di Luigi Scorrano
Una fiera è spesso un evento: adoperiamo pure questa parola quasi consumata dall’uso. Un evento sul quale si appuntano grandi o piccoli interessi e dove economia e sentimenti per una volta si sostengono a vicenda.
Recarsi a visitare una fiera è sempre un’esperienza interessante. L’atto può diventare misura del nostro modo particolare di percepire situazioni un po’, talvolta un po’ tanto, lontane dalla comune quotidianità. Andare in fiera vuol dire attizzare la curiosità, quali che siano gli oggetti sui quali essa si sofferma; significa anche stimolare desideri, rievocare memorie di fiere lontane, magari di alcune alle quali partecipammo da fanciulli che annusavano la vita con un’ansia d’età adulta che pareva togliere il respiro. La Fiera, qualunque fiera, è un luogo ricco di tensioni, di confronti, di dolcezze dimenticate, di febbrili animazioni; talvolta anche di impensate delusioni. È una delle forme di socializzazione più diffuse, più presenti in ogni tempo della storia dell’uomo. La fiera non è solo il momento di uno scambio di merci sulla base del loro valore di mercato. Essa costituisce uno scambio di conoscenze, una comunicazione di esperienze, l’immersione in una dimensione fantastica, la scoperta di un mondo altro che ci attende al varco e ci invita ad attraversare una di quelle soglie che si schiudono sul mistero o che irresistibilmente attraggono verso l’avventura. Tutto questo, si dirà, è frutto di una sciocca infantile fantasia. Bisogna esser cauti per emanare una sentenza del genere, che condanna senza appello una delle risorse forse più piacevoli della nostra vita.
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La Fiera è in sé una festa alla quale si aggiunge un’altra festa: quella che è manifestazione di rispetto ed onore per qualcuno al di sopra di noi ma che ci siamo abituati a considerare una persona di famiglia, un amico che ci viene a trovare abitualmente o che, anche se siamo lontani, sa trovare sempre il modo per esserci vicini; e lo fa con discrezione, con uno dai tanti amichevoli espedienti che solo la sua categoria conosce e mette in atto senza mortificare il destinatario dei suoi interventi. Facile indovinare chi sia questo personaggio, uno e centomila e non certamente nessuno: il santo che ha dato il suo nome ad una Fiera o, senz’altro, quello dal quale la Fiera ha avuto in dono il nome. Abbiamo così la Fiera di san Giovanni e quella di sant’Antonio, quella della Madonna Assunta (ch’è Maria assunta in cielo) e quella dell’Annunziata: di quella Maria cioè, come ricorda il Vangelo, che ha acceso il motorino d’avviamento di una nuova cruciale fase della storia umana quando con estrema semplicità ha detto sì alla richiesta di spostare in modo nuovo i pezzi disposti confusamente sulla scacchiera della storia. La confusione è rimasta ma un cambiamento profondo c’è stato: e non si può ignorarlo.
Non faremo un elenco delle fiere che prendono la loro denominazione dai santi: ricorderemo soltanto che le più frequentemente riconoscibili erano quelle che portavano il nome di san Giovanni (il Battista) e della Madonna Annunziata: due feste che, per cadere in primavera, parevano auspicare buone annate e abbondanza di raccolti. Erano, oltretutto, espressione della giovinezza del tempo, un’apertura di credito per chi si accingeva ad intraprendere opere nuove. La notte di san Giovanni, tradizionalmente, era notte di magie e di pronostici, e il giorno dell’Annunciazione era quello in cui il calendario, in vari luoghi, segnava l’inizio dell’anno.
La fiera è un’occasione festosa per far del chiasso scherzosamente e per avviare amorosi intrecci. Lo dice (è un esempio ma suggerisce un’abitudine) una canzone legata a una fiera di San Colombano al Lambro, nel lodigiano. Dice così: “La fiera di San Colomban / comincia con grande baccan. / La gente s’affolla, si stringe, / si sospinge per passar. / Pipette si vendon di qua, / trombette si senton di là: / di su c’è una giostra che gira, ‘Tre palle una lira’ / si sente gridar”. Il seguito è nello stesso tono. La fiera viene in primo piano non nei suoi connotati economici ma in quelli ludici: il rumore che fa la folla in movimento, ricordini caratteristici da acquistare per fare un regalo probabilmente, il tiro a segno, le trombette, la giostra. La giostra, quella un tempo adatta ai bambini, che oggi, precocemente smaliziati, la guardano con aria di sufficienza.
