di Antonio Errico
In una pagina de Il mondo come io lo vedo, Einstein diceva che il sentimento religioso dello scienziato prende la forma di uno stupore rapito davanti all’armonia della legge naturale, che rivela un’intelligenza di tale superiorità, che, al confronto, tutto il pensiero e l’agire sistematici degli esseri umani sono un riflesso assolutamente insignificante. Ed è questo sentimento a costituire il principio guida della vita e del lavoro dello scienziato, nella misura in cui lui riesce a trattenersi dai vincoli del desiderio egoista.
Spesso Einstein ha riflettuto sul suo rapporto con il sovrannaturale, sulle relazioni, gli intrecci, le corrispondenze tra un pensiero di scienza e uno di fede. Perché davvero non si riesce a capire per quale ragione debba esserci una frattura tra le due condizioni, quasi che l’una e l’altra non muovessero da un identico senso di stupore, non cercassero, l’una e l’altra, di penetrare il mistero della vita e della morte, come se l’una e l’altra non tentassero di dare risposte alle domande ansiose dell’uomo: sempre le stesse domande, in fondo: qual è l’origine, qual è il fine e la fine, che cosa c’è stato prima, che cosa ci sarà dopo l’esistere di ciascuno, l’esistere dell’universo. In fondo scienza e fede non vogliono fare altro che scoprire quale sia l’alfabeto che consente di decifrare l’enigma, e vogliono farlo per lo stesso scopo anche se adottano metodi d’investigazione diversi. Ma la diversità dei metodi non necessariamente comporta la difficoltà della loro conciliazione. Anzi, probabilmente la loro integrazione consente un procedimento più efficace e un risultato meno settoriale, pur nella convinzione che alla risposta compiuta e definitiva si potrebbe anche non giungere mai.
L’uomo di fede guarda le stelle di una sera d’agosto e di esse conosce già tutto, oppure non si chiede niente. L’uomo di scienza osserva le stesse stelle e mette insieme tutte le cose che di esse conosce per chiedersi qualcosa che non conosce ancora.
Davvero è difficile capire per quale motivo le certezze della fede e i metodi della scienza debbano essere considerati alternativi o conflittuali.
La fede senza fanatismo e la buona scienza sono al servizio della verità, o delle molteplici verità, come il fanatismo e la cattiva scienza sono al servizio dell’ignobile inganno.
Chi ha fede crede che Dio ha creato gli esseri umani ponendoli al di sopra di tutte le altre creature. La buona scienza cerca le maniere per far stare quell’uomo nel migliore dei mondi e dei modi possibili. Se in qualche misura possiamo prevedere, controllare, governare i fenomeni della natura, lo dobbiamo alla scienza. Se abbiamo sconfitto o se abbiamo la possibilità di combattere le epidemie, se possiamo assicurare una condizione di benessere a tanta parte dell’umanità, lo dobbiamo alla scienza.
Ma in tutto questo l’uomo di fede intravede un principio imprescindibile che consiste nel fatto che sia Dio a dare agli uomini di scienza l’intelligenza che occorre ad esplorare l’ignoto. C’è chi pensa che ogni scoperta della scienza sia una possibilità che si dà all’uomo di conoscere qualcosa che prima di quel momento soltanto Dio conosceva. Chissà se un giorno non si arriverà a conoscere tutte le cose che conosce Dio. Oppure chissà se non ha ragione l’Amleto di Shakespeare quando dice: “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”.
La Commedia di Dante non ha avuto nessun progresso; non ha avuto progressi la Cappella Sistina e non ne ha avuti il Don Giovanni di Mozart. E’ l’assenza di evoluzione, l’immutabilità della loro condizione, l’indipendenza dalle contingenze, a farne dei capolavori. L’opera d’arte non ha progresso. Resta qual è dall’istante dell’origine fino a quello della sua eventuale consumazione. Può scomparire per secoli, ma quando riappare, anche corrosa dal tempo, irradia tutta la sua energia di senso, rinnova tutto lo stupore. Per secoli e secoli i Bronzi di Riace sono rimasti sul fondo del mare. Non hanno avuto progresso. Sono un esempio di assolutezza, una metafora dell’irripetibilità.
