il tema d’Italiano. Proprio Carducci? Carducci in persona.
Oh! il povero ragazzo aspettava con forse il maggior palpito. Egli non aveva nel suo ingegno e nei suoi studi la fede che aveva il suo fratello maggiore; egli prevedeva, ahimè! di doversene tornare a casa, di lì a pochi giorni, come era venuto… cioè non come era venuto, ma senza quelle lire, o troppe e troppo poche; e trovare più freddo il freddo focolare quando si fosse spenta quest’ultima speranza. Ma non per questo palpitava allora il ragazzo, egli palpitava per l’aspettazione di colui che doveva apparire tra pochi minuti.
Nel collegio, donde era uscito anni prima (un ottimo collegio di scolopi), egli aveva sentito parlare di Carducci; come, si può immaginare: aveva cantato Satana! Un bel giorno però uno degli scolopi, il professore d’italiano, ingegno elegante e ardito, anima e fiera e gentile, il padre Donati, nella sua cella gli mostrò un ritratto: un ritratto di giovane avventuriere, cospiratore, soldato o che so io; una testa pugnace, audace, di ribelle indomabile. Il ragazzo pensò forse a un prigione d’Aspromonte, a un caduto di Mentana. “Questo”, disse il frate, “è il poeta più classico e più novatore, lo scrittore più antico e più moderno che abbia l’Italia, è il Carducci”. Al frate lucevano gli occhi azzurrissimi, e al ragazzo si cominciò a colorir l’anima di non so qual colore nuovo. Ricordò; e lesse poi quel che poté: ben poco; pure assai perché, nel momento che ho detto, egli palpitasse come forse non altri.
A un tratto un gran fremito, un gran bisbiglio: poi, silenzio. Egli era in mezzo alla sala, passeggiando irrequieto, quasi impaziente. Si volgeva qua e là a scatti, fissando or su questo or su quello, per un attimo, un piccolo raggio ardente de’ suoi occhi nobilissimi. “L’opera di Alessandro Manzoni”, dettò. Poi aggiunse con parole rapide, punteggiate: “Ordine, chiarezza, semplicità! Non mi facciano un trattato d’estetica”. Una pausa di tre secondi; e concluse: “già non saprebbero fare”. Sorrise a questo punto? Chi lo sa? S’indugiò ancora un poco e uscì.
[…]
E qualche giorno dopo ci fu l’esame orale. E il giovinetto romagnolo entrò avanti il consesso giudicante, come se vi fosse travolto da una ventata; e rivide lui e si sentì interrogare. Ma egli qualcosa doveva aver letto nel viso smunto e pallido del ragazzo: leggeva forse il pensiero che appariva tra uno sforzo e un altro per rispondere; pensiero d’assenti, pensiero di solo al mondo, pensiero d’un dolore e d’una desolazione che al maestro non potevano essere fatti noti se non dagli occhi del ragazzo, che pregava forse con essi più che non rispondesse con la bocca; dagli occhi di lui soli, perché nessuno aveva parlato o pregato per lui: certo il maestro interrogava con non so qual pietà e ascoltava le risposte impacciate con una specie di rassegnazione cortese, accomodandole e spiegandole e giustificandole. Passò questo doloroso quarto d’ora; passarono gli altri. Il ragazzo fu richiamato a dare qualche schiarimento sul suo attestato di licenza, sentì o credè sentire che il Carducci, proprio il Carducci, ampliava e chiariva le sue spiegazioni, comunicandole agli altri professori.
Questo lo sollevò un poco; ma ogni barlume di speranza era spento quando due o tre giorni dopo aspettava nell’università la sentenza che doveva essere lì per lì fatta pubblica dagli esaminatori. […]. Basta: a uno squillo di campanello tutti entrarono. Gli esaminatori erano tutti lì: e la fiera testa del poeta si volgeva da parte, come indifferente.
Gandino, il severo e sereno Gandino [il professore di latino], con quel volto che sembra preso a una medaglia romana, scandendo le parole con la sua voce armoniosa, ammonì: “Leggerò i nomi dei candidati secondo l’ordine di merito: i primi sei s’intende che hanno conseguito il sussidio comunale”. Pausa.
Al ragazzo romagnolo batteva il cuore; non solo, per così dire, in anticipazione al palpito che lo avrebbe scosso in quel momento che era per separare il quinto nome dal sesto. Sonò il primo nome nel silenzio della sala… era il suo. In quell’attimo egli, il povero ragazzo, vide lampeggiare un sorriso. Sì: la testa del poeta si era illuminata d’un sorriso subito spento.
Giovanni Pascoli, Ricordi di un vecchio scolaro, in Antologia pascoliana, a cura di Augusto Vicinelli, Mondadori Milano 1962, pp. 427-430.
Primi incontri del Novecento
6
Annie Vivanti – Giosue Carducci
La ventiduenne Annie Vivanti (Senigaglia, Ancona 1863 – Roma 1939), futura poetessa e scrittrice di romanzi fortunati e di facile vena, si reca in visita presso il cinquantacinquenne Giosue Carducci in una giornata invernale del 1890, per chiedere una prefazione ai suoi versi, che gli viene accordata dopo rapido esame. E’ il pegno chiestole dall’editore Emilio Treves (incontrato anche lui per la prima volta) in cambio della pubblicazione delle sue poesie; insomma, la tipica situazione vissuta da chissà quanti giovani scrittori esordienti alla ricerca di uno sponsor. Il racconto del primo incontro con Carducci, dal sapore fiabesco[2] (la fanciulla nella tana dell’Orco), ci mostra un poeta dotato di sense of humour, anche se un po’ impacciato in questa ricerca insensata del manicotto (poi stranamente dimenticato). Il ritratto del Carducci, scritto per celebrare i suoi settant’anni, di cui diamo qui il brano iniziale, è del 1906, un anno prima della morte.
Un amoroso incontro, ovvero il manicotto dimenticato
Io non so scrivere di Giosue Carducci come del grande Poeta d’Italia. Per me egli non è Enotrio Romano, non l’ardente cantore di cui il nome va, risonante di gloria, per il mondo. Egli è per me l’amico adorato, l’ideale della mia sognante fanciullezza, il secondo padre della mia orfana gioventù. E la sua mano mi sorresse e m’innalzò nella turbolenta primavera di mia vita.
“Carducci!” Ero una piccola bimba, seduta con la bambola alle ginocchia di mia madre, quando per la prima volta udii quel nome. La mia dolce mamma tedesca parlava di poesia italiana con suo fratello, Rudolph Lindau, venuto dalla Germania a trovarci. Dante, Petrarca, Leopardi… i nomi passavano nel loro suono familiare e incompreso, noti e vuoti al mio orecchio infantile. Poi un nome nuovo: Carducci. Mia madre citò con la sua cara voce mite un sonetto:
Passa la nave mia, sola tra ‘l pianto
Degli alcion per l’acqua procellosa…
L’ultima strofa colpì la mia giovane fantasia:
Voghiam, voghiam, o disperate scorte,
Al nubiloso porto dell’oblio,
A la scogliera bianca della morte.
Ricordo che mia madre ripetè lentamente i due ultimi versi. Ahimè! pochi mesi dopo la nave sua fu chiamata alla tragica scogliera, e passò, sola tra ‘l pianto, nelle buie e silenziose acque.
E non udii più pronunciare il nome di Carducci.
*
**
Un giorno, nel 1890, a Milano, mi trovai timida e tremante dinanzi al formidabile scrittoio dell’editore Emilio Treves. Egli teneva tra due dita sdegnose un sottile rotolo manoscritto che io gli avevo portato.
– Che roba è? – mi chiese egli.
Io risposi arrossendo che erano poesie.
– Per carità! porti via, porti via – diss’egli agitato.
– Ma come, – balbettai – se non le ha nè pur lette!
– Leggerle?! – esclamò il commendatore con la sua grossa risata – leggerle?! Crede Lei che noi stiamo qui a leggere poesia? Noi siamo qui per fare degli affari. Buon giorno!
Forse gli apparvi piccola e triste quando volsi le spalle e me ne andai verso la porta, perché aggiunse come per consolarmi:
– Me ne dispiace, creda! Ma ci vorrebbe, per esempio, una prefazione del Carducci. Allora si potrebbe riparlarne.
“Del Carducci! – pensai. – Ma che cosa dice?”
Giù nella via la mia governante, Miss Gann, mi aspettava.
Prima che io salissi ella mia aveva detto: -Guarda di insistere per la copertina, che sia celeste e oro! Su ciò sii incrollabile.
Quando mi vide tornare mi disse:
– Ebbene?
– Egli si è burlato di me – risposi abbattuta. – Disse che li stamperebbe con una prefazione di Carducci.
– E chi sarebbe? – chiese Miss Gann.
– Oh Dio, uno come Dante, morto trecent’anni fa.
Andammo melanconicamente a casa.
Ci venne incontro Italo, mio fratello prediletto. Quando udì la mia storia disse:
– Ma prendi il primo treno per Bologna e va a cercarti la prefazione.
E così feci.
Il giorno seguente – ricordo che faceva gran freddo – salivo le scale ripide e strette della casa di Carducci in Bologna; la storica casa sulle Mura di porta Mazzini, dove allora, come oggi, il poeta viveva nella più austera semplicità. Io tremavo e mi dicevo: “Mio Dio, avessi almeno letto l’Inno a Satana!” Poi mi consolavo pensando che avevo il cappello riguarnito da Miss Gann con delle margherite celesti che mi stavano molto bene.
E per strada avevo comperato le Odi Barbare e letto rapidamente All’Aurora; potevo dunque subito citare qualche cosa.
A dir vero, avevo trovato poco di citabile, e quando suonai il campanello non ricordavo più niente. Solo mi giravano nella testa le “rosse vacche del cielo” e mi domandavo esterrefatta come avrei potuto farle entrare con apparente naturalezza nella conversazione.
Un uomo aprì la porta.
– E’ in casa il signor Carducci?
– Sì.
– Favorisca dirgli che sono… che vengo… che arrivo…
– Sissignora – disse l’uomo, guardandomi con occhio paziente.
– Gli dica che ho fatto un lungo viaggio per vederlo – dissi tutto d’un fiato.
– Sissignora, ripetè l’uomo, e sparve.
Tornò.
– Il signor Carducci dice che non è re Salomone. Favorisca entrare.
Entrai. Dopo pochi istanti la porta del salotto si aprì, e Carducci entrò. Vidi che aveva una testa da Imperatore Romano, coperta di ricci grigi, occhi cupi e profondi, e la bocca severa.
– Che cosa vuole? – mi disse.
– Buon giorno – risposi fiocamente. – Vorrei una prefazione alle mie poesie.
Seguì un silenzio che mi fece sudar freddo.
– Ah! – disse Carducci finalmente. – Lei è una poetessa. Credevo fosse la regina di Saba.
Nessuna risposta appropriata si presentò alla mia mente. E tacqui.
– Dunque, una poetessa! – ripetè Carducci. – Che cosa ha letto?
Mi pareva che avrebbe dovuto dire: “Che cosa ha scritto”. E risposi di nuovo attonita e muta.
– Dei nostri grandi che cosa sa?
Ecco! era il momento di collocare le rosse vacche! Ma erano scappate. (Mi pareva di sentirmele galoppare sul cuore). E dietro a loro correvano i miei pensieri, incoerenti, assurdi.
E Carducci, professore, interrogava severo:
– Che cosa conosce lei di Dante?
– Le illustrazioni di Doré – balbettai, mossa da un impeto di sincerità.
Carducci rise. Rise d’un caro riso, inaspettato e gaio.
– Segga – mi disse.
Ed io sedetti; e gli raccontai di Treves, e di Miss Gann, e di mio fratello Italo. Tolsi anche dalla tasca le Odi Barbare, e gli dissi che l’avevo creduto morto trecent’anni fa.
Parve assai contento. Ma quando gli diedi il manoscritto dei versi il suo viso si oscurò.
– Hm! – brontolò, spiegando il primo foglio – che bella scrittura! Anch’io – aggiunse guardandomi ferocemente come se lo avessi contraddetto – anch’io ho una bella scrittura.
Poi cominciò, a leggere:
Vieni, amor mio…
Borbottò i primi versi nella barba; disse più forte la seconda strofa. La terza la recitò ad alta voce, accompagnandone il ritmo con un gesto della mano destra, come per battere il tempo:
A sfondare le porte al paradiso,
E riportarne l’estasi quaggiù!
Vi fu un momento di silenzio. Poi Carducci diede forte il pugno sulla carta.
– Per Dio Bacco, questa donna ha ingegno! – disse.
E rimase immobile, guardandomi fisso con vividi occhi. Io non sapevo se era meglio dirgli “Grazie”, o pure “Prego!” o “S’immagini!” quando d’un tratto si levò e tormentandosi la barba (come bene ho imparato di poi a conoscere quel gesto!) mi disse ruvidamente:
– Addio.
– Addio – gli risposi come trasognata, ed egli mi aprì la porta.
Io gli stesi la mano e avevo voglia di piangere.
– Dove ha il manicotto? – mi chiese improvvisamente.
– Non so – dissi, e risi.
Carducci andò girando distratto per la stanza a cercarlo. Allora gli spiegai che non avevo manicotto con me. Ed egli mi guardò fosco sotto le ciglia aggrottate, pensando ad altro.
Mi balzò in mente il leone di Browning:
You could see by those eyes wide and steady
He was leagues in the desert already[3]
Con un tuffo di gioia nel cuore intesi che Carducci pensava ai miei versi, e che per loro aveva dimenticato me.
Più tardi, quando lo venni a conoscere meglio, appresi che era incapace di pensare a più d’una cosa per volta. Se il suo pensiero era rivolto altrove, ciò che gli stava d’intorno spariva.
Mesi dopo, quando Treves aveva pubblicato versi… e prefazione, io dissi a Carducci:
– Perché quel giorno, chiedeste del mio manicotto?
– Che giorno? Che manicotto? – diss’egli.
Io gli rammentai che era andato cercandolo per tutto il suo salotto.
– Tu sogni – disse impaziente.- E sogni stolte cose. Mai non ho cercato un manicotto. Non so nulla di manicotti.
Annie Vivanti, Giosue Carducci, in “Nuova Antologia”, Agosto 1906, pp. 369-372.
7
Gabriele D’Annunzio – Giosue Carducci
Nel necrologio di Giosue Carducci scritto da Gabriele D’Annunzio, il poeta pescarese rievoca il primo incontro con Carducci avvenuto il 10 gennaio 1882 presso Angelo Sommaruga (Milano 1857-1941) nella sede della “Cronaca bizantina” a Roma. Il necrologio, poi incluso nelle Faville del maglio col titolo Di un maestro avverso, è datato 17 febbraio 1907, il giorno dopo la morte del Carducci.
D’Annunzio nello stesso necrologio così riassume il suo difficile rapporto con Carducci (a p. 212 dell’op. cit. in basso): “Poco io lo conobbi; molto l’amai, d’un amore accorato, per la forza di passione e di malinconia ch’era in lui. So ch’egli non mi fu benevolo se non in rari istanti, per commozione fugace, quando la sua prepotenza irosa erasi affievolita. Non mi sentii mai prossimo a lui nell’affetto, né concorde, ma sempre d’un’altra specie e d’un altro ordine. Se io sapeva comprender lui, egli non poteva comprender me.
Io ebbi allora una commiserazione filiale della sua grande anima scontenta, e profondamente soffrii di non potergli dare una qualche gioia. Ma credo ch’egli non avesse verso me se non inquietudine, sospetto, disdegno mal dissimulato, forse fittizio dispregio. La mia vera virtù non gli apparve mai […]”.
L’incontro rientra nella tipologia della presentazione: il mediatore è qui l’editore Angelo Sommaruga.
Il terribile giudice
Credo che quella mattina io salissi a gran balzi le scale della Cronaca bizantina per la speranza di sorprendere una donna magnifica e illetterata che allora teneva in soggezione tutta la pleiade giovinetta. Come spinsi forte l’uscio, un po’ ansante, e mi guardai intorno, scorsi china a una tavola una gran fronte selvosa che di sùbito si sollevò con un moto risentito; e di sotto n’escirono due punte aguzze, ch’eran gli occhi. Angelo Sommaruga dalla stanza attigua si fece alla soglia e disse: “Ah, ecco il D’Annunzio!” E dinanzi al mio sbigottimento, una sgignazzata chioccia agitò il pomo d’Adamo nel lungo collo.
Egli aveva dato al terribile giudice le bozze del Canto novo; e il giudice era in atto di volgerle con la mano usa alla saetta. Io mi copersi di rossore, e non ebbi fiato; ma non distolsi lo sguardo dallo sguardo in me fisso. E, per quell’intuito precoce d’ogni animalità e d’ogni spiritualità ch’era in me fin d’allora lucidissimo, per entro quei piccoli occhi di cignal maremmano accanito vidi fluttuar la rimembranza de’ duri e angusti giovani anni non rotti se non dai “sogni lacrimosi”. E tanta era allora la gentilezza della mia natura ch’io ebbi quasi un moto di pudore come per celare o velare, dinanzi a quel rammarico, la corporale armonia che irradiava di felicità tutto il mio essere ed erasi trasfusa nei ritmi balzanti del mio poema.
Egli teneva nella sinistra i fogli, quasi abbrancati, e il pugno destro premeva su la tavola, in una di quelle sue attitudini consuete per cui manifestava a ogni tratto un umore che Giovanni Villani avrebbe chiamato “bizzarra salvatichezza”. La nobile nervosità delle sue mani contrastava con la struttura popolesca delle altre membra; che componevano un misto d’impaccio e di potenza, di violenza e di titubazione.
Non era alcun vestigio umano in lui; ma poteva egli ricordare quegli Etruschi dalle gambe smilze e dallo stomaco prominente che si veggono accosciati su i coperchi delle urne funerarie. Pareva che la tenacia della bocca risalisse alla fronte. A simiglianza dell’Alighieri, aveva egli le labbra sottili e serrate, ma curve in giù agli angoli come quelle che coprono una dentatura atta alla forte presa e tale che, quando afferra, non lascia più. Similmente l’appiccatura dei capelli, folta su le tempie fin verso l’estremità del sopracciglio, pareva serrare lo spazio della fronte e quasi disporla ad attanagliare il pensiero, a tenerlo ben fermo perché l’arte poi lo intagliasse e polisse. Di poco lunghezza il naso, di nari sagaci, ma tocco da non so qual colpo di pollice che tentato avesse di volgerlo in su, interrotto nel tentativo dalla fierezza degli altri lineamenti. Fierissima la mascella e ampia, che il pelo crespo alquanto e incolto copriva sin in mezzo al collo spesso e corto annodato da una cravatta sottile come un capestrello. L’acredine del sangue, già avvelenato, colorava le gote, accendeva le orecchie ch’eran piccole, di fine disegno, nobili come le mani. Sovente, con un colpo brusco, soleva alzare il mento, volgere il capo dall’una all’altra banda, come per smania di rintuzzare, di cozzare, di tener testa a una canizza invisibile. Figura toscana d’uomo di parte e di crucci, affocata dalla passione civica e dal vin frizzante, aspra e franca, che Donatello avrebbe figurata in terracotta dipinta, col collo nudo fuor d’un drappo scarlatto, strapotente di carattere, come il busto di Niccolò da Uzzano.
Dietro il suo capo, su la parete grigia, erano scritte di suo pugno le terzine d’un sonetto non mai compiuto.