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La trombetta! Un oggetto caro all’immaginario crepuscolare di un poeta del Novecento, Corrado Govoni. Il poeta vede la fiera quando è finita: non c’è più la giostra, non più la banda, non i pagliacci che hanno divertito la gente con le loro buffe capriole. Una cosa, però, rimane: un segno dolce e malinconico, che ripaga di quanto appare sottratto alla gioia e all’allegria della giornata. Il segno è “quella trombettina, / di latta azzurra e verde, / che suona una bambina / camminando, scalza, per i campi. / Ma, in quella nota sforzata, / ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi: / c’è la banda d’oro rumorosa, / la giostra coi cavalli, l’organo, i lumini. “ Purché si voglia vederlo c’è tutto nelle cose più semplici: nella furia del temporale c’è un presagio dell’arcobaleno. La trombettina di latta azzurra e verde diventa il talismano con l’aiuto del quale vincere ciò che ci pare avverso. L’allegria della fiera si rispecchia nel ricordo di quello che ci è stato offerto di godere.
Forse abbiamo forzato un poco il senso del testo, ma vale la pena di farlo se questo aiuta a spingersi più in profondità nei messaggi che gli oggetti e le parole che li designano ci trasmettono. Govoni ha colto tante volte, cari alla sua immaginazione, i segni d’una memoria lontana fatta di cose semplici che, dileguando, lasciano dietro di sé una scia di rimpianto per la loro sparizione. L’elenco si allarga se si tiene conto degli altri ‘emblemi’ che fanno la fiera (o la facevano un tempo). Non è ozioso o fiaccamente sentimentale rievocarne la presenza, vedere come sanno pungere l’animo con la loro nota di inguaribile nostalgia. Un regista come Federico Fellini si è portato anche lui, nel cuore, il piccolo esercito di saltimbanchi, le donne del tiro a segno, le malinconiche note di fisarmonica, le giostre che fanno fatica a consentire un altro giro in uno sfinimento doloroso.
È la fiera, una metafora della vita, una giostra di giorni che gira ora veloce ora affaticata e lenta ma tenace, decisa a resistere. E Govoni, per tornare a un poeta che – s’è visto – ha saputo condensare in breve giro di versi la magia dell’avvenimento, spreme gioia e malinconia di memoria, affida a un discorso più ampio la rappresentazione di una festa nella quale tutto confluisce. Il titolo è, prevedibile, La Fiera. Un onomatopeico turutuntuntun, un rullo di tamburi, apre la fiera: lo spettacolo è assicurato e costa poco. C’è una curiosità partecipe; bambini sgranano i grandi occhi sullo stupore di un carosello fatto di piacevoli inganni. Per loro quel mondo è vivo e vero; i briganti dipinti “paion vivi”, e poi ci sono eventi straordinari: “c’è il miracolo / di San Biagio, del pesce, ed anche altri incantesimi!”: già, incantesimi! Perché la vita s’incanta a vedersi rispecchiata in immagini deformate, in suggestive escursioni oniriche, in figure che sono le nostre ma che non riusciamo ad accogliere senza una qualche diffidenza. Fa parte del campionario di umanità che la fiera accoglie generosa, anche la donna sbracciata e grassa che sollecita ad entrare e a vedere lo spettacolo; e c’è un’altra donna con il naso adunco come quello di un falco; e un’altra ancora che con gran gusto mangia delle prugne. Irrompono i saltimbanchi ed i pagliacci incipriati ed imbellettati: figure strambe e visacci che vorrebbero spaventare e fanno ridere. C’è, poi, immancabile, la giostra: “La giostra ornata di globetti variopinti / turbina mentre un organo tedesco suona / con le trombe e i fantocci con i campanelli”. Ragazzotti spregiudicati, e meno inclini agli incanti fieristici, tentano di scalare l’albero della cuccagna dall’alto del quale dondolano i premi che saranno di coloro che porteranno a termine l’impresa di scalare quel palo viscido che alla sua sommità promette un ambito dono. La fiera sciorina le sue occasioni, le sue occasioni di svago, la sua piccola gioia semplice accompagnata sullo sfondo dal turutuntuntun del tamburo; e le zingare leggono la ventura sulle mani di chi le porge loro sperando in favorevoli pronostici. Ma la festa va verso la fine: la fiera chiude i battenti nel rumore atteso e nello scintillio dei fuochi d’artificio.