Se un giorno si trovassero a passare da queste parti gli abitanti di un altro pianeta, senza la nostra cultura, senza i nostri canoni, probabilmente resterebbero comunque sbalorditi dalla bellezza custodita nei musei, da quella a cielo aperto. Gli basterebbe avere solo un trasalimento di sensibilità.
Le opere della scienza invece mutano in continuazione. Non solo. Ogni nuova scoperta quasi sempre ne contraddice o ne smentisce una precedente. Il genio si trasforma in errore. Nella grammatica e nella sintassi della scienza ogni regola diventa provvisoria, ogni legge è sottoposta a costante revisione, ogni formula ad una riformulazione. Una teoria dimostra la falsità di un’altra. La natura della scienza è questa.
Probabilmente sarebbe terribile pensare che la scienza non possa commettere errori, privando così il suo metodo della connotazione naturale. Che poi sostanzialmente consiste in quel “provando e riprovando” che Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani adottarono come motto dell’Accademia del Cimento fondata a Firenze nel 1657, quasi sicuramente mutuandolo da una terzina del terzo canto del Paradiso dantesco: “quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto / di bella verità m’avea scoverto, / provando e riprovando, il dolce aspetto”.
Probabilmente sarebbe terribile per l’esistenza di ciascuno di noi e per quella dell’umanità intera avere la certezza che una scoperta possa essere considerata come esito definitivo, come verità assoluta, tanto nel bene quanto nel male, che incida oppure no sui destini collettivi e individuali.
La falsificabilità è la cifra distintiva degli asserti scientifici, diceva sir Karl Raimund Popper.
L’arte invece non è falsificabile perché è già concepita da una falsità, da una finzione, da una sorta di violazione della realtà degli esseri e delle cose. La sua perfezione sta nella forma non nel contenuto, oppure in quel contenuto che coincide con la forma. Se Leopardi avesse scritto questo colle ermo mi fu sempre caro, non sarebbe stato Leopardi. Invece ha scritto: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Cambia solo la forma, e la forma diventa musica straordinaria. Non c’è un altro modo per mettere insieme quelle sette parole ed ottenere lo stesso effetto strabiliante. Non c’è un altro modo per impastare i colori dei vortici nel cielo della Notte stellata di Van Gogh.
La finzione dell’arte. La realtà della scienza. Ma mi piace credere che sia l’una che l’altra provengano dalla stessa meraviglia, da un pensiero che ha conservato, in segreto, l’immaginazione di un bambino. In quel saggio poderoso che è Intelligenze creative, Howard Gardner ricorda che quando gli si chiedeva perché fosse toccato proprio a lui di mettere a punto la teoria della relatività, Einstein rispondeva – e soprattutto si rispondeva -: “la ragione è che un adulto normale non smette mai di riflettere sui problemi del tempo e dello spazio. Sono cose a cui pensa fin da bambino. Senonché il mio sviluppo intellettuale è avvenuto in ritardo; così ho cominciato a interrogarmi su spazio e tempo solo quando ero già più innanzi negli anni e, naturalmente, ho potuto vedere le cose più a fondo di quanto non possa fare un bambino dotato di capacità normali”.
Non è pensabile una civiltà senza uomini d’arte. Non è pensabile una civiltà senza uomini di scienza. Non si potrebbe chiamare civiltà.
Probabilmente una civiltà nasce e si sviluppa attraverso fantasie che si orientano verso espressioni diverse. Poi una fantasia inventa l’Odissea, un’altra scopre la penicillina.
“Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni”.
Mi sono ritornate queste parole di Mattia Pascal, mentre leggevo di 2005 YU55. Un sasso. Uno dei tanti sassi lanciati nell’universo dalla fionda del Creatore nel corso del suo eterno e perfetto e meraviglioso gioco, di cui non è dato – a nessuno – di comprenderne il disegno, né l’origine, né il fine.