Quanta messe di sogni e di ricordi,
gin, infido licor, veggo ondeggiare
nel breve cerchio onde il mio gusto mordi!
O dolci selve di genepri, rare,
a cui fischian nel grigio ottobre i tordi,
lungo il patrio selvaggio urlante mare!
Le rime sfondavano la parete, creavano il vento il rombo e la vastità, come quando nel triste collegio pratese leggevo di nascosto l’ode recente del Rinnovatorte e il grande afflato della Camera pareva diroccare le mura dell’aula chiusa, rovesciar la cattedra del grammatico.
Egli continuava a guardarmi, senza dir motto, assorto in non so qual sogno o qual ricordo remoto. La natura aveva posto in me una semplice grazia che lo rassenerò. Sorrise alfine, ed esclamò giovialmente: “Thàlatta! Thàlatta!”
Era il grido di una mia strofe asclepiadea. Il cuore veramente mi balzava in petto come al Coribante. Quando lo vidi volgere i fogli e porre gli occhi su una elegia, feci l’atto di supplicarlo, invano.
Egli amava il numero, e quello misurare col battito del dito. Sempre lo vedrò in quel gesto di scandere il verso, con l’indice levato. Sempre udrò la sua voce commossa che sosteneva di sillaba in sillaba il distico sino alla cadenza del pentametro. Parve ch’egli confermasse nel mio spirito il dono della musica e sospendesse il mio cuore su l’onda della melodia.
Gabriele d’Annunzio, Di un maestro avverso, ne Il compagno dagli occhi senza cigli, ne Le faville del maglio, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985, pp. 215-217.
8
Alfredo Panzini – Giosue Carducci
Alfredo Panzini (Senigaglia, Ancona 1863 – Roma 1939) nel necrologio scritto nel 1907 in onore di Giosue Carducci, ricorda il suo viaggio a Roma nell’ottobre del 1882 offertogli gratuitamente dallo Stato al fine di consentirgli la partecipazione a una gara per i licenziati d’onore. Vi conobbe il ministro Baccelli “in persona” e il venticinquenne editore Angelo Sommaruga, già allora assai noto; ma, quel che più importa, incontrò per la prima volta Giosue Carducci, che sarà poi suo indimenticato maestro all’Università di Bologna. La tipologia è quella dell’incontro scolastico. Il racconto, come notò P. Pancrazi in uno scritto del 1952[4], ha forti somiglianze con quello del Pascoli (vedi l’incontro Pascoli-Carducci in questa raccolta).
“Sfrondare, sfrondare, sfrondare!”
Sarei tuttavia ingiusto se nascondessi che la licenza d’onore non mi servì proprio a nulla. Per essa potei vedere Roma, senza spendere un soldo, come ora dirò. Sua Eccellenza il ministro aveva stabilito una specie di ludo olimpico intellettuale alle basi del Campidoglio fra i licenziati ad honorem mediante una gara di italiano.
Io ero fra gli onorevoli, e perciò il viaggio a Roma mi si conveniva gratuitamente. Gratuitamente era pure l’alloggio ed il vitto in non so quale collegio romano.
Concorsi con l’animo pieno di fiducia nella riuscita, tanto più che, se non conoscevo la tenuta dei libri in partita doppia, ero convinto di saper scrivere abbastanza bene in italiano. Questa lusinghiera, come erronea opinione, mi era stata instillata dal mio professore d’italiano. […] Sbarcando onorevolmente a Roma da un carrozzone di terza classe in un bel giorno d’ottobre, fummo sulla soglia del collegio ospitale accolti da un signore di grandissima magnificenza, di somma dimestichezza, di sonora vivacità. Aveva per tutti (era una ressa di giovani, in cui suonavano tutti i dialetti d’Italia) parole battagliere di gloria e d’incoraggiamento. Era S.E. il ministro Baccelli in persona. Dietro gli veniva uno smilzo, vivacissimo giovane con una barbetta bionda, riccia, spartita in due: mi par di vederlo! Era l’editore Angelo Sommaruga, il quale fra noi, presunti letterati, faceva propaganda del più importante giornale del tempo: la Cronaca bizantina.
In quel collegio, a cura del ministro, si mangiava molto bene e c’era da rifarsi delle susine cotte del collegio.
Arrivò il giorno della gara e noi fummo distribuiti in una grandissima aula. Cessò il bisbiglio: un gruppo di persone avanzava dalla porta lontana. Avvicinandosi il gruppo, vedemmo un uomo forte, di mediocre statura, staccarsene, avanzando. Vestiva un abito a giacchetta color turchino scuro con gilet bianco.
Avanzava lentamente, scrutando dal basso in alto con occhio nero lucente; capigliatura nera, breve barba crespa e nera. Quando ci passò davanti, mi parve che un fremito impercettibile interiore, scuotesse tutta quella persona. Era Giosue Carducci. Del Carducci allora non conoscevo se non il suono dei versi che hanno per titolo Alle fonti del Clitumno, unicamente perché quell’ode ce l’aveva letta in scuola il professore d’italiano con la sua bella voce: sapevo che aveva scritto inoltre un inno a Satana, e sopratutto sapevo che il Governo monarchico doveva fare i conti con lui. Da poche settimane era morto Garibaldi. Ora non so perché, quella figura scura e nobilmente sdegnosa, che vedevo per la prima volta, mi chiamò in mente un’altra figura bionda, luminosa, sorridente, che mai non avevo visto: Giuseppe Garibaldi. Non mi disegnò alla mente la letteratura: ma vidi con l’occhio dell’anima il moto di un’epopea.
Fu dettato il tema. Altro che vita, calore, passione! Io buttai giù nel tema tutta la scoria delle parole che mi vennero in mente. Era stata distribuita una di quelle pagnottelle romane, riccamente imbottita: ma non la toccai né meno. Non so quante pagine scrissi, certo moltissime, tanto che nel ricopiarle non mi raccapezzavo più tra le cartelle, e il sangue mi dava dei tuffi alla testa. […]
Ebbene, non fui nè meno ammesso alla prova a voce.
Fui chiamato davanti alla Commissione; rividi quei miei fogli scartabellati con poco rispetto, mi sentii dire secche, brevi parole dal Carducci, delle quali ricordo questa osservazione ripetuta tre volte: “Sfrondare, sfrondare, sfrondare”.
Garibaldi tramontava una seconda volta.
Alfredo Panzini, Memorie di scuola, in “Nuova Antologia”, Luglio-Agosto 1907, pp. 116-118.
9
Leopoldo Barboni – Ettore Strazza – Edmondo De Amicis
Leopoldo Barboni (San Frediano, Pisa, 1848 – Trapani, 1921) rievoca a circa quarant’anni di distanza dai fatti qui raccontati (Geni e capi ameni dell’Ottocento fu pubblicato nel 1911) l’atmosfera scapigliata della gioventù italiana nella Firenze capitale d’Italia degli anni 1865-71 e l’incontro fortuito con uno stravagante propiziatore di incontri, Ettore Strazza, oggi poco più che un nome. L’incontro avviene, come si leggerà, in modo curioso, una sera piovosa d’autunno, nel Melini, una trattoria in via Calzaioli. Subito dopo, ecco il primo incontro con un giovanissimo Edmondo De Amicis dalla “presenza apollinea”, ancora lontano dalle esperienza “serie” della maturità. La tipologia è quella della presentazione.
Due serate di pioggia
Si chiamava Ettore Strazza, ed era milanese, avvocato e ventiquattrenne. Firenze capitale lo aveva attirato coi suoi succiatoi all’ombra del campanile di Giotto, ed egli ci si risvoltolava beatamente per il lungo e per il traverso. Abitava in via Portarossa una camera e un salottino angusti dove si radunavano confusamente poeti, storici, romanzieri, pittori, ufficiali, giornalisti, impiegati, baritoni, fioraie, ballerine, bevitori d’assenzio, e cerberi che di quando in quando prendevano ipoteca sopra un soprabito andato ai cani o su un orologio senza lancette.
La sua conversazione era burrascosa, eruditissima, motteggevole, estrosa, piacevole sempre. Improvvisava sonetti dal Melini in via Calzaioli, mangiando un pollo e gargarizzandosi, diceva lui, con un fiasco di quel del Chianti o della Rùfina; dormiva ogni tre notti, dalle due antimeridiane al mezzogiorno; d’estate metteva sottosopra il politeama Principe Umberto; d’inverno, il Pagliano, la Pergola o il Niccolini; scriveva con eleganza e con un sapore veramente allegro come pochi hanno; s’intendeva di tutto e discuteva su tutto. (…)
In quanto a me, conobbi lo Strazza in un modo singolarissimo. Era una di quelle serate d’acqua e vento come capitano in autunno, e l’umidore e l’uggia infastidivano financo il Biancone e l’esoso Ercole del Bandinelli. Fra la luce ancora incerta dei lampioni e la cupaggine del cielo annottante, Palazzo vecchio e Orsammichele, la torre del Bargello e i campanili delle chiese medioevali parevano enormi dadi di bronzo e di granito, e giganti ebbri del fremito delle tempeste che si rincorressero su pe’ tetti sgocciolanti, fischiando e ruggendo una canzone d’inferno.
Sotto la Loggia dei Lanzi e sotto gli Uffizii andava su e giù la gente con ritornello monotono di scarpe e stivali strusciati svogliatamente, e s’intendevano tutti i dialetti d’Italia, e si vedevano sbraccettamenti di lombardi e di siciliani, di piemontesi e di calabresi, di napoletani e di veneti, e le statue marmoree dei grandi toscani pareva ricevessero anima e, sorridendo a tutta quella promiscuanza della famiglia italiana, mormorassero: “Finalmente!…”
Dunque pioveva, né ci aveva colpa il governo. Il Melini, patriarca dell’umanità, apriva le sue braccia alla maggior parte degli stravaganti e degli sbilanciati, troneggiando fra trofei di fiaschi e di bottiglie, di rifreddi e di braciole impanate, o “cotolette” come dicono i ben parlanti! M’ero imbattuto nel vanesio [un certo Maurizio***] a’ cui piedi cadevano di sfascio le belle fiorentine, e tutti due ce ne andavamo melensi, rasentando gli sporti di via Calzaioli. Dinanzi al Melini l’anima mia, con un raro slancio di ragionevolezza che mi fece stupire, mi aliò in faccia e disse al mio corpo: “Tu sei quasi allucignolato, e domattina l’uomo potrebbe esser morto: entra lì”. Ed entrai, ossia entrammo. Ma non mi ero avanzato di tre passi che un tavoleggiante m’inciampava rovesciandomi addosso un vassoio d’intingoli, e… Dio mi perdoni! non so più che filastrocca tirassi giù, di quante poste, e se in versi o se in prosa; però, questo è certo, dovette essere arzigogolata ingegnosamente, se si pensa che un giovine alto e in soprabito, con barba nera, ben tenuta, crespa e degna d’un Rajà dell’Indostan, si levò da un tavolino, strinse la mano al vanesio, e presentatomisi e guardatomi prima da capo ai piedi, esclamò serio serio: – Le affermo fin da questo momento la mia schietta ammirazione!- E mi trascinò in mezzo a un nuvolo di amici e di fumo, abballottandomi e gettandomi a sedere su un divano.
Era lui, era Ettore Strazza, ch’era disceso allor da Fiesole, dov’era stato scarpa a scarpa con Edmondo De Amicis. (…)
Debbo però allo Strazza l’incontro arruffato e la conoscenza con l’autore dei Bozzetti militari. Pioveva, al solito, come Dio la mandava, e noi eravamo fermi sotto un portone di via della Vigna Nuova. Possedere un ombrello può parere la più genuina cosa di questo mondo, e non è così; almeno a quei tempi né Ettore né io lo possedevamo, neppure, aimè, neppure d’alpagà tinto a color caffè con l’orlo rosse, come usano i curati e i cappellani di campagna. Che c’importava dell’acqua?
A un tratto il mio eroe dà un guizzo, salta in mezzo alla strda, ferma un passante intrabarrato e frettoloso, poi mi chiama, e lì, sotto quella benedizione, mi presenta a Edmondo De Amicis.
Chi dalla lettura di Pagine sparse argomentasse che il De Amicis fosse allora davvero una specie di sorcio di biblioteca, sempre affannato a sfogliare il vocabolario o a interrogare la vecchia padrona di casa sul come si dice o non si dice a Firenze, o come si chiama o non si chiama la tal cosa o la tal’altra, prenderebbe un abbaglio. E poi ci vuol altro che simili esercizi per chi non è nato sull’Arno! Basti dire che il buon De Amicis non seppe mai liberarsi dal chiamare “osso” il nocciolo, né, Dio ci liberi, capì mai il doppio significato della parola “tegame”, come diè a divedere (lui sempre così signorilmente rispettoso co’ suoi lettori) nel Sull’Oceano delineando la cameriera del transatlantico Galileo.
Dunque no, il De Amicis non era né fu mai, almeno fino a che per colpa del suo romanticismo manzoniano non si scavò l’abisso matrimoniale, un candidato al paradiso per serietà, innocenza e lacrime. E poi non era ancora commendatore, e molto meno un Geremia socialista; era invece il De Amicis dei venticinque anni, presenza apollinea dardeggiante fuoco vivo da due occhi cerulei affascinanti, arguto, burlettone, eccellente forchetta, cuor d’oro, desiderato, cercato, amato da tutti.
Leopoldo Barboni, Geni e capi ameni dell’Ottocento, in Memorialisti dell’Ottocento, tomo II, La Letteratura Italiana. Storia e Testi, Ricciardi, Milano Napoli 1958, pp. 912-918.
10
Gabriele D’Annunzio – Giovanni Pascoli
Nel necrologio di Giovanni Pascoli scritto nel 1912 da Gabriele D’Annunzio leggiamo il primo incontro tra i due poeti avvenuto a Roma una bella mattina del giugno 1895. La tipologia è quella della presentazione, anche se “per insidia”. Adolfo De Bosis, direttore della rivista romana “Il Convito” (1895-96), conduce Pascoli nella dimora di d’Annunzio, dove questi vive in una “splendida miseria”, col pretesto di mostrargli una statua di Calliope appena ripescata dalle acque del Tevere. Si noti come D’Annunzio insista nella descrizione del luogo d’incontro, l’antica selleria dei Borghese: un luogo storico e artistico, neutro anch’esso, e perciò di tutti e due i poeti, dove su un piano di parità essi possono incontrarsi; come scrive assai efficacemente D’Annunzio, “due confusioni si abbracciarono senza guardarsi”. In tono solenne D’Annunzio presenta l’incontro come un evento memorabile, carico di futuro per i due poeti che dovevano ancora scrivere i Poemetti conviviali e le Laudi. In conclusione, D’Annunzio fissa l’attenzione sul particolare delle mani di Pascoli che questi timidamente nasconde alla vista, ma poi non esita a gestire virilmente per schermirsi dalle parole troppo lusinghiere del poeta pescarese.
Le mani del poeta
Ma come c’incontrammo la prima volta? A Roma, per insidia.
Già ci amavamo da tempo; e avevamo scambiato molti messaggi affettuosi e quelle lodi acute, d’artiere ad artiere, che s’inseriscono alla cima dello spirito e fanno dimenticare la grossezza dei solenni tangheri i quali oggi in Italia giudicano di poesia. Trovandosi in Roma, egli certo desiderava di vedermi; ma, nel momento di porre ad effetto il suo proposito, la timidezza lo arrestava; né i nostri amici riescivano a persuaderlo, né io riescivo a scovarlo in alcun luogo. Allora Adolfo De Bosis, il principe del silenzio, il nobilissimo signore di quel Convito che fu “presame d’amistade” fra i pochi deliberati d’opporsi alla nuova barbarie ond’era minacciata la terra latina, ricorse a un grazioso stratagemma. Me lo condusse di buonora, all’improvviso, nella mia casa, dandogli ad intendere che lo conducesse a veder una statua di Calliope ritrovata nel limo del Tevere la sera innanzi, divinamente levigata da secoli d’acqua.
Io era in giorni di splendida miseria, abitando nell’antica selleria dei Borghese, tra Ripetta e il Palazzo, tra il fiume torbo e quel “gran clavicembalo d’argento” celebrato in un sonetto dell’adolescenza. La vuota selleria principesca era di così smisurata grandezza che rammentava la sala padovana nel Palazzo della Ragione, se bene mancasse non giustamente in su l’ingresso la pietra del vitupèro “lapis vituperii et cessionis bonorum”. In tanta vastità io non avevo se non un letto senza fusto, un pianoforte a coda, una panca da tenebre, il gesso del Torso di Belvedere, e la gioia del respirar grandemente.
Come Adolfo spinse alla soglia il poeta delle Myricae e mi chiamò al soccorso, balzai mezzo vestito. E due confusioni si abbracciarono senza guardarsi. L’ingannatore rideva nel vederci così vergognosi mentre tuttavia ci tenevamo per mano. Poi ci sedemmo su la panca, felici, senza far molte parole, nessuno di noi temendo il silenzio che è sì soave quando il cuore si colma.
Eravamo sani e resistenti entrambi, sentivamo la nostra purità nel divino amore della poesia, preparati alla disciplina e alla solitudine. L’uno promettendo di superar l’altro, eravamo certi di non iscoprir mai su i nostri volti “il livido color della petraia”. Una potenza oscura si accumulava nelle nostre profondità: egli doveva ancora comporre i Poemi conviviali e io dovevo ancora cantare le Laudi.
O bel mattino in sul principio della state, quando Roma ha gli occhi chiari di Minerva che nutre a sua simiglianza i pensieri degli uomini! Entrava il sole pe’ cancelli delle finestre, e il romore del ponte frequente, che pareva l’antico “assiduo murmure” del Tevere. Ma il fiume sacro non aveva parlato ancòra a traverso il bronzo dell’inno, non aveva ancor chiamato l’anima dei forti gridando:
Heus, rostro navis qui terram scinditis unco,
quam detraxistis navi iam reddite proram
atque in me longos infindite vomere sulcos
usque ad ceruleum, iuvenes, maris aequor, et ultra.
Est operae!
La grandiosità del torso erculeo bastava a riempiere le mie mura; perché era quel terribile frammento titanico presso cui Michelangelo decrepito e quasi cieco si faceva condurre per palparlo. (Or potevano dunque le sue mani toccare un marmo senza riscoprirlo intero?) Avevamo dinanzi ai nostri occhi un esemplare sovrano e quasi direi il cànone eroico; ma ignoravo quale di noi due ne fosse tocco più a dentro. Se avessimo potuto saperlo, forse avremmo conosciuto la nostra misura.
Come gli guardai le mani, delle quali son sempre curioso, egli le ritrasse con un atto quasi fanciullesco. Io volevo osservare le dita che avevano foggiato l’odicina per le due sorelle e i madrigali dell’Ultima passeggiata. Allora sorridendo gli ripetei i primi versi del Contrasto:
Io prendo un po’ di silice e di quarzo:
lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:
ve’ la fiala, come un dì di marzo,
azzurra e grigia, torbida e serena!
Con quelle stesse mani che aveva nascoste, egli fece un gesto di disdegno potente. Sentii quanto vi fosse di virile in colui che passava tra le umili mirici per salire verso la rupe scabra. E poi parlammo d’Odisseo e della predizione di Tiresia.
Questo fu il nostro primo incontro.