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Certo, la giostra aveva una sua centralità nella fiera di paese, quella che in ogni località aveva il suo luogo deputato tanto da conservarne il nome (Largo Fiera o Piazza della Fiera) quando la sua funzione specifica era venuta meno. Passavano gli anni, mutavano le abitudini. I dolci incanti suscitati dalla fiera cominciavano a svanire; altro ci voleva per richiamare tante persone intorno ad un’occasione sempre più guardata con benevolo distacco. Chi è affezionato alla rappresentazione della fiera registra questo scadere dell’occasione, non si riconosce in essa. Ma c’è un modo per salvare il fascino di quella che fu una stagione della vita quando lo stupore del mondo incatenava lo sguardo e dava almeno un poco di batticuore? Ancora una volta è il poeta già ricordato a suggerire una magnifica scappatoia. Ci si può rifugiare, non per ripiego ma per diversa convinzione, e soprattutto per un delizioso scatto di fantasia, in un territorio dove la fiera ed i suoi incanti possono riprendere vigore e proporsi nuovi e freschi al sentimento. Figure e colori risuscitano un mondo di poesia che pareva perduto. E la parola signoreggia questa nuova stagione: “Aereo teatro di cavalli / fabbricato dagli angeli”: questa è la giostra. E quei cavalli hanno in sella “i bimbi trasognati / fieri del loro primo capogiro”: E c’è la folla che rumoreggia ed assiste a quella cavalcata della vita risucchiata con i suoi disegni e i suoi colori entro un vortice in cui tutto s’amalgama e quell’amalgama tutto comprende: “non è più che una nebbia colorata / la fiera con la chiesa e le baracche / risucchiate dal vortice; a un più rapido / ritmo diventan larghe vaghe zone / d’arcobaleno i campi col paese / che col rumor dell’onde intorno al sasso / scompone in liquidi colori il mondo.” La fiera, e la giostra suo simbolo eminente, si muta in una giostra di colori, in un disegno da caleidoscopio, in un turbinare di figure vaghe composte e ricomposte nell’occhio che ne insegue la fantasiosa partitura cromatica. La giostra/vita misura il suo giorno, ne contempla la bellezza, ne accoglie i dolori. Poi viene la sera; la giostra rivela i meccanismi della sua costruzione. Ma l’incanto continuerà: un bisogno del cuore: “Va tutto il giorno e turbina la giostra; / poi quando col cadere della notte; / spenti i lumi di nave avventurosa, / cadono cavallucci e cavalieri / vinti dal sonno, con materno cuore / caldi di sogni li raccoglie insieme / sotto le palpitanti ali di tela, / a mezza strada tra stelle e giardini, / immensa chioccia d’oro di bambini.”
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La fiera non poteva, ovviamente, esaurire i suoi compiti gravi e le sue aeree fantasie nelle pagine di una poesia nostalgica o nella trasfigurazione di condizioni esistenziali a misure di accettabilità. Le grandi fiere internazionali, già nel Medioevo, erano fortunate occasioni per presentare i propri prodotti e per esaltarne la qualità. In tempi che diremmo ‘normali’ vi si allacciavano rapporti che portavano poi ad una conoscenza diretta dei produttori dei beni in mostra e in vendita e favorivano gli scambi tessendo una fitta trama di notizie, di lettere con le quali si specificavano quantità e qualità delle merci poste all’attenzione di, si direbbe oggi, esperti che l’abitudine all’osservazione acuta e puntigliosa rendeva particolarmente adatti a riconoscere la qualità delle merci sotto esame. Nascevano così le specializzazioni. Le lettere accompagnavano non solo beni di consumo, o campioni di esse, ma talvolta erano al seguito di carichi preziosi. Nella storia delle fiere del Medioevo, un personaggio intento a scrivere lettere contenenti circostanziatissime indicazioni, è un grande mercante che costituisce, con i suoi mezzi ma anche con operazioni accortamente mirate, una straordinaria fortuna. Il personaggio, ‘eroe’ della vita economica toscana, era un grande mercante di Prato; si chiamava Francesco di Marco Datini. Si può fare un cenno alla corrispondenza riguardante gli affari, la vita economica di un tempo da noi lontano. Le lettere erano confezionate con grande accuratezza; messe al sicuro in un involucro impermeabilizzato. Si affidavano, le lettere, ad un corriere. Scrive Iris Origo nel suo libro sul Datini: “La scelta del corriere era cosa importantissima. […] Talvolta le grandi compagnie avevano “fanti [corrieri] propri: nel trecento l’Arte di Calimala spediva due corrieri al giorno da Firenze alle grandi fiere di Sciampagna, e nel quattrocento la Repubblica veneta possedeva un servizio postale regolare che impiegava solo sette giorni tra Venezia e Bruges”.