Un sasso quasi rotondo, con un diametro di 400 metri. Una sagoma grigiastra che saetta alla velocità di 18 chilometri al secondo, più o meno 65.000 chilometri all’ora. E’ passato alla distanza di 324.600 chilometri dalla nostra trottolina di cui dice il fu di Pirandello, da quel granellino di sabbia che gira e gira e gira, sul quale ci affanniamo nelle faccende di ogni giorno, coltiviamo ambizioni, combattiamo guerre stupide e selvagge, ci innamoriamo, viviamo glorie e miserie, talvolta senza pensare che la nostra è solo una sorte di “vermucci”.
Dicono gli scienziati che sono più di 1.200 i corpi celesti che solcano il nostro spazio e che possono essere considerati potenzialmente pericolosi per il pianeta sul quale cerchiamo di tirare a campare.
Se così è si deve sperare che le loro traiettorie non subiscano variazioni.
Abbiamo il dovere dell’ottimismo. Nonostante Apophis.
Apophis era una divinità egizia, simbolo del buio e del Caos primordiale dal quale proveniva, rappresentato con le sembianze di un serpente cobra.
Apophis è il nome dato ad un asteroide di 320 metri di diametro e di 200 miliardi di tonnellate di peso.
Secondo Anatoly Perminov, capo dell’Agenzia spaziale russa, nel 2036 si schianterà sulla terra. Sarà il 13 del mese di aprile. Sarà la domenica di Pasqua. Ci sarà il sole.
Studiosi e astronomi conoscono Apophis da un po’ di tempo. Lo tengono sotto controllo.
Dice ancora Perminov che nel 2029 quel macigno celeste potrebbe avvicinarsi tanto alla Terra da poter essere visto anche ad occhio nudo.
Forse Sodoma e Gomorra finirono così. Non con una pioggia di zolfo e di fuoco mandata da Dio come castigo dei costumi corrotti, ma per la caduta di un asteroide all’alba del 29 giugno 3123 a.C.
Questo pare che riveli una tavoletta assira di terracotta.
Allo stesso modo finirono i dinosauri.
Ecco. Il nostro destino appartiene all’enigma, all’invisibile, all’ininterpretabile, all’impenetrabile, all’onnipotenza. Decidiamo quello che ci accade solo in parte, solo fino a un certo punto. Ogni progetto non può che essere astratto, un’ipotesi poetica, un’idea fantastica. Una stupenda illusione. Comprendiamo i fatti e i fenomeni che la nostra poca intelligenza può comprendere, e probabilmente sono quelli di minore rilievo, di marginale importanza.
Al resto possiamo soltanto partecipare, con timore e con meraviglia, senza poter intervenire o interferire, nonostante – com’è giusto che sia – si studino le maniere per farlo. Perché esiste un’intelligenza altra, con capacità superiori a quelle risultanti dalla somma di tutte le intelligenze umane, che governa la terra, il cielo, il mare, che ha già visto tutto il futuro, che ha già scritto ogni storia. A questa intelligenza qualcuno dà il nome di caso. Qualcuno dà il nome di Dio.
L’uomo che non sa di scienza, nei confronti delle rivelazioni della scienza, prova ancora uno stupore primitivo. Non conosce di più, non conosce altrimenti, ma contempla l’enigma, il meraviglioso della natura, ammira la sfida della fisica, per esempio, forse anche l’azzardo, subisce il fascino della bellezza di una scoperta. Prova invidia nei confronti di chi osa indagare il mistero dell’universo: l’invidia generata dall’ammirazione, buona, onesta.
L’uomo che non sa di scienza si domanda come si possa avere un pensiero che tende a violare l’arcano, a decifrare i codici di Dio, ad approssimarsi ai confini del conoscibile, del mirabile, dello spaventoso; cerca di immaginare che mente straordinaria è quella che spera di stringere in una formula l’infinito e l’eterno, di rappresentare con figure l’infigurabile.