Gabriele D’Annunzio, Contemplazione della morte, in Prose di ricerca…, III, Arnoldo Mondadori, Milano-Verona 1968, pp. 216-219.
11
Leonetta Cecchi Pieraccini – Grazia Deledda
Uno scambio di sguardi, un imbarazzante silenzio, un incidente cui si pone riparo con una gentilezza; e alla fine lo stupore per l’inatteso incontro, forse già tante volte vagheggiato durante la solitaria lettura di pagine indimenticate: tutto questo suggerisce l’annotazione diaristica di Leonetta Cecchi Pieraccini (Poggibonsi 1882 – 1977), che riferisce il suo primo incontro con una scrittrice allora molto famosa, Grazia Deledda (Nuoro 1871 – Roma 1936). La tipologia è quella dell’incontro fortuito.
In tram
2 gennaio 1913
Verso l’una rientravo a casa.
Ero in tram in via Nomentana. Una piccola signora, vestita di velluto nero mi si è seduta di fronte. Mi ha guardato e ha palesemente trasalito. Siamo rimaste per un lungo tratto così, sedute l’una di fronte all’altra, lei a occhi bassi, io guardavo fuori del finestrino. Nell’alzarmi di fronte a casa, mi è caduto un involto. La signora ha fatto l’atto di raccoglierlo: il fattorino si è precipitato a fare altrettanto per riguardo al mio pancione. Ma io sono stata più pronta di tutti e due. Ho tirato su il pacco e sono scesa. La piccola signora, imbarazzata dalla mia presenza era Grazia Deledda.
dal Taccuino di Leonetta Cecchi Pieraccini, in Emilio Cecchi, Grazia Deledda, a cura di C.C., in “Nuova Antologia”, Aprile-Giugno 1993, p. 354.
12
Emilio Cecchi – Gilbert Keith Chesterton
Il 26 novembre 1918, a guerra appena finita, Emilio Cecchi (Firenze 1884 – Roma 1966), prende il treno nella stazione londinese di Paddington, e va a trovare lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) che viveva in una modesta casetta, significativamente definita “la confluenza di tutti i misteri”, nel borgo rurale di Beaconsfield. La visita, da tempo progettata dal futuro scrittore dei Pesci rossi, è preceduto da una accurata lettura delle opere dell’autore inglese, che nel suo ritiro campagnolo, lontano dalla “città di Mammone” (Londra), medita “sulla difficoltà presente del mondo”. Dell’incontro Cecchi fornirà il resoconto su “La Tribuna” di Roma il 28 dicembre 1918 col titolo Visita a Chesterton nella rubrica Lettere dall’Inghilterra, prima di raccogliere il “pesce” nel volume citato (1920).
La casetta del gigante
La casa di Chesterton è casalinga con le sue idee, è una con le sue idee, è il più completo manifesto delle sue idee. Impossibile trovare una casa che realizzi meglio l’idea della casa e della casa inglese e della casa rurale inglese. Se di qualcosa sentivo la mancanza era d’uno stendardo come quello delle antiche gilde e corporazioni, che sventolasse sul piolo del cancello o in cima al tetto. Ma era un eccesso di pretesa, in tempi così poco cristiani, così poco dediti alle tradizioni e internazionalizzati.
Con intorno l’enorme silenzio del piccolo giardino, era veramente la casa dalla quale un giorno Manalive era fuggito “per il bisogno di ritrovarla”, la casa ch’egli aveva dovuto abbandonare “non potendo più sopportare di esserne lontano”. Solitaria nella campagna grigia, con la tinta calda de’ suoi mattoni e illuccicore dei vetri, degli ottoni e dei lumi dentro, era davvero il simbolo, l’offerta votiva e l’esemplare di quella casa che ciascuno ha posto per nòcciolo luminoso del proprio mondo.
E il mondo come appariva leggendario e misterioso in giro a quella casa, quanto più essa appariva quel che era e doveva essere: una semplice, piccola casa. Io pensavo quanti pittori dal principio della pittura, chi in un modo che nell’altro, si provarono a dare suggestioni di mistero. E chi cercò di ricordarsi il mistero delle foreste originarie, avanti il diluvio. Ma riusciva solo a dar l’idea che il diluvio fu un innocuo acquazzone, tanto le sue foreste antidiluviane somigliavano al Pincio o a Hyde Park. E chi si dedicò alle misteriosità spaventose, mostruose: ai cerberi, alle orche, ai briarei. Ma in realtà non dava che delle lucertole peggiorate. E chi volle esprimere il mistero della Morte. Ma non esprimeva che il Macabro e il Grottesco. Quanti pochi pensarono che c’era un modo semplicissimo, a portata di chiunque, per cogliere non una sola qualità di mistero ma tutti i misteri, la confluenza di tutti i misteri: quello del cielo, quello del mondo, quello dell’uomo!
Bastava, in un foglio bianco come un cielo, un frego come sa farlo anche un ragazzo: sopra una linea ondulata, figurante la distesa del mondo, un quadratino che figurasse una casa.
Ma quando sull’uscio della stanza dove l’aspettavo comparve Chesterton, con la sua colossale figura, il soffitto sembrò di colpo abbassarsi e io mi trovai davanti a un mistero tutto impreveduto e profano: come potesse fare un uomo così grande a entrare in una casa così piccola.
I libri in ottavo posati sulle tavole, diventarono improvvisamente libri in sedicesimo. E i libri in sedicesimo, a piramide su quelli in ottavo, ormai erano libri in trentadue. Certi oggetti sembravano scelti in spirito burlesco per intensificare questa qualità di sorprese. Sulla cornice lucida di un mobile un gruppetto di figurine cinesi alte un centimetro pareva una famigliola di formiche in viaggio per il deserto.
Quale casa in tutti i sensi piccina, per un uomo in tutti i sensi tanto grande! Ma Chesterton direbbe che se in qualche modo egli è grande, è soltanto in quella misura che la sua casa è così piccola.
Seduti davanti al camino, nella luce invecchiata della lampada a petrolio, ritrovavo tutto vivente e mosso nella sua conversazione quello che durante molti anni egli mi aveva detto nei libri. La sua voce aveva stranissimi rivolgimenti di tono. Da calda e profonda a un tratto diventava argentina e quasi stridula e si rompeva e spandeva di continuo in deliziose, sane risate di bimbo.
Con i lunghi capelli grigi che spiovevano sul collo e sulla faccia colorita dalla fiamma, non so perché mi pareva parlasse di fondo a un bosco.
E allora la casa si fece anche più accosta, diventò anche più raccolta. E si sarebbe detto che la realtà di fuori la fasciasse anche più strettamente e facesse sentire la sua attenzione e il suo rispetto: come intorno alle celle dove gli eremiti si radunavano a ragionare e pregare nella notte, i cervi e i daini giungevano dalle macchie a grandi salti silenziosi, e fuori nel buio si strisciavano alle mura quietamente, alzando il muso stupito alle piccole roste illuminate e alle voci degli uomini.
Mi pareva parlasse di fondo a un bosco e di fondo a un mito, quanto più pareva parlassimo delle cose più cittadine e meno mitologiche: l’elezione e l’indennità, un famoso uomo politico, un gran giornalista. Nelle sue parole e nella sua voce, queste cose rinascevano, s’inserivano in una qualità originaria, ridiventavano forze semplici ed eterne. I fatti e le figure s’empivano di contrasto e di passione, si chiarivano in un rigore, in una dignità superiori, riportati sotto grandi segni, sotto bandiere che hanno visto mille guerre, sotto quei grandi nomi che nella vita e nei giornali non vengono più adoperati, appunto perché dividono i campi troppo severamente e imprimono responsabilità e doveri indeclinabili: quei cristiani nomi abbandonati, che quando ritornano, come in Péguy, come in Chesterton e come in Belloc, dànno alla polemica l’inusato tono di grandezza delle antiche controversie, la poesia delle antiche battaglie per la fede, nell’invocazione di un Santo o della Vergine, nella luce delle spade degli angioli e nello squillo delle trombe dei paladini.
E voglio notare qualcosa che non per un’evidenza logica, spiegata, ma per un’evidenza di sensazione, trovai in lui di diverso dall’idea che me ne ero fatta.
Forse ero andato pensando sopratutto al clown (sia detto con il rispetto che gli porto). E avevo trovato sopratutto il vescovo.[5] Ero andato col gusto della bizzarra gioia lirica della quale egli ha scoperto il segreto. E uscendo dalla sua casa portavo meco sopratutto il senso della sua profonda gravità morale e del suo dolore. Lo credevo più giovane, franco e sicuro. Lo trovavo più provato e più stanco, più complesso, più commosso e più forte. Sapevo bene come si trovasse in politica e come non avesse neanche le simpatie di molti letterati: troppo onesto e poeta per i politici, troppo politico per i poeti d’una poesia così pura che quasi sempre finisce nel puro nulla. E capivo perchè, come tutti quelli che lassù hanno voluto, combattuto e costrutto, anche lui era fuggito dalla città di Mammone nella cittadina rurale, nel borgo di Beaconsfield. Me l’aspettavo tranquillo sulla mole del lavoro compiuto. Ed era festoso di lampeggianti certezze. Ma anche pieno di problemi e difficoltà, tutto preso, tenuto, confitto con la sua vasta statura morale nella difficoltà presente del mondo.
E mentre tornavo verso Londra, ripensando la solitudine dove l’avevo lasciato sotto un còmpito enorme, con soltanto, come un cavaliere antico, la sua donna rossa e il suo cane nero, un’immagine si spandeva sulla campagna buia; quell’immagine con la quale egli ha chiuso la sua Short History of England come in un lirico dubbio che, trascorsa l’ora veemente della guerra, davvero si riesca a ritrovare nel mondo l’ordine, la giustizia e la vita.
La città, in fondo, bruciava di bianchi falò, sopra le costruzioni annullate nella notte e sopra la folla sepolta nel buio schema di ferro e di pietre. E per quel popolo e tutti i popoli che vinsero sui confini una guerra così leggendaria e luminosa, che tanto più fa sentire come atroce sarà la nuova guerra che ciascuno di essi ora intraprende per crearsi le sue vere forme: per essi tutti mi dicevo con Chesterton che veramente, nel pensiero di domani, “si vorrebbe a momenti desiderare che l’onda della barbarie tedesca ci avesse spazzati, e insieme a noi i nostri eserciti, e che il mondo non sapesse mai più nulla degli ultimi di noi, se non che tutti morimmo per la libertà”.
Emilio Cecchi, Pesci rossi, in Saggi e viaggi, Mondadori, Milano 1997, pp. 79-83.
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Federico Verdinois – Ivan Ivanovic Scerscenowski
Il giornalista e scrittore Federico Verdinois (Caserta 1844 – Napoli 1927) è presentato da un amico piuttosto insidioso, un tal Nocito, che aveva dubitato della padronanza della lingua russa da parte di Verdinois, ad un colto giocatore di scacchi di origine russa, Ivan Ivanovic Scerscenowski, col quale il giornalista-scrittore avvia una proficua conversazione in lingua russa. Due i risultati: il primo, Scerscenowski gli suggerisce la traduzione del Quo vadis? di Sienkiewicz, che in breve Verdinois porterà a termine e pubblicherà a puntate sul “Corriere” di Napoli nel febbraio 1897 e subito dopo in volume, con grande successo di pubblico; il secondo, il toscano di Nocito smette di tirare, per la gioia dello scrittore. Siamo a Napoli nel 1896. La tipologia è quella della presentazione. F. Verdinois pubblicò nel 1920 presso l’editore Giannini di Napoli i Ricordi gionalistici[6], da cui è tratto questo racconto.
Sbriciolature luculliane
I giornali umoristici, anche dopo ch’ebbi preso ad insegnar russo e ruteno nell’Istituto Orientale di Napoli, seguitarono a canzonarmi quale emerito traduttore dal francese. Basta: una sera, gironzolando per Chiaia, m’imbatto nell’amico Nocito, il quale m’investe, mi prende a braccetto, mi trascina. Nocito è un buontempone; è amico intimo di tutti; si strugge pei fatti miei.
– Vieni – dice – ti faccio fare una conoscenza numero uno.
– Grazie…. con chi?
– Tu, mi pare, giochi a scacchi?
– Diamine!
– Bravo, me ne scordavo…. Un nuovo Morphy….
– E si chiama?
– Non lo so…. Cioè lo so, ma non mi riesce di dirne il nome…. Te lo dirà da sé. Viene tutte le sere al caffè Diodati in piazza Dante, dove siamo tutta una compagnia: letterati, artisti, avvocati, giornalisti, studenti, fannulloni…. Io, naturalmente appartengo a questi ultimi. Si parla un po’ di tutto e in tutte le lingue: una vera torre di Babele. Con lui io parlo francese.
– Con chi?
– Col Russo.
– Ah! il tuo giocatore è russo?
– Sicuro…. Non te l’avevo detto? Ma tu il russo lo sai…. lo dicono almeno….. e ti farà piacere di parlarlo con un figlio autentico della steppa….-
Così discorrendo, si entra nel caffè, e Nocito mi tira, mi spinge, mi fa largo, mi mette faccia a faccia con un giovane, magro, pallido, biondiccio. Fa la presentazione; si volta intorno con un sorrisetto di soddisfazione; annunzia alla brigata che sentiranno bestemmiare in russo. Tutti tacciono ed aspettano, e poichè io non aprivo bocca, l’amico Nocito siede, si accende un toscano e ne aspira il fumo con voluttà.
Così fu che feci la conoscenza di Ivan Ivanovic Scerscenowski. A scacchi non si giocò, tanto questi fu lieto di poter parlare la propria lingua, di ritrovare, qui a Napoli, un cantuccio di patria. Parlava rapido, concitato, m’incalzava di domande, gli lucevano gli occhi. Qualcuno fra gli astanti osservò sogghignando che il russo è una lingua selvaggia. Nocito smise di fumare, perchè questi benedetti toscani non tirano.
Gogol, Turghieniev, Dostoiewski, Tolstoi, Lermontov, Potapenko, Nadson, e via, e via, si passarono in rivista varie generazioni letterarie, a spizzico, alla rinfusa.- Di botto Scerscenowski mi fa:
– E di Sienkiewicz che dite?
– Di chi?
– Di Sienkiewicz.
– Non lo conosco.
Possibile?
– Come vi dico…. Che cosa ha scritto? Liriche? drammi? poemi? critica?
– Ma no, ma no! E’ un romanziere di polso, un artista di prim’ordine, il restauratore del romanzo storico…. Basta dire che ha scritto il Quo vadis?
– In latino?
– No, in polacco….
– O Dio!
– Già, perchè Enrico Sienkiewicz è polacco, ma tutte le sue opere sono state voltate in russo, e stupisco davvero come mai voi in Italia non ne sappiate niente. Tanto più che il contenuto del Quo vadis? è essenzialmente italiano, romano, voglio dire, benchè poi abbia un carattere universale, di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
– Non capisco.
– Fate di leggere il libro e capirete. Anzi, ne son certo, vi verrà voglia di tradurlo. Sarà un successo strepitoso, ve lo garantisco, una rivelazione.-
Promisi di occuparmene, ma non ci pensai più che tanto. Negli entusiasmi del mio novello amico non avevo una fede smisurata; e poi commettere un libro in Russia è una cosa, riceverlo è un’altra, spedirne il prezzo non si poteva per vaglia, e in somma il tutto insieme costituiva una bella seccatura. Ero contento di aver conosciuto Scerscenowski, e più di tutto – l’ho da dire? – mi solleticava piacevolmente il ricordo di quel toscano che non tirava. Piccolezze, d’accordo. Ma la vita non è, ch’io sappia, un banchetto luculliano; senza dire che assai più degli intingoli prelibati son gustose qualche volta le sbriciolature.
Federico Verdinois, Perchè tradussi il “Quo vadis?”, Profili letterari e ricordi giornalistici, a cura di Elena Craveri Croce, Le Monnier, Firenze 1949, pp. 240-245.
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Ardengo Soffici – Medardo Rosso
Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, Firenze 1879 – Forte dei Marmi, Lucca 1964) racconta la visita allo scultore Medardo Rosso (Torino 1858 – Milano 1928) avvenuto a Parigi nel 1909. Per nulla dissuaso dai portinai dello stabile in cui abita Rosso dall’accostare un personaggio considerato stravagante, egli penetra nell’atelier dell’artista come nella sala del tesoro, e ne ammira i capolavori, confermando a se stesso il giudizio già espresso sullo scultore, la cui opera egli aveva divulgato a partire dal 1904. Soffici è di ben ventuno anni più giovane di Rosso, e tuttavia la differenza d’età (51 anni Rosso, 30 Soffici) non impedisce il nascere di una vera e lunga amicizia durante un’intera giornata (e nottata) trascorsa nel laboratorio di Rosso e per le strade e i caffè di Parigi. Lo scritto è del 1920.
L’atelier dell’artista
Avrei potuto conoscere di persona Medardo Rosso nel 1904, allorché pubblicai nell’Europe Artiste il mio primo studio intorno alla sua opera, esposta in quell’anno in una sala speciale del Salon d’Automne; ma la lettera ch’egli mi scrisse in tale occasione per ringraziarmi andò smarrita, ed io non lo conobbi che nel 1909, dopo, cioè, la pubblicazione del mio volume su di lui. Il nostro primo incontro avvenne una mattina – non ricordo più se di primavera o d’autunno – nel suo studio al numero 98 del Boulevard des Batignolles, dov’egli mi aveva dato un appuntamento con uno di quei biglietti bizzarri e tutti suoi che usava scrivere in un pezzetto di foglio qualsiasi, di traverso e in tralice, con un pennino mal intinto o con uno stecco, biglietto che aveva contribuito non poco ad acuire la mia curiosità a suo riguardo, già viva per le notizie che avevo avuto da colleghi miei parigini e che gli creavano intorno come un’aura di leggenda.
Arrivato puntualmente all’ora indicata, domandai di lui in portineria, ma la risposta che n’ebbi a bella prima fu tale che per un istante quasi credetti d’aver sbagliato uscio. Con fare guardingo, parole involute, ambagi e reticenze, portiere e portinaia, senza proprio negare l’esistenza nel loro stabile di un artista italiano chiamato monsieur Rossò, parevano volermi far capire che avrebbero preferito, quanto a loro, ignorarla, o che almeno gli altri la ignorassero per non richiamarla ad essi ogni tanto in memoria. Conosciute più tardi le relazioni che correvano, assai difficili, tra costoro e l’eccezionale inquilino, ebbi la chiave di tanta ermeticità e diplomazia. Comunque quel giorno i due lavativi finirono con l’indicarmi, in fondo ad un cortiletto, una porta massiccia e larga come quella d’una rimessa, con un bottone elettrico in mezzo; il quale io premei discretamente. Nessuno si fece vivo. Tornai allora a suonare più deciso; ma poiché la porta restava chiusa né si udiva risposta, sebbene avessi sentito avvicinarsi qualcuno di dietro in punta di piedi e con gran cautela, invece di suonare bussai, tre, quattro volte, sempre con maggiore energia, finché il “qualcuno” non tirò la stanghetta ed aprì uno spiraglio; strettissimo è vero, ma che tuttavia mi permise di entrare.