L’uomo che non sa di scienza e che solo in modo approssimativo, superficiale, ingenuo, si accosta alla teoria della relatività del gigante Einstein, si consola e si accontenta con la dimostrazione che della relatività propone un gigante d’altro genere, Thomas S. Eliot, quando dice: “se spazio e tempo, come i saggi dicono, / sono cose che mai potranno essere, / la mosca che è vissuta un solo giorno / vissuta è a lungo proprio come noi. / Dunque viviamo per quanto ci è possibile, / finché l’amore e la vita sono liberi: / il tempo è il tempo e il tempo scorre via / per quanto i saggi non siano d’accordo”.
Poi si fa venire il dubbio che nell’associazione possa aver confuso qualche teoria.
L’uomo che non sa di scienza, si chiede semplicemente, innocentemente, se l’essere mortale si stia sempre di più avvicinando alla conoscenza di Dio. Ma questa domanda ne genera un’altra: se il rendersi prossimo alla conoscenza di Dio – o solo considerare la possibilità di questa conoscenza ultima e assoluta – possa rendere l’uomo più felice o meno infelice, oppure se lo lascia tale e quale a come è sempre stato: con le sue passioni umane, troppo umane.
Se un Dio c’è “è infinitamente incomprensibile, perché non avendo né parti né limiti, non è a noi rapportabile. Dunque noi non siamo capaci di conoscere né ciò che è né se egli è. Chi tenterà dunque di risolvere tale questione? Non certo noi che non abbiamo alcun termine di rapporto con lui”. Così scriveva Pascal in uno dei suoi pensieri.
Ma quelle personalità straordinarie che trascorrono la propria esistenza a studiare una particella misteriosa, non vogliono risolvere il problema della conoscenza di Dio e probabilmente non cercano nemmeno una verità inconfutabile.
Gli uomini di scienza hanno il semplice grandioso obiettivo di andare al di là dell’acquisito, di oltrepassare le Colonne d’Ercole della conoscenza.
Probabilmente più di qualsiasi altro uomo hanno la consapevolezza che non è possibile porre un limite al sapere, che ci sarà sempre, comunque, un’altra realtà da scoprire, una nuova ipotesi da formulare, oppure soltanto una smentita.
Si chiama John Craig Venter, e non è Dio. E’ un uomo che a scuola non aveva pagelle che brillavano e adesso è uno dei più importanti scienziati del mondo. Succede di frequente, ai soggetti geniali. Basterebbe pensare ad Einstein. Nei suoi laboratori Venter ha prodotto la prima cellula artificiale capace di autoreplicarsi, capostipite di una famiglia di batteri “commerciali”, si dice, in grado di purificare l’aria e il suolo da alcuni agenti inquinanti e di produrre energia. Tutto bene, dunque. Positivo. Potremmo finalmente purificare la terra, eliminare lo smog, ridurre tutto il veleno che circola nell’aria.
Nessun problema, dunque. O quasi. Allora perché se è tutto in regola, se tutto rientra nel normale processo e progresso della scienza, il presidente Obama ha chiesto ad una apposita commissione di vagliare attentamente i potenziali benefici medici, ambientali e di altro genere di questo tipo di ricerca, così come ogni altro potenziale rischio per la salute e la sicurezza.
Forse perché per questo piccolo organismo creato con un genoma artificiale, per questa prima cellula creata da un computer e dal Dna, per questo nuovo essere prima d’ora inesistente in natura, si è parlato di creazione. Per questo, forse.
Di solito, quando si parla di creazione, coloro che scienziati non sono, istintivamente pensano alla Bibbia, a quel Dio, quell’Ente supremo, che creò il cielo e la terra, la luce e la tenebra, le acque e il firmamento, il sole e la luna, i pesci e gli uccelli, i rettili e le fiere. Infine creò l’uomo: perché diventasse anche scienziato, certo. Non perché si facesse Dio. Per tutto questo lavoro impiegò sei giorni.
Ecco. Per essere Dio non basta creare una cellula; bisogna saper montare su tutto il mondo in sei giorni. Soprattutto bisogna saperlo creare ex nihilo. Dal nulla.
Ci si è chiesti se è questa la strada della scienza che porta alla creazione della vita.
Dio non lo voglia, davvero. Perché non accadrebbe altro che quello che accade in un romanzo di Aldous Huxley, Il mondo nuovo, del 1932.
Bambini prodotti artificialmente in provetta, adattati chimicamente per i diversi ruoli che dovranno svolgere, assuefatti al sesso e alla morte. Perfetti automi che soddisfano i bisogni fisici ed emotivi con poltiglia scientifica, una droga adatta ed efficace per ogni evenienza. Tutto sotto il controllo di uno stato onnipresente e onnipotente. Una società assolutamente asettica e insopportabilmente collettiva.
In un passaggio dell’intervista apparsa sulla “ Stampa” il 10 di ottobre del 2011, al rintocco preciso dei suoi novant’anni, otto giorni prima di lasciare per sempre quel villaggio interiore che è stato per lui Pieve di Soligo, Andrea Zanzotto aveva detto di sentirsi ossessionato da una modernità cannibale. Aveva detto che la stoltezza che circola in questo tempo si palpa come un vento, che c’è qualcosa di azzardato e di friabile in questo nostro presente difficile da governare, da controllare.
Forse i vecchi hanno la capacità di esplorare territori di pensiero, di giungere a profondità che agli altri sono impediti. Forse i poeti hanno una visionarietà che agli altri viene risparmiata: vedono oltre, perforano l’istante, e per questo a volte – spesso – sono inquieti, sono infelici.
Andrea Zanzotto era vecchio ed era poeta. Riusciva a portare lo sguardo oltre i confini ai quali gli altri sguardi si arrestano. Oltrepassava le frontiere della comune visione. Scrutava gli orizzonti e vedeva profilarsi figure spettrali di idee, di modelli di esistere: emergenze, conflitti, caos, fondamentalismi, caduta di valori, eclissi dell’etica, deformazioni della storia, le infezioni dell’epoca, le ambiguità dei linguaggi, l’affatturazione dei significati, l’impoverimento dell’esperienza, i naufragi dell’Io, la dissipazione della saggezza.
Forse Zanzotto aveva previsto tutto e aveva compresso le previsioni in un epigramma che dice così: “in questo progresso scorsoio/non so se vengo ingoiato/ o se ingoio”. (I versi danno il titolo a una conversazione con Marzio Breda, edita da Garzanti).
Ecco come lo scarto dalla comune grammatica della visione, l’interpretazione ulteriore degli accadimenti e dei fenomeni, lacera l’apparenza e smaschera le finzioni del progresso, i suoi travestimenti, i trucchi, gli imbrogli, le menzogne, la vacua spettacolarità, la frivolezza, il paradosso, l’esasperazione spinta anche oltre i raggiri dell’artificio. La riflessione svela icone artefatte e imprudenti idolatrie. Stabilisce confronti allarmanti. Dice che cosa non è davvero progresso e contagia il progresso vero, quello che è un dono che l’uomo fa all’uomo. Dice che cosa è soltanto camuffamento prodotto dalla moda, dai luoghi comuni.
Talvolta, in nome e per conto del progresso, si giustifica la barbarie.
Allora l’epigramma di Zanzotto ritorna come un severo ammonimento, un’esortazione, quasi un avviso ultimo, forse anche come una sorta di involontaria implorazione, perché l’irreparabile sia evitato, perché si possa recuperare una coscienza del tempo e del proprio essere nel tempo e per il tempo. Perché probabilmente non c’è progresso senza l’attribuzione di un valore assoluto al legame tra il tempo dell’uomo e quello della terra.