Mi trovai allora in un breve spazio, tra il portone, in fretta richiuso, e una tenda di tela grezza, davanti a un uomo grosso, grasso, di pelo fulvo, dagli occhi piccoli e penetranti, con un collo da lottatore sopra un torace da atleta chiuso in un maglione di lana color nocciola: assai dissimile dunque da quello che conoscevo soltanto per l’elegante ritratto stampato nel mio libro; ma che subito riconobbi, e che senz’altro mi abbracciò come se fossimo stati intrinseci da chi sa quanti anni
– Te voilà donc, el me bagaj. Sono contento che tu sia come ti immaginavo. Tu as une tete à la Baudelaire! Entre par ici.
Così dicendo Rosso scostò la gran tela e m’introdusse nello studio
Non era propriamente uno studio, ma uno stanzone spropositato, lungo, largo, alto, con una tettoia di vetro per soffitto, e che una volta aveva servito di sala da riunioni a un’associazione politica, secondo ho poi saputo. Un paio di scrivanie e qualche stipetto di foggia antica, su cui si mischiavano in incredibile disordine martelli e libri, fiori freschi in bicchieri, stoppa, lettere e romaioli, fiancheggiavano un banco da falegname o da magnano, munito di morse di legno e di ferro, tutto coperto d’arnesi di varia specie, come tenaglie, lime, raspe, punteruoli, scalpelli, mentre altri arnesi dello stesso genere erano appesi ai muri torno torno, e buglioli, secchie, incudini, zappe e pale giacevano sparsi per terra, vicino a un mucchio di antracite che riempiva tutto un cantone. Una massa enorme di creta risecchita, coperta di stracci occupava l’angolo opposto. In un altro si accatastavano scale a pioli, casse e cassette di ogni forma e misura, mattoni e tegoli; fino a una specie di forno o fornace, eretta quasi nel centro del locale ed a cui si addossava un largo trogolo, o piuttosto tinozza piena fino all’orlo d’acqua nera e untuosa. Sotto la tettoia si allungava una graticciata fatta di regoli e fili di ferro sulla quale si vedeva stesa contro la luce del giorno una quantità di certa roba simile a pelli di coniglio accartocciate, a stoccafissi o a larghe stecche di colla, e che erano forse falde di cera vergine, se non pure di qualche metallo buono per quelle fusioni di cui solo l’artista possedeva il segreto.
Fra tanta congerie di attrezzi e materiali, alcune opere dello scultore trionfavano qua e là su trespoli, piedistalli e colonnette, più vive per il contrasto, più ricche d’umanità, fiori prodigiosi di spiritualità e di bellezza. Allegro a vedere la mia grande sorpresa di trovarmi in quella officina squallida al primo aspetto, ma animata invece dal suo genio, di cui testimoniava l’alacrità, Rosso mi andava guidando dall’una all’altra di quelle sue creature artistiche, imponendomi tirannicamente l’esatto punto di vista donde si poteva goderne a pieno la potenza espressiva, felice di capire più dalla mia faccia che dalle mie parole come l’effetto prodotto in me dalla loro grazia fosse ottimo, e precisamente delle specie ch’egli voleva.
– Te vedet? L’è minga botega, ca, hein!
Ogni tanto approfittando delle mie contemplazioni davanti a un bronzo, a una cera più suggestivi degli altri, si allontanava tacitamente per andare a frugare dietro un divano, sotto un tavolino, fra un mucchio di giornali e vecchi scartafacci, o spariva addirittura in qualche ripostiglio che doveva esserci oltre la tenda, per tornare ogni volta vicino a me con qualche nuovo lavoro, che mi mostrava ridendo tra la barba brizzolata, ammiccando con i suoi occhi furbi ed affettuosi ad un tempo, tenendolo all’altezza conveniente e rigirandolo tra le sue piccole mani aristocratiche, fino a che non avesse trovato la vera e più favorevole luce in cui presentarmelo. Talvolta, posatolo sopra una di quelle scrivanie o sul banco tra il guazzabuglio degli arnesi, accostava ad esso un bicchiere con un mazzolino di fiori, spiegandomi poi che quello era il miglior modo di verificare la naturalezza, la vitalità e la genuina bellezza di un’opera d’arte plastica o pittorica. Una volta infatti ch’io portai nel suo studio, più anni dopo, uno dei miei dipinti, Rosso fece il medesimo esperimento con un mazzetto di violammammole, e soltanto quand’ebbe visto che la pittura non discordava, per luminosità e freschezza, da quei fiori, mi fu cortese della sua approvazione amichevole.
Fu così che quel primo giorno potei osservare ed ammirare gran parte delle creazioni dell’eccellente artista, alcune delle quali già conoscevo, senza tuttavia averle mai viste tanto ben presentate, mentre altre, e non delle minori, quali una Donna ridente, in cera bionda al pari del miele, l’Yvette Guilbert e l’Ecce puer, mi giungevano nuove, così come mi parvero stupende.
Espressi con calore a Rosso quelle mie bellissime impressioni, del che egli mi compensò con ogni sorta di cortesie, tra cui pongo in prima linea taluni chiarimenti relativi al suo modo personale di intender l’arte, i quali, se allora non mi parvero tutti persuasivi, sotto un aspetto strettamente estetico – anche perché formulati con un linguaggio dei più inusitati ed arbitrari – mi dettero però la più fulgida idea della sua potenza geniale, mentre mi furon poi sempre di gran soccorso per la comprensione profonda della sua individualità di scultore, non solo, ma di uomo.
Tuttavia quella mattina e tutto quel giorno li passammo insieme; nello studio prima, seguitando a parlare d’infinite cose relative alla sua vita dura e magnifica, piena di cose e di casi tristi e giocondi, poi in una cameretta che Rosso aveva al mezzanino dello stesso immobile, povera camera da operaio solitario, ma dove l’ospite conservava in cassetti ed armadi piccoli tesori d’arte orientale e gotica, che estrasse, per farmi piacere, dall’ovatta dei loro scrigni, esponendoli poi in bell’ordine sulla coperta dell’ampio letto; e finalmente a zonzo per la città serale e notturna, per boulevards e viuzze, di ristorante in caffè. Vagabondaggio poetico e gaio, come se ogni differenza di stato e d’età fosse abolita tra noi, e durante il quale ebbi la splendida opportunità di penetrar molto innanzi l’anima bella, eroica, ingenua, nel senso originario del termine, per certi lati fanciullesca e sbarazzina del mio compagno, cui tanto affetto doveva legarmi in seguito.
Intanto, quando dinazi al suo portone ci separammo quella notte (ed erano ormai le ore piccine) eravamo amici: Amis de prima categoria l’uno dell’altro, secondo l’espressione che Rosso amava adoperare e che stabiliva una gerarchia ond’egli ha fatto sempre gran caso in vita e fino all’atto della morte.
Ardengo Soffici, Rosso Aneddotico (1920), in Opere V, Vallecchi, Firenze 1963, pp. 576-580.
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Pietro Pancrazi – Eugenio Giovannetti
Il critico letterario Pietro Pancrazi (Cortona, Arezzo 1893 – Firenze 1952) presenta il suo primo incontro con lo scrittore Eugenio Giovannetti (Ancona 1883 – Roma 1951). L’incontro risale agli anni della Grande guerra. Un fante che marcia in guanti bianchi e se ne va a spasso durante il suo turno di guardia, richiama su di sé l’attenzione dei superiori; è uno scrittore, e mostra di esserne fiero, ma prim’ancora è un personaggio satirico. Il racconto dell’incontro fortuito si legge in una recensione di Pancrazi del 1921 al Satyricon di Giovannetti dal titolo Eugenio Giovannetti moralista di nessuna morale.
Cedant arma togae
Non so pensare a Eugenio Giovannetti, senza ricordare il modo del nostro incontro, la prima volta. E fu in un tempo vicino e lontano. Io comandavo allora, con poca voglia, le evoluzioni di un plotone di fanteria, su e giù per i prati del Campo di Marte, a Firenze. Una mattina, il capitano che sorvegliava da l’argine le innocue manovre, a un tratto mi fa cenno che m’avvicini; io fermo il plotone e corro. (“Cicchetto”). – Lei, tenente, ha il beneficio di non veder mai niente; c’è un soldato nel suo plotone che marcia in guanti bianchi e con la caramella.- Due giorni dopo, in fureria, lo stesso capitano mi incarica di un rapporto per il Comando di battaglione: un soldato comandato di guardia, ha girato l’incarico a un suo amico, e se n’è andato a spasso. “Se fosse corso denaro per la sostituzione, sarebbe un reato. Veda il codice”. Chiamo il soldato, l’osservo. E’ ancora quello dei guanti bianchi; un “granista”. L’interrogo. Mi risponde con garbo e con calma, con una caratteristica voce suadente e grassa. Gli domando il nome e la classe. – Eugenio Giovannetti, della classe…- Gli rificco gli occhi in faccia. Giovannetti? Ricordo il “Carlino”, il “San Giorgio”. Devo averci anche un suo libro (non mai letto), Il tramonto del liberalismo.
– Di professione?
– Scrittore.
Non c’è più dubbio. Con un po’ d’imbarazzo e noiato, dagli appunti presi, cavo il mio rapporto, mentre il soldato Giovannetti “passa alla prigione”. Ricordo ch’era d’ispezione, quella settimana, il capitano Giuseppe Prezzolini; l’avvertii della cosa; e il capitano Prezzolini andò a trovare in cella il soldato Giovannetti…
Giovannetti, io non lo rividi più soldato. Ma quando, negli anni di poi, cominciai (e seguitai con gusto crescente) a leggere per i giornali le canzonature, i frizzi, le sommarie giustizie e ingiustizie dei suoi Satyricon, spesso ricordavo, sorridendo, quell’incontro lontano.
Eh no; se dipendesse da Borgese e da Salandra o da Luzzatti o da Piero Misciatelli o da Pastonchi o (povero lui) da Fancesco Coppola, invece che nella sua calda stanza romana, Giovannetti sarebbe ancora nella prigione dell'”84″ in via Tripoli.
Pietro Pancrazi, Eugenio Giovannetti moralista di nessuna morale, Ragguagli di Parnaso, II, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Npoli 1967, pp. 97-98.
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Ugo Ojetti – Luigi Capuana – Emile Zola
Il giornalista-scrittore Ugo Ojetti (Roma 1871 – Firenze 1946) è il testimone ironico e divertito dell’incontro tra il padre del naturalismo francese, Emile Zola (Parigi, 1840-1902) e il teorico di punta del verismo italiano, Luigi Capuana (Mineo, Catania 1839 – Catania 1915), avvenuto nel 1895 a Roma nel Grand Hotel. Zola intendeva raccogliere la documentazione necessaria alla stesura del romanzo Rome, facente parte del ciclo Trois villes (accanto a Lourdes e Paris). Durante il soggiorno romano Capuana si offrì di raccogliere dati sulle donne della città, e promise anche delle fotografie sullo stesso tema. Non mancano alcune osservazioni del giovane giornalista che suonano piuttosto pungenti (Zola in agonia, Zola e Capuana che non conoscono le rispettive lingue, Zola che sembra un molosso e Capuana il suo ammaestratore, ecc) come un giudizio critico non proprio lusinghiero. L’incontro rientra nella tipologia della presentazione. Il racconto, datato Firenze, 28 ottobre 1922, corrisponde alla parte iniziale di un elzeviro scritto per il “Corriere della Sera” in occasione del ventennale della morte di Zola, e poi inserito nei volumetti delle Cose viste (1923-1939).
“Capuanà, Capuanà…”. “Vuvù vuvù…”.
Emilio Zola morì asfissiato il 28 settembre 1902. Ho aspettato un mese per vedere se dopo vent’anni qualcuno in Italia si ricordava di lui, almeno nell’anniversario della morte. Nessuno. Da sei anni la storia s’è incamminata per una strada che il povero Zola credeva sbarrata per sempre, e nessuno trova tempo adesso per tornare indietro e cercare i resti di questi dispersi, il Romanzo Sperimentale, la Scienza maestra dell’Arte, il Progresso democratico, la Pace universale.
Quando nel 1895 venne a Roma, ad accumulare, come diceva, i materiali per costruire il suo Rome e vi fu accolto trionfalmente, Emilio Zola, anche escluso dall’Accademia, sembrava immortale. Noi romani amiamo i trionfi, sopra tutto per guardare da vicino i trionfatori. Dopo tre settimane di sudate fatiche, quando Zola ripassò con un carico di libri e di note le Alpi, egli ci sembrò, come scrittore, in agonia. E il giudizio degli stranieri, si sa, rappresenta il giudizio dei posteri.
Appena arrivò al Gran Hotel, gli portai la lettera con cui un amico da Parigi gentilmente m’invitava a mettermi a disposizione di lui. Nell’anticamera trovai Luigi Capuana, faccione tondo e roseo, uomo candidissimo e timido che fino alla morte conservò un’ingenua lenta incantevole bontà provinciale. Emilio Zola era il suo duce, il suo re, il suo dio, e a Zola egli aveva dedicato “Giacinta”. Ma a differenza delle consuete divinità, Zola non capiva altra lingua che il francese, e Luigi Capuana il francese non lo parlava. S’era messo in redingotte: mi chiese di fargli da interprete, ed entrammo insieme. Zola l’accolse a braccia aperte, con parole tanto cordiali e perciò tanto chiare, pur continuando ad assicurarsi gli occhiali sul naso camuso, che io non ebbi per qualche minuto niente da tradurre. – Capuanà, Capuanà, mais vous etes le chef de l’école réaliste en Italie -. Questo glielo dovetti tradurre e perché la pronuncia blesa di Zola rendeva meno comprensibile il suo discorso appena usciva dalle esclamazioni gesticolate e dai correnti convenevoli, e perché il buon Capuana non poteva credere alle sue orecchie; anzi quell’improvvisa investitura a sottopapa in partibu infidelium, per quanto meritata, gli dava insieme estasi e terrore. Sorrise alla fine, beato, e si dette a lanciare tanti “vuvù vuvù” a dito teso, che volevano dire: – Vous, Vous, voi voi siete il nostro capo su tutta la terra, e basta -. Ma davanti alla faccia da molosso del francese, Luigi Capuana sembrava, moltiplicando ansioso quell’unica sillaba, un ammaestratore che volesse insegnargli come si abbaia.
Finalmente ci si sedette e si parlò, diciamo pure, di letteratura
Ugo Ojetti, Cose viste I, Treves, Milano 1925, pp. 254-256.
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Ferdinando Martini – Luigi Muzzi
Ferdinando Martini (Firenze, 1841 – Monsummano, Pistoia 1928) racconta l’incontro con il quasi ottuagenario Luigi Muzzi nella Firenze dei primi anni ’50 del XIX secolo, in cui Muzzi, il Principe dell’epigrafia, si attarda nel ricordo di gare di erudizione inconcludenti e vane. E’ il segno dell’assonnata Firenze granducale, rievocata a circa settantanni di distanza dal giornalista e uomo politico fiorentino.
Il primo dei due volumi di cui si compone Confessioni e ricordi fu edito nel 1922, il secondo l’anno della morte di Martini, il 1928. La tipologia dell’incontro è quella della visita.
Il Principe dell’epigrafia
Luigi Muzzi! chi, se non qualche studioso, ha in mente oggi questo nome? Abitava al primo piano di una casa in via Santa Reparata; un amico di mio padre che abitava al piano superiore volle condurmi da lui, avvertendomi che si trattava -nientemeno- che di fare la conoscenza del Principe dell’epigrafia. Con quanta trepida reverenza me gli accostai! e sì che il brav’uomo non aveva nulla di regale nell’aspetto e nell’abbigliamento; quasi ottantenne, piccolo asciutto sdentato; avvolto in una veste da camera spelacchiata, le parole gli uscivano dalle labbra accompagnate da un sibilo, accompagnato a sua volta da spruzzi che schizzavano ad aspergre il viso dell’ascoltatore vicino. Ma era il Principe dell’epigrafia e quel titolo, appunto perché non bene ne comprendevo il significato, mi ispirava una timida, quasi paurosa venerazione.
Perché era di ottimo animo prese a benvolermi; ma conviene credere che alla bontà dell’animo fosse pari la vanità, se perdeva tempo ad esporre a un bamberottolo di dieci o undici anni i propri meriti e nel vantargli il proprio imprescrittibile diritto alla gloria.
Raccontava: era stato amico del Mustoxidi, del Pindemonte, del Foscolo e di Matilde Bonaparte Demidoff, cui, anzi, intitolò un suo libro; (e io naturalmente a domandargli chi fossero il Mustoxidi, il Pindemonte, il Foscolo e Matilde Bonaparte Demidoff, de’ quali sino allora nulla sapevo). Aveva composto oltre mille epigrafi; e mi regalava la Decima centuria che ancora conservo, scrivendo sul frontespizio il suo nome e il mio. Vanamente il signor Pietro Giordani osò contendergli il primato (e io: – chi è, scusi, il signor Giordani?): nella concisione, nell’armonia, nell’eleganza della forma epigrafica nessuno lo vinceva. Per certi muraglioni costruiti a Venezia il Morcelli (e io: – chi è, scusi, il Morcelli?) dettò questa iscrizione: ausu romano aere veneto, la quale dissero per la concettosa brevità insuperabile.
– Ma il Muzzi, sai? – soggiungeva fissandomi con gli occhi fattisia un a un tratto raggiosi – ma il Muzzi la superò: Romanamente i veneti: il Morcelli quattro parole, il Muzzi tre.
E seguitava… (…)”.
Ferdinando Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), in Memorialisti dell’Ottocento, tomo II, La Letteratura Italiana. Storia e Testi, Ricciardi, Milano Napoli 1958, pp. 1031-1032.
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Ugo Ojetti – Marcel Proust
Nel necrologio di Marcel Proust (Parigi 1971 – 1922) apparso sul “Corriere della Sera” a firma di Ugo Ojetti (datato Sassari, 5 febbraio 1923), il giornalista-scrittore italiano ricorda il suo primo e ultimo incontro con Proust avvenuto vent’anni prima, a Parigi, nel salotto di Madama de Caillavet. Ojetti fornisce di Proust un preciso ritratto, ma soprattutto mette in luce lo spirito intelligente ed arguto, capace con una battuta di riassumere lo stato d’animo di tutti i conversatori o di centrare il senso d’una questione. L’incontro rientra nella tipologia della presentazione (l’intermediario è qui il celebre Anatole France).
Un giovanotto pallido e bruno
Fu una sera, a Parigi, una ventina d’anni fa, in casa di Madame de Caillavet, della quale casa, tra molti scrittori, uomini politici, attori ed attrici, l’elemento più ammirato era Anatole France. Accanto al salone si apriva una saletta, direi, riservata, dove con France due altri uomini amavano appartarsi: Clemenceau ed Hébrard, l’uomo di maggior spirito che io abbia conosciuto finora (e cominncio a disperare di trovare chi lo superi, tanto l’aria s’è fatta grossa). France restava in piedi davanti al caminnetto, e quelli altri due vecchi arzillissimi di fronte a lui. Quella sera discutevano dell’esistennza di Gesù Cristo perchè allora era uscito non so che articolo per provare che Gesù in carne ed ossa non è mai esistito. France sfoggiava la sua dialettica maliziosa alla Renan, salvo la nostalgia per la pace claustrale. Hébrard osservava che la scoperta, se mai, arrivava con venti secoli di ritardo: -Se i poveri martiri l’avessero saputo…- Accanto a me rispettosamente silenzioso, stava un giovanotto pallido e bruno, gli occhi sporgenti, le ciglia lunghe e lucide, il collo sottile, una marsina con le spalle troppo larghe e con le maniche troppo lunghe che non sembrava la sua, la cravatta bianca un poco pesta e di traverso, lo sparato a onde. Anatole France parlava rivolgendosi più a lui che agli altri. E quello taceva immobile in quel suo atteggiamento cascante. Mutava solo la posizione della testa, ora piegandola sulla spalla sinistra, ora sulla destra, come fanno gli uccelli. D’un tratto France gli chiese netto: – Proust, qu’est-ce que vous en pensez? Voyons, parlez. – E quello tranquillo: – Mon maitre, dans cette discussion ce n’est pas Jésus Christ qui m’intéresse, c’est Anatole France.
Aveva rivelato in due parole l’animo di tutti noi. La discussione deviò. France mi presentò a lui con una di quelle perifrasi gentili ed encomiastiche che sembrano dediche di libri. Non so perchè in quella presentazione egli nominò Venezia. Marcel mi domandò affabile ma distante: – Vous etes vénitien? – Non, je ne suis pas vénitien. – Mais d’où etes vous? – e mise nella domanda una punta d’impazienza verso lo straniero sconosciuto. Risposi modesto: – Je suis romain.- E lui: – Oh, c’est trop grand!
Aveva ragione anche questa volta: uno scrittore romano non s’è mai veduto nella letteratura italiana.
Ugo Ojetti, Cose viste, I, Treves, Milano 1925, pp. 308-310.
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Pietro Pancrazi – Giuseppe Ungaretti
Pietro Pancrazi racconta il primo incontro con il poeta viaggiatore, Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888-Milano 1970). Siamo a Firenze, nello studio dell’editore Attilio Vallecchi (Firenze 1880 – 1946), nel 1917. Scorgiamo Ungaretti in veste dimessa di fante, di ritorno dalla Francia, mentre estrae dal sua valigia piena di cose il manoscritto delle poesie (Allegria di naufragi) per consegnarlo al Vallecchi. Lo scritto di Pancrazi, intitolato Incontro con Ungaretti, è datato 1923. Esso fu sistemato dall’autore nella sezione Gli scrittori e la guerra dei suoi Scrittori d’oggi (1942-1953). La tipologia è quella dell’incontro-convegno.
Come deve viaggiare il poeta
In tempo non lontano, imparai da Giuseppe Ungaretti come deve viaggiare un poeta. Dietro il peso di una valigia spinta avanti da mani e ginocchi, lo vidi spuntare una sera, a Firenze, nella stanza dell’editore Vallecchi. Era in veste di fante, e non “arrangiata”: dinoccolato, con l’ultimo bottone della giubba slacciato, con le scarpe chiodate e le scarpe alla meglio, e in testa il berretto con la visiera alla Cuttica, pallido, il “toscano” pendente dalle labbra, davvero Ungaretti al primo aspetto conciliava le miserie e l’aria superiore del fante.
Sono un poeta
un grido unanimo
un grumo di sogni…
Questo ancora non lo sapevo. Ma fin dal suo primo parlare si sentiva in lui una gentilezza scettica e come una desolata intelligenza che gli conciliavano subito la simpatia. In quel costume, con quella valigia, veniva da Parigi. Dopo due anni di fronte l’avevan mandato in Francia per non so che propaganda; e delle cose di Francia e nostre parlava adesso come di un paese solo, di un’unica sorte. Diceva insieme di guerra e di letteratura: Soffici e Foch, Apollinaire e Cadorna; e nel suo discorso tutti sembravano sullo stesso piano, importanti tutti a un modo.
Nato di genitori lucchesi in Egitto, educatosi in Francia, e toscano, apuano anzi (se è esatto il Viani) della compagnia di Ceccardo, sembrava che Ungaretti, senza parlare, col solo aspetto della sua indolente rassegnazione, fosse lì apposta per dimostrare che tutto il mondo è paese, e che le azioni tutte degli uomini, guerra o poesia, sono una stessa cosa.
Ungaretti uomo di pena
Anche questo emistichio allora non lo sapevo. Rannicchiato all’angolo di una quasi poltrona, tratto tratto Ungaretti ritirava la testa tra le spalle, stringeva in silenzio la bocca e gli occhi, e tutta la faccia allora gli si chiudeva, curiosamente, come il rientrare della testuggine (solo vivo restava il mezzo “toscano” in risucchio); ed io pensavo all’Egitto.
Ma se gli occhi si aprivano di sorpresa, grandi e sereni, su su che sembrava non dovessero mai finire di aprirsi come quelli di un bambino, e lui entrava a un tratto con una frase, una battuta vivace, quasi di traverso, nel discorso degli altri, – ecco sveglio l’uomo di Lucca. Ma si smorzava subito, rientrava ancora tutto nelle spalle, ribevendosi le ultime parole tra i denti stretti e finiva in un mezzo riso chioccio.
Prima di uscire, quella sera Ungaretti si riaccostò alla sua valigia lasciata a un angolo della stanza; aprì, frugò, rifrugò a due mani (che cosa mai non affiorava di lì dentro?), ne cavò alla fine un manoscritto. Ad accoglierlo, con le palme tese, gli mosse incontro Vallecchi col più promettente dei suoi sorrisi.
Ripensando a Ungaretti, non so perché, ma io l’ho immaginato sempre vicino a quella valigia, in una stazione di Parigi, o sotto la tettoia di Lucca, sopracoperta in un transatlantico, o con le gambe penzoloni sull’imperiale di una diligenza di campagna. Così, uguale a se stesso, deve viaggiare il poeta; per lui, più che per tutti, qualunque punto della corteccia della terra resta equidistante dal centro.
Dice ora Mussolini (in tutt’altre faccende affaccendato) presentando l’opera di Ungaretti in edizione magna Il Porto sepolto: “Io non saprei proprio dire in questo momento come Giuseppe Ungaretti sia entrato nel cerchio della mia vita”. Proprio così: la figura di Ungaretti è di quelle che al solo apparire entrano misteriose nella vita d’un uomo.
Pietro Pancrazi, Scrittori d’oggi, II, serie prima, Laterza, Bari 1946, pp. 24-26, poi in Ragguagli di Parnaso, II, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1967, pp. 44-45.
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Antonio Baldini – Ugo Ojetti
Antonio Baldini (Roma 1889 – 1962) ricorda nel 1923 con profonda gratitudine una visita ricevuta nell’ospedale da campo di Romàns d’Isonzo (Gorizia), a ridosso della prima linea del fronte, durante la prima guerra mondiale; la visita inaspettata di un uomo conosciuto solo attraverso la lettura di alcuni suoi scritti: Ugo Ojetti (ricordo che Ojetti era di dieci anni più anziano rispetto a Baldini). L’incontro è datato con precisione nell’incipit del racconto: 10 novembre 1915. Per Baldini che giace ferito in un letto, la visita di Ojetti è un richiamo alla vita, oltre che la testimonianza della gentilezza e solidarietà di uno scrittore famoso.
Il racconto è tratto dal volume autobiografico Il libro dei buoni incontri di guerra e di pace.
Meglio che in Campidoglio
La parte di “cosa vista” l’ho fatta anch’io, modestamente, addì 10 novembre 1915.
Ravvolto come la mummia di Tutankamen, gemevo in un lettuccio dell’ospedale da campo 099, fuor dell’ultime case di Romans, con una spalla rotta da una fucilata e una ferita d’arma da taglio allo scroto. Notte e giorno il tuono delle artiglierie facevano tintinnare i vetri della finestra sopra il mio letto, ed io, dissanguato e immobile, mi sentivo una povera cosa abbandonata da tutti che per il momento non chiedeva altro che uscir al più presto dagl’impicci.
Affondato il capo in un cuscino di piume lasciatomi passando dal mio irreprensibile amico Dino Alfieri, me ne stavo così, pressoché inanimato, quando una mattina sento dalle scale una voce, la voce di qualcuno che domandava di me con un singolare accento, come se il mio cognome importasse ancora qualcosa, avesse per qualcuno un po’ di peso. Ed ecco che si sente salire, e un ufficiale s’affaccia sull’uscio, coi guanti e il berretto in mano, il pastrano abbottonato, e mi vien vicino con un viso pieno d’amicizia e mi dice: – Sono Ojetti. Dino Alfieri m’ha detto a Gradisca che lei era qui.
Sentendo il nome d’Ojetti mi feci per levarmi sul fianco.
Di suo non avevo letto che due novelle di molti e molt’anni prima, stampate in un volumetto della Piccola Collezione Margherita, dov’era inciso innanzi al frontespizio un ritrattino dell’autore con un gilè di gran fantasia, il solino aperto davanti alla gola per quanto largo il nodo d’un’ampia cravatta, i capelli ondulati, la guardatura tra ironica e sorpresa: e ora ravvisavo quel sembiante quasi immutato e ravvivato nel momento da una premura e una simpatia che m’andarono diritte al cuore. Seppi che la bella visita la dovevo a qualche scritto ch’egli aveva in addietro letto di mio e che gli era piaciuto. Drizzai stupefatto gli orecchi. Mi parve, s’indulga alla mia debolezza del momento, mi parve di tornare alla vita d’un colpo, tanto mi sentivo allora giù, sprofondato, dimentico al tutto di quei lussi letterari d’una volta.
Domani che m’avessero a coronar poeta in Campidoglio come Petrarca, son sicuro che non gusterei neanche la metà del piacere che mi dette in quel punto, in quel fondo di letto e con la più lunga barba che ai miei giorni avessi mai, quell’inatteso richiamo da parte di una persona così autorevole e garbata. Mi domandò poi se desiderassi qualcosa: lo pregai solo di onorare e tranquillizzare mio padre con un rigo. Altro mi chiese e altro risposi, che più non ricordo. Ma quella sua prima vista mi piacque tanto che quando ora rivedo Ojetti non posso tenere la memoria che non mi riporti allegramente lassù: e in tanto che lui s’immagina di parlare qui con un uomo libero e in gamba, io lassù pian pianino mi rificco in quel letto, mi ribendo e mi rimbarbo, come in quella mattina di novembre che la sua gentilezza e solidarietà di scrittore gli fecero fermar l’automobile alla porta di quella villetta tinta di rosa e in istile liberty.
Antonio Baldini, Buoni incontri d’Italia, in Il libro dei buoni incontri di guerra e di pace, Sansoni, Firenze 1953, pp. 366-367.
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Ugo Ojetti – Enrik Ibsen
Nel centenario della nascita del drammaturgo norvegese Enrik Ibsen (1828-1906), Ugo Ojetti ne ricorda sul “Corriere della Sera” (articolo datato da Firenze, marzo 1928) la figura severa e brusca, e tuttavia sorprendente ed indimenticabile. Scrive in proposito Ojetti con felice arguzia nella parte iniziale del brano: “La verdazzurra città di Cristiania potrà mutare nome dieci volte, sul mar congelato dal frullare dell’asse terrestre si potrà finire a passeggiare tranquilli come nel Fòro romano, ma la mia memoria o fantasia unirà sempre l’eterna ghiaccia alla canizie d’Ibsen, il sole insonne degl’iperborei all’occhio tondo di Ibsen dietro il luccichio degli occhiali; e tanto peggio per la logica” (op. cit. in basso, pp. 214-215).
L’incontro avvenne nel Teatro Nazionale di Kristiansund (Norvegia) durante il viaggio del giornalista-scrittore italiano che doveva descrivere i preparativi della spedizione del Duca degli Abruzzi e di Umberto Cagni al Polo Nord nel giugno 1899. La tipologia è quella della presentazione (l’intermediario è il drammaturgo Bjornstjerne Bjornson), che si sovrappone a quella della visita al grande e celebrato drammaturgo. Riporto qui la parte conclusiva dell’articolo.
Il sorriso di Ibsen
Da più giorni avevo veduto nella saletta dei fumatori al Grand Hotel una sedia con un cartellino in inglese appeso alla spalliera: “This chair is reserved to dr. Ibsen, questa sedia è riservata al dr. Ibsen.” Quando arrivai col mio introduttore [Bjornstjerne Bjornson], non v’era che lui nella sala dentro la sua sedia a braccioli. Mi fece sedere alla sua destra, ordinò il tè e cominciò a gurdarmi senza parlare. L’altro gli diceva del Duca, della spedizione, della Stella Polare, e Ibsen mi fissava. Bocca rasa, mento raso, cravatta bianca, fedine candide, capelli candidi ritti a raggera sulla fronte altissima; quel volto roseo senza collo sembrava affacciarsi fuor da un ispido cespuglio coperto di neve. Dietro le lenti a stanghette d’oro, l’occhio sinnistro era socchiuso sotto la piega della palpebra, l’occhio destro invece spalancato e tondo, che intorno alla pupilla grigia gli vedevi il bianco: di là un professore tutto sussiego, di qua un osservatore aggressivo con una punta di mania. E non si moveva. Solo la mano dalle dita grosse già svuotate dalla vecchiaia continuava ad accarezzare il bracciolo della sedia. Voleva addormentarmi? Voleva spaventarmi? Non gli guardavo più che l’occhio aperto, e mi pareva sempre più grande. Anche la loquela del mio amico cominciava a dar guizzi come stesse per spegnersi. Mi chiedevo: “Parlerò io o parlerà lui?” Per fortuna entrò una signorian che teneva a braccio teso un mazzolino di violette e venne difilato da lui: s’inchinò come a corte su un ginocchio solo e gli offrì il mazzolino con la solennità con cui gli avrebbe offerto un diploma. Ibsen si alzò, s’inchinò, pèrese i fiori e torrnò a sedere senza aprir bocca. Ormai guardava i fiori, non guardava più me, e li odorava con avidità, l’uno dopo l’altro, quasi che da un fiore fiutato a quel modo egli fosse certo d’aver estratto tutto il profumo e dilasciarlo vizzo. S’udiva il respiro che gli usciva dal naso a martello. Quanti minuti durò a uccidere così le violette? Quando tornò a guardar noi, aveva un altro volto, sereno: – se vuole fumare, fumi. Io non fumo. – Era vestito di una redingotte da scienziato tedesco, di quel panno nero lucido che allora s’adoperava per le marsine. Si parlò in inglese della spedizione del Duca: quanti uomini, quanti Italiani, quanti canim quanti viveri; ma sentivo che non gliene importava niente. Ogni tanto si guadava le maniche, i bottoni, i risvolti e vi passava la mano su, come a togleirne fosse pure un granellino di polvere.
Allora ero giovane e m’addoloravo se non riuscivo a far sorridere, almeno per cortesia, il mio interlocutore. Quale era la chiave da girare? Ibsen si volse al mio amico e gli parlò in norvegese. Questi tradusse: – Il dottor Ibsen vuol sapere che cosa si recita di lui e che cosa si pensa di lui in Italia. Egli conosce l’Italia, ha detto, quanto la Norvegia. – Partii in volata sulla pista untuosa del teatro d’idee. Nemmeno Enrico Butti, credo, sarebbe stato così eloquente. Lui Ibsen redimeva per noi il teatro dal trito verismo borghese; lui Ibsen restituiva al teatro il regno dell’ideale, della volontà, della libertà, della morale attiva. Quanti periodi arrotondai nella speranza di fargli piacere? Ibsen d’un tratto picchiò il tavolino col mazzo delle violette, tornò a fissarmi in faccia e finalmente, a modo suo, rise: -Zacconi recita sotto il mio nome unn dramma, Spettri, che non è il dramma mio. I critici italiani e francesi vedono in me quello che io non sono, quello che io nonn sarò mai. – Aveva parlato in italiano, perché non vi fossero equivoci. Per ridere muoveva la testa da destra a sinistra, da sinistra a destra, come uno che dice di no. Continuò d’un fiato senza più guardarmi: – I miei personaggi sono uomini veri, non hanno idee. Io bado soltannto alla vita e alla verità. I miei drammi sono vita vera. Quello che poi scrive la critica è, come si dice a Roma, un passatempo. Non è vero che le norvegesi sieno tutte come le donne che ho descritte io. In un prato c’è un abete: tutti i fili d’erba devono per questo diventare abeti? E poi io non vado mai a teatro. A scrivere drammi non s’impara dal teatro, s’impara dalla vita. – Aveva parlato poco in italiano, un poco, quando non trovava la parola, in inglese. Alla fine corrugò le ciglia, si passò la mano sui risvolti e sulle maniche del giubbone a toglierne la polvere che non c’era, e s’alzò di scatto. Il mio amico gli porse la tuba. Uscì a piccoli passi, a testa alta, nel corridoio; e noi dietro. Che sia un timido (pensavo) e faccia il terribile solo per nascondere la timidezza? Che questo vigilarsi, spazzolarsi, irrigidirsi, scattare a tempo, sia non solo per Ibsen al caffè o per Ibsen alla scrivania, ma per tutti costoro quassù, in questo ultimo confine del mondo civile, l’unico modo che hanno per non errare, per nonn cadere, per non impazzire?
Tutti sull’attenti salutavano il poeta che usciva. Davanti all’albergo, a fianco al Parlamento, s’apriva un bel giardino fiorito. Sui gradini del portone e sul marciapiede stavanno allineati molti uomini e donne, con la faccia insù a guardare il cielo: un cielo verdino contro il quale s’erano in basso accumulate lunghe nubi fiammanti. -Che guardano? – chiesi al mio amico. -Le belle nuvole. – Anche il dottor Ibsen s’era fermato a contemplarle, e gli altri ora guardavano lui, superbi d’avere un tanto compagno nella loro felicità e ammirazione. Nelle lucide lenti di lui si rifletteva quell’incendio delle nubi ed egli adesso sorrideva d’un sorriso spianato e buono abbandonando agli occhi il cuore. D’un tratto si voltò a me, si tolse il cappello, e salì rapido in vettura.
Ugo Ojetti, Cose viste, IV, Fratelli Treves, Milano 1928, pp. 219-224.
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Giacomo Debenedetti – Italo Svevo
Il rapporto tra Giacomo Debenedetti (Biella 1901 – Roma 1967) e Italo Svevo (Trieste 1861 – Motta di Livenza, Treviso 1928) fu segnato da reciproche incomprensioni che ne ritardarono l’incontro chiarificatore. I due si erano conosciuti nei primi giorni dell’anno 1928, al termine di una conferenza di Debenedetti a Trieste su Marcel Proust, ma l’incontro aveva segnato un nuovo malinteso tra i due[7]. In questa lettera ad Alberto Carocci datata aprile 1929, Giacomo Debenedetti racconta il suo secondo incontro con Italo Svevo avvenuto una domenica d’aprile del 1928. Svevo morirà nel settembre dello stesso anno; sicché questa ricordo acquista il sapore di un commosso necrologio.
Il critico, accompagnato da un altro grande triestino, Umberto Saba, viene accolto da Svevo appena rientrato da Parigi, all’apice della sua gloria, e intrattenuto con una felicissima conversazione. E mai come in questo caso una similitudine utilizzata da Debenedetti per designare la “perfetta e riposatissima arte del conversare” sveviana si addisse così bene all’opera del romanziere, tanto da diventare un vero giudizio critico: Svevo somiglia proprio ad un ragno alacre nel centro della sua tela. Il rapporto tra il critico e lo scrittore trova così un punto d’equilibrio e di compensazione, e produce un fecondo chiarimento. Per questo motivo il secondo incontro diventa tanto importante agli occhi del narratore da indurmi, una tantum, ad anteporlo al primo (riportato in nota). L’incontro rientra nella tipologia della visita.
Il ragno e la sua tela
Purtroppo, non ho avuto molte occasioni di avvicinare Svevo: ma l’ho veduto e sentito conversare, e mi è parso di cogliere davvero alcuni tratti di quella che in altri tempi avrebbero chiamata la mente di lui.
Fu nell’aprile scorso a Trieste, una bella domenica, nella sua villa sopra l’Arsenale del Lloyd. Era tornato appena dalle onoranze parigine: aveva gli occhi ancora pieni di uno stupore sazio e felice. Ci accolse (mi accompagnava Saba) nel suo studio, un po’ segregato, non troppo, dagli altri appartamenti: un vecchio, si sa, non deve stare troppo lontano dai familiari. La finestra aperta dava sulle ripide viuzze e sugli orti della collina già in ombra; ma s’indovinava dall’altra parte il mare ancora tutto luccicante di sole. Al pianterreno, uno stuolo di parenti e amici attendevano l’ora del tè. Dal giardino salivano i richiami di una brigata di elegantissimi giovanotti e signorine, che giuocavano a tennis. Il “buon Vecchio” parlava di Parigi: il banchetto al Pen Club, Crémieux, gli scrittori francesi e magari, con una punta di civetteria, le sue gaffes d’uomo non ancora avvezzo a trovarsi tra i letterati. Ecco: adesso aveva tutte le opere di Jules Romains – e additava i dorsi bianchi rossi e neri dei volumi della “N.R.F.” nello scaffaletto in fondo alla stanza, allineati accanto a quello, “N.R.F.” anch’esso, del suo Zeno francese – ma a Parigi non lo conosceva ancora e, alle cortesie del cher confrère, non aveva neppure potuto rispondere con una citazione. Poi infilò una serie di commenti sulla pittura moderna, scandalizzati e spiritosi, a proposito di certi quadretti che aveva acquistati da poco e che dichiarava di non essere ancora riuscito a capire. Ripeteva con un gusto arguto: “io non capisco” alzando gli occhi interrogativi e perplessi: lui, che sapeva di aver capito tante cose umane. Veruda, quello era stato un gran pittore. E ci portò a vedere i suoi Veruda. “Questo è il ritratto di un’amica dell’Angiolina (l’Angiolina di Senilità)”. Giù per le scale, mentre ci accompagnava nella veranda, dov’erano radunati gli altri ospiti, accennò a Franz Kafka. Voleva scrivere di lui: un profilo, un saggio. Fece una pausa: “Sì, era ebreo. Certo, quella dell’ebreo non è una posizione comoda…”.
Dosava le pause, i giudizi, i sorrisi, le discrete allusioni alla sua età e alla sua tarda gloria, il preciso ricordo di un fatto e poi un ricamo lento e frastagliato di riflessioni: l’avvincente persuasività, forse un tantino assaporata, del discorso dava per risultato una perfetta e riposatissima arte del conversare. Se il paragone non riuscisse, contro ogni mio intento, brutto e sconveniente, direi che Svevo si metteva al centro della sua sensibilità di osservatore e di conversatore, come un ragno in mezzo alla sua tela. E di mano in mano che un nuovo argomento, non cercato, anzi atteso passivamente e con una certa stanchezza, vi si impigliasse, lui si dava a filarlo, a corrergli intorno, a rigirarlo e a saggiarlo, fino ad averne estratti tutti gli aspetti e significati, in accordo con una sua bonaria, esperta e indulgente idea della vita.
Giacomo Debenedetti, Lettera a Carocci intorno a “Svevo e a Schmitz”, in Italiani del Novecento, Giunti, Firenze 1995, pp. 92-93. Leggila anche in Saggi, Mondadori, Milano 1999, pp. 452-453.
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Corrado Alvaro – Pietro Pancrazi – Margherita Sarfatti
In Quasi una vita, l’autobiografia di Corrado Alvaro (San Luca, Reggio di Calabria 1895 – Roma 1956), si leggono due primi incontri che, posti a confronto, secondo l’indicazione dell’autore, restituiscono il clima politico e culturale di due epoche storiche, prima e durante il fascismo. Il primo incontro con Pietro Pancrazi venticinquenne, subito dopo la prima guerra mondiale, a Bologna, fornisce a Corrado Alvaro un modello di intellettuale (“quel risolvere tutto nei termini dell’intelligenza”); l’incontro con la giornalista e scrittrice Margherita Sarfatti (Venezia 1882 – Cavallasca, Como 1961), molto vicina al regime mussoliniano, invece, conferma lo scrittore calabrese nella sua solitudine durante gli anni del fascismo, a cui invano il falso snobismo della giornalista cerca di sottrarlo, a dispetto di una anonima padrona di casa pusillanime e per nulla ospitale. Sullo sfondo, non si perda di vista la dura requisitoria di Alvaro contro il conformismo di tanti “zelanti” intellettuali italiani, con qualche rara generosa eccezione. Il racconto di Alvaro è datato 1930. Entrambi gli incontri rientrano nella tipologia dell’incontro-convegno.
Colleghi scrittori
Pietro Pancrazi, quando ci incontrammo a Bologna, aveva qualche anno più di me, scriveva nel Resto del Carlino, e mi parve a venticinque anni, quanti ne doveva avere, il tipo dell’uomo di cultura. Vidi in lui per la prima volta quel ritegno, quel risolvere tutto nei termini dell’intelligenza innestata alla semplicità provinciale e in definitiva italiana. Meridionale, io avevo bisogno di dire tutto. Egli mi considerava come uno strano frutto dei miei paesi. Allora, pochi italiani sapevano che cosa fosse l’Italia meridionale, e quale tradizione abbia dietro le spalle. A incontri come questo devo quel tanto che ho acquistato in misura. Quello che mi piace negli uomini è il ricordo reciproco, a tempo, e quando meno è atteso. Questo è poi per le donne il piacere più singolare, che un uomo le ricordi inattesamente, ma al tempo giusto, in una certa circostanza. Rotta l’opposizione nel 1926, Pancrazi si ricordò di me, e senza dirmelo raccomandò il mio nome a La Stampa di Torino. Questi sono benefici fatti a tempo. Tornato dalla Germania, avevo calcolato bene che, in un paese come il nostro, di gente che ha un complesso di inferiorità anche nella cultura, tornare con una stima dell’estero, un editore, dei giornali aperti all’estero, mi avrebbero giovato per tornare a circolare e poter trovare lavoro. Un premio letterario della Fiera Letteraria di cinquemila lire mi avrebbe servito, non soltanto pel denaro, ma per l’acquisto di quel diritto di lavorare. Ma i miei colleghi hanno rischiato di compromettermi più gravemente, chiedendo il parere dei politici, e nientemeno l’assenso della Segreteria del Partito sul mio nome. Vogliono essere in regola, sono zelanti, e così hanno provocato un divieto. E un divieto in queste condizioni è una condanna. Ma bisogna soltanto sperare in persone che, pur essendo in regola, non si vietano qualche atteggiamento libero, o per contrastare con un sospetto di servilismo, o per civiltà letteraria. Dagli scrittori italiani non c’è da aspettarsi, in genere, atteggiamenti simili, che sarebbero propri o di gente che proviene dal popolo e non ne ha gli impulsi, o di gente di una certa aristocrazia, quale fu la cultura francese del Settecento. Gli scrittori italiani hanno né più né meno gli atteggiamenti della classe media italiana, in generale. Ugo Ojetti ha fatto un accenno a me in un giornale. E’ un invito. Vorrei ricordare a coloro che si trovano in circostanze simili alla mia, che subire torti e qualche ingiustizia, muove a volte i più generosi o quelli che si fanno forza per esserlo. Che non nei piccoli bisogna contare per aiuto o difesa, e neppure in quelli che si adattano a una situazione di forza. Ultimamente mi trovavo in casa di persone di conoscenza, prudentissime e tementi. Di questi tempi tutti stanno attenti ai contatti con gente come me, poco meno che in considerazione di appestata. A un certo punto la padrona di casa, che tornava da una chiamata al telefono, mi mormorò: “Badi che fra poco arriva Margherita Sarfatti”. Capii che dovevo andarmene. Mentre mi infilavo il pastrano nell’ingresso, suonano alla porta ed entra Margherita Sarfatti. Ella dice alla padrona di casa che mi accompagnava: “Vorrei avere l’occasione di conoscere Alvaro”. La padrona di casa mi indica. La signora Sarfatti mi dice: “Avrei piacere di rivederla. Io ricevo tutti i venerdì”. E si avviò di là con la sua aria di generale. La signora Sarfatti e temuta e corteggiata. Nelle mie condizioni, evitato, tenuto in sospetto, capisco che mi offre un’ancora di salvezza, forse senza saperlo, per la sua naturale curiosità degli incontri, per il suo eclettismo culturale. Basta che mi vedano in casa sua. Non si spiegheranno come né perchè, e io avrò un certo equivoco diritto, ma diritto, a circolare, pur di non accostarmi troppo alla fiamma. Perché questa è l’anticamera di chi comanda. Questo è scherzare col fuoco. Ma sono solo.
Corrado Alvaro, Quasi una vita [1950], Bompiani, Milano 19744, pp. 57-58.
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Ardengo Soffici – Dino Campana
Dino Campana (Marradi, Firenze 1885 – Castel Pulci, Firenze 1932) nel dicembre del 1913 si reca presso la sede della rivista “Lacerba” a Firenze per avere un colloquio con i direttori, Ardengo Soffici e Giovanni Papini, cui presenta, e affida, il manoscritto delle sue poesie dal titolo Il più lungo giorno, chiedendone la pubblicazione in rivista. I due smarriranno il manoscritto che verrà ritrovato solo nel 1971, tra le carte di Soffici! Il momento del primo incontro – qui descritto proprio da Soffici – corrisponde, dunque, all’inizio della lunga e tormentata vicenda del manoscritto dei futuri Canti Orfici. Dopo lo smarrimento del “taccuino”, Campana li riscriverà a memoria e li pubblicherà a sue spese nel 1914 presso la Stamperia Ravagli di Marradi. La testimonianza di Soffici è del 1931. L’incontro rientra nella tipologia della visita. Riporto in nota la versione dello stesso incontro fornita di Campana, contenuta in una sua lettera a Emilio Cecchi da Marradi del marzo 1916.
Uno strano individuo
Un mattino d’inverno del 1913, io e Papini andavamo alla tipografia Vallecchi in via Nazionale, dove si stampava Lacerba, per dare un’ultima occhiata alla composizione e all’impaginazione – non sempre agevole – della rivista. Prima ancora che fossimo entrati nello sgabuzzino a vetri che faceva da sala di redazione per noi e insieme da ufficio direttoriale dell’amico editore, questi ci venne incontro sin sulla porta e c’indicò un individuo seduto sur un canapè nero di tela cerata, nel corridoio, il quale – ci disse – era poc’anzi venuto e desiderava di parlarci. La persona in parola, che intanto s’era alzata in piedi e ci guardava, era un uomo giovane, di una venticinquina d’anni, tarchiato, con capelli e barba di un biondo acceso, la faccia piena e di color roseo, illuminata da un paio d’occhi celesti, che esprimevano a un tempo sincerità e timidezza come quelli di certi bambini o di gente campagnuola, cui quella di città mette in soggezione. Nell’insieme la sua figura somigliava curiosamente a taluni ritratti di Rubens, specie a uno che esiste nel museo di Napoli e del quale mi ricordai in quell’istante; ma ciò che maggiormente colpì non solo me ma anche l’amico mio, fu il resto di quello sconosciuto, e cioè com’egli era vestito. Privo di un qualsiasi soprabito che lo riparasse dal gran freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava un pentolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola, simile a quelle fatte in casa che portavano i contadini e i pecorai di mezzo secolo fa, i piedi diguazzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambe ercoline sventolavano i gambuli di certi pantaloni troppo corti per lui e d’un tessuto incredibilmente leggero, giallastro, a fiorellini azzurri e rosei, uguale in tutto alle mussoline onde si servono i barbieri di paese per i loro accappatoi, e le massaie povere per le tendine delle finestre che dànno sulla strada.
Gli domandammo chi fosse e che cosa volesse da noi. Con voce esile e lamentevole, tenendo gli occhi a terra e le mani rosse e gonfie di geloni perdule lungo i fianchi, ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, averne il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista. Lo pregammo di aspettare qualche minuto, di darci il tempo di controllare il lavoro tipografico, chè poi saremmo usciti insieme per parlare con più comodo.
Finita la nostra funzione, uscimmo infatti con lui; e giù per via Nazionale, dove la sizza gelata ci tagliava il viso e faceva sventolare quei suoi strani calzoni, poi per via dell’Ariento, riprendemmo e continuammo il nostro discorso. In verità non era possibile giudicare lì su due piedi con che specie di uomo avessi che fare, ma il personaggio c’interessava per più versi, e gli esprimemmo concordi la nostra simpatia e il nostro desiderio di compiacerlo. Quanto ai suoi scritti, gli dicemmo che ce li facesse avere quando voleva, mentre noi avremmo poi giudicato e risposto se facessero al caso nostro. Campana tirò allora fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compre e vendite, e lo consegnò a Papini.
Tirammo avanti fino al Canto dei Nelli, e lì ci fermammo tutti, non avendo altro da dirci. Il freddo terribile ci faceva battere i piedi e lacrimare gli occhi: il nostro nuovo amico tremava come una foglia e si soffiava nelle mani, ridendo nervosamente tra una soffiata e l’altra. All’improvviso ci salutò e sparì di passo lesto verso piazza Madonna.[8]
Ardengo Soffici, Ricordi di vita artistica e letteraria, Vallecchi Editore, Firenze 1931, pp. 109-112.
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Lorenzo Viani – Leonardo Bistolfi
In questo necrologio (datato 3 ottobre 1933) scritto da Lorenzo Viani (Viareggio, Lucca 1882 – Ostia, Roma 1936) per commemorare la morte dello scultore Leonardo Bistolfi (Casal Monferrato, Alessandria 1859 – Torino 1933), lo scrittore e scultore toscano ricorda il primo incontro con lo scultore piemontese avvenuto vent’anni prima, all’incirca nel 1913, sul molo nuovo di Viareggio, davanti al “grandioso scenario delle Alpi Apuane” (cfr. op. cit. in basso, p. 19). Nel 1913 Bistolfi è già famoso soprattutto come autore di gruppi funerari lagrimevoli che appagano un gusto tardo-romantico; il Viani, invece, è sconosciuto ai più. E tuttavia Bistolfi con grande umiltà non esita ad eccettare l’invito del Viani e si ferma a Viareggio per visitarne il giorno dopo lo studio del giovane artista; sarà in seguito mallevadore della prima mostra del Viani nel 1915 a Milano, cui seguirono le mostre del ’20 a Bologna e del ’28 a Milano, sempre presentate da Bistolfi. La tipologia è quella dell‘autopresentazione.
Un Maestro umile
Leonardo Bistolfi ritraeva nel volto il profilo terribile del Buonarroti: la testa, sproporzionata per la larga dimensione all’esile corpo quasi del tutto scarnato, aveva la fronte in rilievo martirizzata di rughe, gli occhi sereni e tribolati, il naso asimmetrico, la barba riccia. Anche le mani colossali, legnose, plastiche, mal si attagliavano sull’esile corpo del Maestro.
Correvano i tempi ch’egli passava per l’Italia come un Dio, quel giorno che io lo scorsi sulla cima dell’antemurale del molo di Viareggio.
Una comitiva di cuori avventurosi si congregava, in quei tempi, sulla scogliera di levante a guardare giù, nel fondo, i granchi, i favolli, le schiaccine camminare all’indietro e, lontane, lontane, le barche invelate, che vanno sempre in avanti. Allogato anch’io in una di quelle spelonche, scorsi il Maestro, di sotto in su, e mi pareva ch’egli fosse già collocato sopra un basamento. Lo riconobbi per le tante effigi che in quel tempo pubblicavano riviste e giornali.
Non visto, uscii dai meandri della scogliera e pedinai il Maestro. Volevo conoscerlo, ma come chiamarlo? Maestro, Professore, Leonardo? Repentinamente con un tono di voce di quando uno, di notte, ha paura, urlai:
– Bistolfi!
– Oh, caro! – disse egli, prima ancora di avermi veduto.
Rimasi interdetto dinanzi all’umiltà del Maestro: la mia chioma, nera, folta, intricata come i ciuffi delle pagliole, s’agitava contro il vento marino: su ogni capello sventolava un proposito, una determinazione, un libro, un quadro.
Il Maestro mi disse familiarmente:
– Cosa fai qui?
– Niente, – risposi.
Nel frattempo, Bistolfi aveva scorto la congrega dei miei amici, i quali avevano, come i barbagianni, messo il capo fuori delle spelonche: teste eremitiche, barbe profetiche, facce glabre tra il frate cercatore e lo sgalerato a condizione, occhi di santi e di manigoldi.
– E quelli chi sono? – chiese il Maestro.
– Sono i miei amici.
– Oh cari, state seduti!
Placai lo stupore di tutti quegli occhi spalancati sopra Bistofi, dicendo:
– Questo è il più grande scultore del mondo.
– Allora, – disse il più stranulato – tocchiamogli la mano, – e tutti parvero prendessero l’acqua benedetta dalla mano di Leonardo Bistolfi, il quale, pregato da me, acconsentì di pernottare a Viareggio per recarsi l’indomani al mio studio.
Lorenzo Viani, Il profilo del Buonarroti, in Vittoria Corti (a cura di), Lorenzo Viani: Dieci articoli, Libreria Padovana Editrice, Padova 1996, pp. 19-21.
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Manara Valgimigli – Giosue Carducci
Frequentato il Ginnasio-liceo di Lucca, dove la fama di Carducci (dell’Inno a Satana) era già arrivata, ed erudito anche dal gusto del padre maestro elementare, lettore entusiasta del poeta, Manara Valgimigli (San Pietro in Bagno, Forlì 1876 – Vilminore di Scalve, Bergamo 1965) giunge a Bologna come matricola universitaria nel novembre 1894. Ed ecco l’incontro col Carducci, indelebile nella memoria, rievocato quarant’anni dopo, nel 1935, in questo “ritrattino” veramente “perfetto”, com’ebbe a scrivere Pietro Pancrazi, recensendo nel 1936 lo scritto di Valgimigli[9]. Si tratta di un estratto dal discorso – dal titolo Il nostro Carducci, maestri e scolari della scuola bolognese – tenuto al Regio Liceo “Torricelli” di Faenza, nel primo centenario dalla nascita. Fu pubblicato per la prima volta dall’editore Zanichelli nel 1936. La tipologia è quella dell’incontro scolastico.
A lezione
Io andai a Bologna nel novembre del 1894. Ginnasio e liceo avevvo fatti a Lucca. Dove, in verità, pochi eccitamenti di questo amore nella scuola io ebbi, se non di qualche raro maestro in liceo, presto venuto a partito. A Lucca il Carducci, intorno al ’90, era pur sempre il cantore di Satana (ricordo che, a proposito di libri di Shelley o su Shelley, nel ’94, il Carducci aveva scritto: “A Lucca non cercai, sicuro che il Santo Volto non può comportare tali vicini”); anche se taluni, che erano o volevano parere più propensi a perdonare codesto, ricoprivano codesto, e altri loro dissensi, di pudori stilistici, rimproverando al Carducci, e massime al Carducci delle odi barbare, atteggiamenti di stile inconsueti e mal tollerabili. Ma io avevo in casa mio padre. Il quale, fino da quando era maestro elementare in un remoto paese di Romagna, dei pochi denari del suo stipendio assai parte spendeva a comprare giornali letterari e libri della letteratura più recente; e così io vidi, fanciullo, in casa mia, la “Cronaca bizantina”, il “Fanfulla della Domenica”, la “Domenica letteraria”, e le edizioni prime del Carducci; e imparai a memoria, appenain grado di leggere spedito, di su un giornaletto di ragazzi, la Leggenda Garibaldina, “Egli nacque da un antico dio della patria”… Venuti poi, poco più tardi, a Lucca, questa o quella leggevo e rileggevo delle odi barbare che mio padre reputasse meglio intelligibile, e alcuna mi ricopiavo per averla tutta per me, Alla stazione, Sogno d’estate, Scoglio di Quarto; e le grandi prose polemiche, Rapisardiana, Ca ira, Satana, Eterno femminino regale; e poi, via via, le odi civili e storiche che il Carducci aveva incominciato a pubblicare ogni anno per celebrare la presa di Roma, il Piemonte, settembre del ’90, Bicocca di San Giacomo, settembre del ’91, Cadore, settembre del ’92.
Oh, i miei pomeriggi autunnali, con mio padre, su le mura di Lucca! Ricordo gli opuscoli in quarto dalla copertina gialla o rossastra, coi margini larghi; e i piccoli elzeviri zanichelliani, di carta liscia e grossa che male reggeva alla legatura, con quelle loro pagine chiare, di stampa netta e minuta; e le Confessioni e Battaglie nelle edizioni del Sommaruga, dalla bella copertina tutt’attorno fiorita di fregi colorati e sottili. Che cosa capivo io allora di tutto codesto? Assai poco, lo so. Eppure molto, chi pensi che cosa è per un ragazzo questo primo aprirsi dell’animo alla poesia: una vampa, una fiamma; sente che la poesia è lì, è presente, gli balena davanti, lo accende; capirà poi; e felice lui se poi, quando capirà, sentirà ancora dentro se quella fiamma. Ora, in quelle condizioni, in quei miei furori poetici e carducciani, che qualche volta irrompessero da me, coi miei coetanei, insofferenze e impazienze anche violente, e qualche volta anche in iscuola coi miei maestri, e me ne rammarico; che questo accadesse, era cosa, diciamo, se non perdonabile, naturale; e mi pareva strano che proprio mio padre, più di tutti, se ne irritava e sdegnava, e forte mi riprendeva e puniva. Anche per questo, immagino, chiedendo io, finito il liceo, di studiar lettere e di andare a Bologna, mio padre in cuor suo dové pensare, – Sarà meglio questo ragazzo levarlo di qui e contentarlo; – e mi mandò a Bologna.
E così mi trovai anch’io, un pomeriggio del novembre, nella prima aula a sinistra di chi entra, dove già da alcuni anni il Carducci soleva fare lezione; non grande, quasi quadrata, chiara, che prendeva luce da due finestroni larghi sul cortile, e separata e isolata dal corridoio esterno mediante una stanza d’ingresso egualmente grande, buona alle soste e alle ciarle negli intermezzi, deposito di pastrani e di libri. C’era gente, non folla: alcune signorine nel primo banco, tre o quattro, e una signora un po’ anziana, la quale poi seppi essere la signora Adolphine Gosme, madre alla moglie di un figlio di Aurelio Saffi, che rividi alle lezioni ogni volta, tutti gli anni, fedele e discreta, e a cui talvolta il Carducci, che il francese leggeva male, se gli capitava dover leggere più a lungo – O via – le diceva – questo lo legga lei, faccia anche lei qualche cosa; – e le allungava il libro e il foglio. Eravamo quasi tutti al nostro posto. Un rumore di persone che ancora si accomodavano, in fondo, ritraendosi dalla porta, nei banchi laterali; e una voce, – Eccolo. – In piedi. Precedeva Monti, Cleto Monti, bidello, come si diceva, di prima classe: un omarino pulito, impettito, con una faccia sorridente, tra ironica e imperiosa, che accennava qua e là se c’era taluno che non stesse dentro il suo banco e occupasse del corridoio centrale. Ed ecco lui. Entrò col suo passo breve, un poco impacciato e strascicato, che più pareva un vezzo che un difetto; tanto più guardando la persona non grande, anzi piccola, ma eretta, gagliarda, quadrata, e il mobilissimo capo che egli volgeva intorno, a scatti fermi e improvvisi. Il cappello a staio pareva calcato a forza su quella chioma riccia e grigia che prorompeva da ogni parte; e la barba, piuttosto ispida e sulle guance assai rada, pareva indicare le tracce di una mano tormentatrice. Si tolse cappello e pastrano; e mentre Monti tornava indietro indicando ai vicini, con segni e ammiccamenti speciali, l’umore della giornata, il Carducci si fermò con le mani nei due taschini del gilè, come gli vidi fare tante altre volte specie se era maltempo, davanti alla finestra, e guardare il cielo; e poi, d’impeto, con un suo mugolìo tra corrucciato e giocondo, e battendo forte de’ piedi sui due gradini, salì in cattedra.
Manara Valgimigli, Il nostro Carducci, in Uomini e scrittori del mio tempo, Sansoni, Firenze 1965, pp. 5-7.
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Giorgio Pasquali – Jacob Wackernagel
Il filologo Giorgio Pasquali (Roma 1885 – Belluno 1952) nel necrologio scritto in occasione della morte dell’indologo, iranista ed indoeuropeista Jacob Wackernagel (Basilea 1853 – ivi 1938), racconta il suo primo incontro fortuito con il maestro tedesco conosciuto trent’anni prima, nel 1908, in treno, sulla strada per Gottinga. Fu certamente un evento imprevisto quanto di buon auspicio per la carriera universitaria del giovane Pasquali. A distanza di tanto tempo egli lo ricostruisce con grande sapienza narrativa, facendoci rivivere lo stato d’animo di smarrimento e di ansia della sua prima esperienza all’estero (la fretta nel cambio di carrozza, lo scontrino smarrito del bagaglio, lo sbaglio di vettura, il cuore stretto al calar della sera). L’incontro col futuro maestro rasserena il giovane studioso e gli ridà fiducia nell’avvenire. La tipologia del racconto è quella dell’incontro fortuito e insieme scolastico.
Verso Gottinga
Lo conobbi nella maniera più bizzarra di questo mondo, mentre percorrevo migliaia di chilometri per divenire scolaro di Gottinga e suo; eppure per mero caso. Uscito appena dall’università e ottenuto un assegno ministeriale per studiare un anno all’estero, dovunque volessi, avevo scelto Gottinga. Se avessi avuto qualche anno di più, avrei preferito Berlino o Monaco, le città universitarie nelle quali si sente pulsare la vita tedesca. A ventitré anni, come capita a ragazzi troppo studiosi, non ero ancora ansioso di vita; e scelsi senza esitare un momento la città che era università, grande università e nulla più; e presi il treno. Avevo fatto il biglietto e spedito il bagaglio sino a Francoforte: agli uffici romani di viaggi, a quei tempi, Gottinga era ignota anche di nome; e io facevo conto di scendere a Francoforte per rifare il biglietto e rispedire il bagaglio, e di proseguire poi con lo stesso treno. Ci riuscii a mala pena; e nella fretta capitai in un’altra vettura da quella nella quale avevo viaggiato sino allora. Mi accorsi presto di non aver più lo scontrino del bagaglio: cercai in tutte le tasche, mi agitai, mi disperai. Un signore anziano mi chiese che cosa avessi, prima in francese: “Que cherchez-vous?, poi, quando si avvide che io capivo il tedesco, in tedesco. Pur turbato com’ero, dovetti distrarmi dalla mia pena e domandare tra me e me che razza d’uomo quello fosse, tanto il suo aspetto era singolare, tanto era il contrasto fra un corpo piccolo e mingherlino e una testa espressiva con fattezze scavate, come subito mi fu chiaro dal pensiero, e occhi grifi, inquisitori e dolci insieme. Risposi a me stesso che era un uomo dello spirito, un dotto; a lui spiegai che cosa era accaduto. Mi rassicurò sulle conseguenze: sarebbe bastata una mia dichiarazione scritta che esimesse la ferrovia da ogni responsabilità, e avrei potuto ritirare il bagaglio. A poco a poco mi calmai. Passarono ore di silenzio: fuori era già buio, e il ragazzo italiano si sentiva il cuore stretto. D’un tratto il signore anziano levò il capo e osservò: “A Gottinga è grande la matematica”. Aveva sentito che ero diretto a Gottinga, e subito aveva fiutato in me lo studente; e chi del resto va dall’estero a Gottinga se non per studiare? Ma chiedere direttamente non osò. Risposi: “A Gottinga io voglio studiare filologia classica”. Rispose con aria un po’ riservata e lontana: “Questi studi interessano anche me”. Da quel momento, per illuminazione subitanea, seppi che avevo dinanzi a me Jacob Wackermagel. Superai con uno slancio la mia timidezza: “Lei è un professore di Gottinga?” “Io sono un professore di Gottinga”. “Lei è Jacob Wackernagel?” “Io sono Jacob Wackernagel”.
Quella vettura era stata attaccata a Basilea; io sapevo che Jacob Wackernagel era di Basilea (ma non sapevo di lui molto di più, seppure avevo già letto qualche suo articolo, che mi aveva innamorato). Nel suo francese accentato sulla prima sillaba, nel suo strano tedesco affrettato avevo sospettato o riconosciuto lo Svizzero. Ma tutto questo era insomma troppo poco per giungere razionalmente a quella conclusione: io lo riconobbi per istinto. Ora credo che egli stesso, quando mi accenno alla grandezza della matematica di Gottinga, aspettasse e desiderasse che l’interlocutore giovane gli si rivelasse studioso di filologia.
Mi iscrissi in treno alle sue esercitazioni; in treno fui invitato da lui a cena per due sere dopo (a lui era dato, vinta la prima timidezza, aprirsi con il primo studente nel quale si imbattesse). Già in treno mi strinsi a lui di quel legame che di lì a pochi anni divenne, come posso dichiarare con orgoglio e con riconoscenza, amicizia, e che durò trent’anni, dal 1908 al 1938, alla sua morte.
Giorgio Pasquali, Ricordo di Jacob Wackernagel, in Pagine stravaganti di un filologo II, a cura di C. F. Russo, Le Lettere, Firenze 1994, pp. 216-217, già pubblicato in “Letteratura”, II, 1938, fasc. 3, pp. 6-7.
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Sibilla Aleramo – Gabriele D’Annunzio
In occasione della morte dei Gabriele D’Annunzio, Sibilla Aleramo (Alessandria, 1876 – Roma 1960) sulle pagine della “Nuova Antologia” del I giugno 1938 (LXXIII, 1589) gli dedica questo necrologio in cui ricorda la figura del poeta incontrato per la prima volta a Parigi il giorno della vigilia di Natale del 1913. A Parigi l’Aleramo si era recata per sfuggire all’ “amore impossibile” per Umberto Boccioni. Ma ogni distrazione appare vana, eccetto la visita a D’Annunzio, con cui l’Aleramo intreccia subito una fraterna amicizia che, almeno temporaneamente, le fa dimenticare l’uomo amato. Il poeta pescarese è il “mago bianco”, il “fanciullo candido”, il geniale artista, colui che comprende per vie misteriose il complesso stato d’animo della donna che non tarderà a confidarsi con lui.
D’Annunzio fraterno
Rose di Natale, ellebori. Stavano in una coppa, nell’atrio dell’albergo, il mattino che seguì la morte di D’Annunzio. Come si trovavano lì? In una specie di dolente allucinazione, chiesi ed udii dal portiere che quei fiori crescono nei boschi sopra Gardone, sul finir dell’inverno. Ma a me era sembrato, per un lungo istante, che fossero quelli stessi che avevo, nella remota sera di un 24 dicembre, portati alla casa di Gabriele, a Parigi, dopo averli cercati per ore e ore da l’uno all’altro fioraio dei boulevards e dei Campi Elisi. Rose di Natale. Senza profumo, ma hanno una grazia toccante, così bianche, attonite, come se ricordassero d’aver dormito fra la neve. E Gabriele m’aveva scritto l’indomani: “Grazie dei fiori che ho trovato nella notte…”. Era una delle sue prime lettere a me, e terminava: “Arrivederci, arrivederci. Coraggio e lucida malinconia!”.
Per tentare di guarire un amore impossibile[10], ossia dicendo di voler guarirlo, e tacendo a me stessa l’affannosa speranza di renderlo invece possibile con l’allontanarmi un poco, io avevo lasciato Milano sul finire di quell’autunno 1913, e accettato un generoso invito di amici a Parigi dove non ero ancora mai stata.
Parigi era avvolta in una nebbia nera, e la nostalgia m’aveva afferrata ed accompagnata ovunque. Ma Notre-Dame, ma Piazza della Concorde e Piazza Vendome, ma i Lungo Senna, ma i Corot e i Rembrandt e la Nike di Samotracia, come non provarne un’umana fierezza. E i miei ospiti, Aurel e Alfred Mortier, e il mio caro e devoto traduttore Pierre-Paul Plan, erano d’una dolce tenacia nel farmi eseguire programmi quotidiani mirifici.[…] E fu anche Aurel, mi par di ricordare, che mi spinse a chiedere a D’Annunzio di ricevermi, quando si seppe che il poeta era venuto da Arcachon per la prossima rappresentazionne del Chèvrefeuille[11].
“Sarà un dono del nostro paese a me” avevo scritto a D’Annunzio. E dopo poco era giunta la risposta:
“Cara amica” diceva, “cara amica non ancora veduta ma da gran tempo conosciuta…”
D’Annunnzio mi conosceva! Non l’avevo mai cercato, sino ad allora, non gli avevo mandato nemmeno il mio libro: al tempo in cui esso era apparso con un certo clamore, io vivevo a Roma a fianco d’un cerchio di letterati ostili all’arte del pescarese (ho narrato ciò in altre pagine e detto il lento acquisto della mia autonomia critica). Ora potevo avvicinarmi a Gabriele come se l’avessi appena scoperto, come fossi ancora la diciassettenne che leggendo in un selvaggio borgo marchigiano il Trionfo della morte s’era sentita invasa da un puro stupore per tanta potenza di stile e tanta spirituale disperazione. […]
A distanza di quasi vent’anni da quella lontana rivelazione ecco, in un inverno straniero, D’Annunzio mi scriveva:
…io sarò molto contento d’incontrarmi con voi. E anche sarò molto contento di udire la viva voce di Aurel, avendo già in me la sua voce interiore, che è una delle più profonde e coraggiose di questi tempi…
Ma Aurel volle ch’io andassi da sola, la prima volta, all’Avenue Kléber.
Per via, ero tra la lusinga e la curiosità: avrebbe il fascino personale di d’Annunzio agito anche su me? Sapevo che i più refrattari, giunti dinanzi a lui, s’erano trovati sedotti: uomini, fanciulli, vecchie dame venerande, tutti egli aveva vinti con la parola e con la grazia del sorriso.
Però il pensiero dominante era: “Quando lui,” (lui era il giovine rimasto a Milano), “saprà che vedo D’Annunzio, mi scriverà, vorrà conoscerlo a sua volta, verrà…”.
E mi pareva quasi d’averlo di già al fianco profilo stagliato, e di salire insieme, felici, nell’ascensore, a quell’appartamento.
Ma, quando Gabriele sollevò la portiera – avevo udito di là un attimo prima un suo riso sommesso – non fui più che io, io piccola e timida e muta, a guardare, ad ascoltare.
Piccola, eppure come statura fisica egli mi uguagliava: avevamo gli occhi allo stesso livello.
Tenendo le mie mani un momento fra le sue, disse: “Il vostro nome, con quell’aura di mito, mi ha fatto talora dubitare che foste una persona reale. Invece, eccovi qui”.
Udivo la sua voce per la prima volta: scandita, metallica, e insieme carezzevole, dava di per sé una sensazione analoga a quella che suscitan le sue liriche più prestigiose: di trasognamento.
Mi fece sedere a un largo tavolo rotondo preparato per un tè sontuoso, servì egli stesso la bevanda, stupì che non fossi più ghiotta. “Prendete almeno di questi, sono stati raccolti sulla spiaggia del nostro mare.” Erano confetti a foggia di sassolini. “Ma sì, me li ha portati da Pescara una mia vecchia governante.” Così imparai ch’egli amava coprire con lo scherzo lieve l’esercizio arguto dell’osservazione. In pochi minuti dovette farsi un’idea precisa della mia essenza più segreta. E riconoscermi semplice e schietta e d’un ‘innocenza radicale, di là dalla spietata audacia dell’opera e della vita.
“Il vostro libro,” irruppe improvvisamente serio, “se mai verrete a Arcachon, vedrete ch’è là, ben rilegato, tra un volume di Anna de Noailles e uno di Gérard d’Houville, la moglie di de Régnier, sapete?”
Il tono s’era fatto dolce, affettuoso. Oh Gabriele! S’anche mentiva, quanta gentilezza in quel tratto! O forse veramente egli aveva amato il nudo racconto della mia prima esistenza, ed io ricevevo in quel momento il premio mai sperato.
Vide egli, certo, la mia emozione, sentì ch’essa mi liberava, per l’istante, da una quanche grande angoscia che un giorno gli avrei confidata. Comprese anche, certo, che non per vanità io ero commossa, che non ad una “letterata” egli parlava, ma ad una che veramente aveva scritto col proprio sangue, per una necessità che trascendeva quel sangue stesso. Delicatamente non commentò con parole quanto in silenzio aveva scoperto. Ma l’atmosfera della stanza mutò: pareva ora che ci conoscessimo dall’infanzia.
Miracoloso era il potere d’adattamento alla persona che per improvvisa simpatia eleggeva e a cui voleva piacere: non falsandosi, ma estraendo dalla molteplice sua natura quel che in essa v’era di consono a quella dell’interlocutore; ponendo, certo, in quell’operazione un’arte non minore di quella ch’è nelle sue più venuste pagine: ma arte, non artifizio, non istrionismo. Obbedienza al ritmo scelto per quel dato colloquio, ma ritmo suo; attenzione vitale, creazione dal profondo, musica.
Prese a discorrere di sé, di Parigi, dell’Italia, con una grazia, una semplicità, un abbandono adorabili. Questi era d’Annunzio? Un fanciullo candido, felice di manifestarsi, felice ingenuamente d’incantarmi. Un candido fanciullo di genio, nel quale gravità e gaiezza sono come laterne strofe. Di quel che doveva scrivere di sé alcuni anni dopo, “io sono un mistero musicale con in bocca il sapore del mondo” egli mi diede fin da quel primo incontro la sensazione straodinaria. Ascoltavo, ascoltavo, non vedevo se non in confuso il suo volto d’avorio, la cui espressione non aveva importanza, poiché tutto il fascino derivava dalle cose che la sua bocca diceva e dal modo come le diceva, sì che si trasformavano di repente in aroma, , in effusa essenza.
A tratti m’interrogava, fraterno. Quando gli dissi che le prime Faville del maglio, comparse poco tempo innanzi nel Corriere della Sera erano fra le cose sue che più ammiravo, ebbe un quasi impercettibile trasalimento: “Vanno lette con molta attenzione” fece. Al che replicai: “Ma io leggo sempre con attenzione”. E di questa parola dovette rammentarsi. “Poveri abbonati del Corriere” continuò dopo un attimo; “chissà come sbalordiscono a quella lettura. Ma è stato Albertini a voler ciò, gli devo anzi essere grato, è venuto ad Arcachon quando non sapevo come trarmi dai guai finanziari, m’ha proposto lui, poiché non so scrivere articoli, di dargli alcuni di quei vecchi appunti, e me li ha compensati regalmente”.
Accennando a certe accuse di plagio a proposito del Chèvrefeuille, rideva. Nel riso scopriva di sé il gran signore, quegli che ha coscienza dell’immensa distanza ch’è fra sé e chiunque altro, e nessuna stolta offesa può toccarlo, inciderne il valore. Di una cosa soffriva, certo: d’essere lontano dall’Italia. Ma non intendeva tornarvi, per allora.
“Non mi amano in patria. Meglio, meglio ch’io stia lontano”. Se amarezza v’era nell’osservazione, il riso la velava.
Intanto io sentivo passivamente calare su me un torpore come di primavera. Eravamo seduti su cuscini quasi a terra; a fior degli sguardi, rose, mandarini, fiale d’essenze.
“E voi,” chiese, “perché non avete più pubblicato nulla dopo Una donna? Per disdegno?”
Allora gli dissi, breve, qualcosa della mia seconda vita. Così diversa, così lontana dalla sua. Mi guardava, sentivo che pensava anch’egli alla singolarità di quell’incontrarci solo allora, nello stesso bruno esilio.
Quella sera, raccontando al mio fedele Plan i particolari della mia visita al Poeta, mi sentii dire: “Adesso ve ne innamorate”. Caro Plan, mi vedeva sovreccitata e quasi felice, per la prima volta dopo un mese che ero a Parigi. Era un poco geloso. Le gelosie dell’amicizia sono talora assai raffinate.
Ma lo placai. No, io non mi sarei innamorata di d’Annunzio. La certezza nasceva dal fatto che amando, non potevo sentire un altr’uomo sotto la specie “amatoria”. Non solo. D’Annunzio, l’aspetto di D’Annunzio, l’aspetto di D’Annunzio maschio, non m’aveva turbata sensualmente neppure un istante. Avevo provato sì in sua presenza un senso di calore profondo, ma calore di provenienza tutta psichica, tutta spirituale. Dal canto suo Gabriele se pur fosse stato per qualche attimo tentato da quella che dicevano la mia avvenenza (ero di alcuni lustri più giovane di lui, allora nel pieno vigore della sua maturità) abituato com’egli era a gustar d’ogni frutto e ormai, credo, senza darvi più molta importanza, dal canto suo Gabriele si trovava in quell’epoca impegnato notoriamente in una relazione esigentissima, senza contare quattro o cinque o sei – almeno così mi disse sorridendo una volta ma suppongo esagerasse un poco – intrighi passeggeri contemporanei.
Il rapporto di pura amicizia fra D’Annunzio e me non venne mai alterato, come avevo presentito.
Più timido e più gentile di qualunque amore, sì che a distanza di tanto tempo ancor tremo, parlandone, di offuscarlo.
Sibilla Aleramo, D’Annunzio fraterno, in Andando e stando, a cura di Rita Guerricchio, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 177-182.
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Pietro Pancrazi – Gabriele D’Annunzio
Nella parte iniziale della dedica (datata Firenze, 8 maggio 1939) a Piero Calamandrei (Firenze 1889 – ivi 1956) che Pietro Pancrazi premette ai suoi Studi sul D’Annunzio, il critico ricorda la passeggiata avvenuta nel marzo 1938 con l’amico nella valle del Casentino, luogo di memorie dannunziane (più che dantesche). D’Annunzio era morto “in quei giorni” (1° marzo 1938); ed allora il racconto richiama alla memoria un primo incontrofortuito di trent’anni prima, quando Pancrazi, convittore all’incirca quattordicenne (siamo, dunque, verso il 1907), aveva visto D’Annunzio a cavallo insieme ad una donna (Alessandra di Rudinì?) mentre gli passava davanti senza neppure degnarlo di uno sguardo. E fu questo incontro il segno, considerato poi non senza ironia, della sua vocazione di critico: è nell’ordine delle cose, difatti, che l’autore non conosca il suo critico.
Critici si nasce
Caro Calamandrei, dedico a te questa raccolta di scrittarelli dannunziani, in ricordo d’una gita molto bella che (seguendo il nostro uso) si fece l’anno scorso con gli amici, attraverso il Casentino, una domenica di marzo. Te la ricordi?
D’Annunzio era morto in quei giorni…; ma salendo, nella chiara mattina, da Pontassieve alla Consuma, noi veramente s’aveva il pensiero ed il discorso ad altro. Quando però fummo al valico, e ci s’aperse d’un tratto alla vista tutta la valle del Casentino, dal Falterona al Pratomagno e laggiù alla Verna, con davanti il Giogo di Camaldoli e il Poggio Scali, e per le coste i fumetti delle carbonaie o delle pievi, e in basso, nella valle ancora in ombra, il Solano l’Archiano e i ruscelletti che tra i loro pioppi vanno a finire in Arno a spina di pesce, e le case del Borgo alla Collina di Pioppi e di Bibbiena, rilevate dall’ombra in una luce più chiara…; appena s’ebbe davanti quel paesaggio così domestico ma così aperto, risentito come una ossatura e così poetico…, senz’altra ragione, D’Annunzio anche in noi cominciò a cantare. E scendendo a piedi il primo tratto della strada verso l’Ommorto, che poi svolta a Romena, prendemmo tutti a dire versi e a ricordare prose di lui, non scolasticamente a memoria, ma par coeur, come dicono tanto meglio i francesi.
Sapevamo che lì sotto, a Romena, in una estate lontana, D’Annunzio aveva scritto alcune belle poesie dell’Alcyone, e che luoghi e nomi del Casentino s’incontrano nei suoi versi e nelle sue prose. Questo sapevamo… Ma veramente, quella mattina, la nostra improvvisa voglia di ricordare e di dir poesie nasceva e di lì, e di più lontano. E’ che certi paesi e terre nostre dànno volontà di dire; e, a chi poeta propriamente non è, muovono il ricordo e il sentimento dei poeti; e vi si mescolano e fanno, con essi, quasi le pagine di un sol libro. Allora nasce dentro come un intenerimento; e si sente allora, come non mai, di volere molto ma molto bene all’Italia.
Il fatto è che, per quei versi ricordati di prima mattina, tutta la giornata ci andò meglio; portammo dentro, tutto il giorno, “un che”, (o “un cheìno”, come dicono da quelle parti), per cui tutto ci piacque di più: anche la bella ragazza che ci fu guida al castello di Romena; anche quel fratone bianco che , schioccando i sandali, ci condusse attraverso le cellette all’Eremo di Camaldoli.
Io poi quella mattina (te lo dico adesso) nascondevo, dentro me, un ricordo più preciso e più lontano.
Tanti anni prima, in una di quelle vallette minori del Casentino, la più brutta, in un brutto collegio, c’era stato unn ragazzòlo coi calzoni troppo lunghi e una visiera di cuoio nero al berretto. Un ragazzo (mi pare di ricordare) che ruminava parecchia malinconia, stava volentieri da sé, e nell’ora del “passeggio”, la sera, lungo il Solano, spesso si lasciava andare solo, in coda alla sua “camerata”.
Ora, una di quelle sere, in località detta il Pignone, il ragazzo rimasto solo indietro, vide insolitamente muover cavalli e cavalieri tra i pioppi dell’altra riva. Se avesse letto i poeti del Quattrocento, il ragazzo probabilmente avrebbe esclamato: “Una cavalcata!”; ma traduceva appena Fedro e restò lì a bocca aperta… Poi, i due cavalli sbucarono nel greto del Solano e fecero il guado; e il cavaliere e l’amazzone gli passarono accosto, lenti, senza neppure vederlo. (Il cavaliere portava una giacchetta bianca, molto stretta in vita, ma di larga falda sulla sella, e in capo un cupolino pure bianco, con la visiera uguale, come da fantino, e un viso còtto nero dal sole; il solo ricordo dell’amazzone, sul passo d’un cavallo storno, è ora un lungo velo).
Appena ebbe raggiunto i compagni, e il gesuita “padre prefetto” gli ebbe detto, di mala voglia, che il cavaliere passato al Pignone era il poeta Gabriele D’Annunzio (in battuta allora per quelle terre), il ragazzo ricordò subito il poco che lui poteva: un bozzetto Cincinnato, e due sonetti Naufragio andatigli a memoria forza di rileggerli nell’antologia della scuola. Ma sopra tutto gli piacque e fu contento (e se ne tenne) d’aver potuto vedere un poeta da vicino; lui da solo, e senza che il poeta lo vedesse. Ahimè, ero proprio nato critico!
Poi, negli anni, e fuori del Casentino, rividi D’Annunzio qualche altra volta; ma per me fu sempre come s’egli fosse ancora su quel cavallo, e io sotto il berrettino del convittore.
Ecco perché, caro Calamandrei, tra il vedere vicino e il lontano ricordare, quella mattina di marzo, io mi sentivo andare per le strade del Casentino così leggiero.
Pietro Pancrazi, Ragguagli di Parnaso, I, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1967, pp. 267-269.
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Carlo Carrà – Umberto Boccioni
Il pittore Carlo Carrà (Quargnento, Alessandria 1881-Milano 1966) racconta il primo incontro con l’amico fraterno Umberto Boccioni (Reggio Calabria 1882-Sorte, Verona 1916), morto in seguito a una caduta da cavallo; ed è proprio dal ricordo di questa morte prematura (Boccioni aveva solo trentaquattro anni) che si dirama il racconto del primo incontro come un vano tentativo di ridar vita al momento iniziale del rapporto tra i due, così fecondo di idee e di esperienze. A p. 138 dell’op cit. in basso Carrà spiega: “Non ci sarebbe stato nulla di eccezionale nei rapporti amichevoli fra Boccioni e me se non fosse sopravvenuta la battaglia futurista a stringerli e a consolidarli”. L’incontro fortuito tra i due avvenne nel 1908, a Milano, e fu subito diverbio a causa di una lumaca dipinta da Boccioni: evidentemente non v’è nulla di più antitetico rispetto al culto futurista della velocità. Carrà finì di scrivere le sue memorie nel 1942.
Una lumaca prefuturista
In questo stesso periodo per una caduta da cavallo morì Umberto Boccioni. Io ne fui addolorato e colpito. Nonostante le nostre divergenze il sentimento della mia profonda amicizia per lui era vivo ed inestinguibile. Non potevo persuadermi che la sua balda giovinezza fosse stata così crudelmente infranta. Un decennio di stretti e fraterni rapporti mi legava alla sua memoria.
Venuti da punti opposti, Boccioni ed io ci sentimmo portati l’un verso l’altro, per interrogarci e insieme progredire. Quando lo conobbi aveva ventisei anni e vestiva giacca e pantaloni di grosso velluto marrone; gli stivaloni alla cosacca e il berrettone di pelo gli conferivano un aspetto nordico. Non era del tutto maturo nella pratica dell’arte, ma riusciva a supplire alle manchevolezze tecniche con vigile volontà, infondendo nelle tele che andava esponendo nelle mostre cittadine bagliori arcobalenati che suscitavano interesse soprattutto nei giovani artisti. Era il 1908 e Boccioni entrava nell’ambiente artistico milanese sconosciuto a tutti, ma deciso a farsi strada. Viveva con la madre in misere condizioni economiche in alcune stanzette disadorne di via Adige fuori di porta Romana. Temperamento risoluto e pieno d’iniziativa, seppe in breve tempo migliorare la sua situazione esercitando una intelligente attività di illustratore e di cartellonista. Mediante l’interessamento di Guido Treves, salito alla morte dello zio alla direzione de “L’Illustrazione Italiana”, Umberto Boccioni collaborò a questa rivista con una serie di disegni.
A questo punto debbo dire che la nostra amicizia ebbe inizio da un diverbio.
Mi trovavo con il mio amico Alciati all’esposizione della Permanente e, osservato un quadro divisionista nel quale era figurata una donna che cuciva in giardino, fui stupito di vedere dipinta una lumaca sul tronco di un albero, ed esclamai: “Costui deve essere un ammiratore dei preraffaelliti. Su questo superfluo particolare si è tanto attardato da trascurare non poco l’unità del quadro”.
Alle mie parole si fece avanti un giovane che era dietro di me asserendo che quanto avevo detto lo offendeva essendo egli l’autore delle tela. Alla qual cosa io risposi che mi dispiaceva che egli non vedesse questo grosso difetto del suo dipinto; e da ciò nacque un diverbio che continuò dopo usciti dall’esposizione lungo il tragitto che ci portò, quasi senza avvedercene, alla Famiglia Artistica dove ci rappacificammo.
Da quel momento può dirsi nascesse la nostra amicizia.
Carlo Carrà, La mia vita, SE, Milano 1997, pp. 137-138.
Note
[1] Racconta il De Sanctis nella sua autobiografia: “Era la prima volta ch’io entrava in un palazzo magnatizio, e che mi presentava ad un marchese. Era il palazzo Bagnara in piazza del Mercatello. Ci accompagnava il Costabile, che saliva svelto e ridente, facendoci il cicerone. Entrammo in una gran sala quadrata, tutta tappezzata di libri, con una lunga tavola in fondo, coverta di un tappeto verde screziato di macchie d’inchiostro. Lunghe file di sedie indicavano il gran numero di giovani, che la sera venivano ivi a prender lezione. Costabile parlava e rideva e godeva del nostro imbarazzo, quando si aprì l’uscio a sinistra, e Gaetano con aria grave di cameriere ci annunziò. Entrammo. Il marchese stava seduto a una piccola tavola presso la finestra, poco discosto dal comò. In fondo era un letto molto semplice. Di fianco un’altra finestra inondava di luce la stanza. Come vedete, era una camera da letto e da studio insieme, molto modesta, nella quale il marchese s’era rannicchiato, lasciando ai fratelli tutto l’altro del vasto appartamento. Queste osservazioni locali mi vengono ora in mente; ma in quel tempo i miei occhi erano attirati come per forza magnetica dalla presenza del marchese. M’ero immaginato per lo meno un re sul trono; ma vidi un semplice mortale in berretto e veste da camera, che si mise a scherzare col Costabile, dimandando fra l’altro chi erano quei due marmocchi. “Sono nipoti di D. Carlo De Sanctis, e vengono alla vostra scuola”. Io me gli accostai, e presi la mano come per baciarla, ed egli la ritirò vivamente, dicendo: “Non si bacia la mano che al papa”. Io mi feci rosso. Egli rideva, e vedendomi così stecchito e allampanato, disse ch’io era de frigidis et maleficiatis: parole sue favorite, come vidi appresso. Ci fece tradurre un brano di Cornelio Nepote; fé un sorriso di piccola soddisfazione; poi ci consegnò al suo segretario, ch’era appunto il Costabile”. Francesco De Sanctis, La giovinezza, Einaudi, Torino, 1961, pp. 42-43.
[2] E’ il giudizio di B. Croce, La letteratura della nuova Italia, Laterza, Bari 1940, p. 313: “Come una fiaba è raccontata la sua [della Vivanti] visita al Carducci e l’affetto che il gran poeta le pose”. Sulla questione si legga Pietro Pancrazi, Un amoroso incontro alla fine dell’Ottocento. Carteggio di Giosue Carducci e Annie Vivanti, in Pietro Pancrazi, Ragguagli di Parnaso, I, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1967, pp. 35-75.
[3]Potevi vederlo con quegli occhi spalancati e decisi
Era già lontano molte leghe nel deserto.
[traduzione di Ornella Barone]
[4] Cfr. P. Pancrazi, Panzini e Pascoli in collegio e un giudizio del Carducci, in Ragguagli di Parnaso, I, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1967, pp. 231-238.
[5] A p. 78 dell’op. cit. Cecchi aveva scritto: “Visto davanti Chesterton ha la figura di un vescovo. Ma il vescovo si rigira e visto di dietro ha la figura di un clawn.”
[6] I Ricordi letterari erano stati pubblicati nel 1881 presso l’editore Morano di Napoli. In entrrambi i casi le raccolte rifondono precedenti pubblicazioni giornalistiche. Meritoria la pubblicazione di Elena Craveri Croce di entrambe le raccolte nel 1949.
[7] Cfr G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971, pp. 538-539, dove il critico in terza persona riferisce il primo incontro con Svevo: “Un critico italiano di Proust era andato a Trieste per tenervi una conferenza, appunto, su Proust. I giornali locali l’avevano annunciata e, nella cortese intenzione di attirare un pubblico più folto, avevano soggiunto che la conferenza presentava un particolare interesse nella città del “Proust italiano”. Venuta la sera, il conferenziere trovò seduto in prima fila proprio Italo Svevo, che non staccò un attimo da lui un occhio, come sempre, penetrante ma, in quel caso, un po’ ansioso o perlomeno interrogativo, quasi che egli attendesse il famoso paragone. Questo, naturalmente, non venne e il conferenziere ammirò una volta di più il gentiluomo Svevo, che ebbe la signorilità di congratularsi con lui, nonostante la delusione provata. (Traboccante di felicità, di una felicità insieme stupita e conscia, per la gloria che gli era giunta, Svevo era in quegli anni infantilmente avido di sempre nuove lodi e onori.)”. Questa rievocazione autobiografica rientra nella tipologia dell’incontro-convegno.
[8] Ed ecco lo stesso incontro raccontato questa volta da Dino Campana. Si tratta di una lettera di Campana a Emilio Cecchi del marzo 1916, in Dino Campana, Souvenir d’un perdu. Carteggio 1910-1931, con documenti inediti e rari, a cura di G. Cacho Millet, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985, pp. 139-141: “Venuto l’inverno andai a Firenze all’Acerba a trovare Papini che conoscevo di nome. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava (?) ma era molto molto bene e mi invitò alle giubbe rosse per la sera. Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo. Costetti ci ha il mio ritratto d’allora a Firenze. Per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l’avrebbe stampato sull’Acerba. Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all’asilo notturno ed era il giorno che loro [Papini e Soffici] facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato nelle mani di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi a riscriverlo a memoria, giurando di vendicarmi se avevo vita”.
[9] In Scrittori d’oggi, II, seconda serie, Laterza, Bari 1946, p. 266, poi in Ragguagli di Parnaso, I, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1967, p.157. E si aggiunga quanto scrive nel 1968 R. Bacchelli, Confessioni letterarie, in Tutte le Opere, vol. XVIII, Mondadori, Milano 1973, p. 193: “Si sa che l’umanista Valgimigli aveva occhio vivo e penna alacre non solo alla lettura e al commento dei suoi testi, ma anche all’espressione e racconto di fatti e sentimenti e cose…”.
[10] Si tratta dell’amore per Umberto Boccioni.
[11] Le Chèvrefeuille è la traduzione francese (a cura del marchese di Casafuerte) del Ferro, e andò in scena a Parigi il 14 dicembre 1913 al teatro della Porte Saint-Martin. Sibilla Aleramo ne scrisse una recensione, Le chèvrerfeuille, in “La Grande Illustrazione”, I, 1, gennaio 1914.