Nominata di striscio la regione francese della Champagne, uno dei grandi richiami commerciali del Medioevo, sarà giusto ricordare che questi grandi assembramenti di persone, riunite per un’attività pacifica, ebbero spesso l’ aspetto proprio di forze pacificatrici. Infatti, in vista delle grandi fiere, le guerre in corso venivano sospese e il pensiero si rivolgeva, con sollievo dobbiamo immaginare, a pacifici contratti e ad altrettanto pacifici contatti.
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Ecco come definisce la fiera il Grande Dizionario della Lingua Italiana conosciuto come “il Battaglia”: “Raduno periodico di venditori e compratori al minuto e soprattutto all’ingrosso, di durata superiore a quella del normale mercato (ed è spesso occasione di chiassosi divertimenti popolari)”. Diverse le occasioni a seconda della attuale specializzazione dei prodotti proposti dalle grandi (ma anche dalle piccole) fiere: a scelta, frequentandole, potremmo optare per la fiera della carne equina o, è sempre un esempio, per la fiera del libro. Difficile dire quale delle due contribuirebbe, con ciò che offre, ad un miglioramento della nostra salute fisica e morale. Qualche fiera ‘storica’ non potremmo perdercela: ad esempio la nostra, quella di casa: la nostra fiera di Galatina. A Galatina la fiera, la festa!… e uno scrittore nostro che la ricorda: Cesare Giulio Viola in Pater: “Ma a giugno c’era la notte d’estate con tutti i balconi aperti e la folla per le strade, e per la via del duomo c’erano le gallerie di lampadine ad olio multicolori. [… ] si compravano le mandorle abbrustolite […] la banda c’era, che più valeva degli archi, dei torroni, delle angurie, la banda sulla cassa armonica foggiata a pagoda cinese.” Se avessimo voglia di optare per occasioni diverse, potremmo bazzicare, che so? la fiera di san Valentino, se non altro per una visita di riconoscenza al santo che bene o male abbiamo coinvolto nelle nostre avventure sentimentali; si potrà scegliere uno dei luoghi in cui si svolge, uno tra tanti: in febbraio a Bussolengo in provincia di Verona (dal 1712) o a Pozzoleone in provincia di Vicenza. Se volete frequentare un’altra fiera Illustre andate a quella di Senigallia. Quale che sia la fiera scelta, quello che colpisce l’attenzione del visitatore è la capacità del luogo fieristico di determinare una spontanea occasione d’incontro, un’atmosfera di cordialità che non trovereste certo al mercatino settimanale, che si svolge magari sotto casa vostra, né – putacaso! – a qualche ruspante fiera del libro dove i libri in esposizione sono – questo può accadere – i libri che durano una settimana e li si vuole gabellare tutti per capolavori. Vittorio Alfieri frequentava (scherziamo ma non troppo!) le fiere equine perché esercitava l’equitazione come sano impegno sportivo mattinale; e acquistò in Inghilterra uno stock di cavalli che trasferì in Italia si può immaginare con quale dispendio di energia.
Le grandi fiere internazionali videro le capitali europee in tempi diversi gareggiare per assicurarsene l’assegnazione. Fiumi di folla conferivano agli spazi fieristici non solo l’aspetto di un paese delle meraviglie ma la sensazione di un moto perpetuo, frenetico. I grandi giornali mandavano i loro corrispondenti per fornire descrizioni dei mirabilia che vi si potevano scoprire o semplicemente ammirare. Dall’Italia, l’”Illustrazione Italiana”, dell’editore Treves, inviò a Parigi, all’esposizione del 1878, uno scrittore giornalista celebrato autore di best-seller: Edmondo De Amicis. L’autore di Cuore ne fu conquistato. Scrisse: “Altri vanno a vedere alla prova il telefono di Bell, o l’apparecchio telegrafico che trasmette con un solo filo duecento cinquanta dispacci in un’ora, o il semaforo del nostro Pellegrino, oppure a leggere i vecchi processi per stregoneria esposti nel padiglione del Ministero degli Interni di Francia”. Insomma c’era di tutto e non si poteva che selezionare uno o più argomenti preferiti. Da allora le fiere moderne, le grandi esposizioni universali hanno assunto proporzioni ipertrofiche. Ma avreste il coraggio di tradire la vecchia buona fiera di paese, col suo diploma di attenta casalinga appeso al cuore e con i suoi oggetti simbolici (la trombettina di latta azzurra e verde, la giostra), avreste – dico – il coraggio di tradirla sostituendola con quelle carabattole moderne, importate non si sa di dove, fabbricate non si sa da chi e senza un filo, sottile sottile dell’antica malinconia?
Ah! la Fiera!
[“Il Titano”. Supplemento economico de “Il Galatino” n. 12 del 24 giugno 2016, pp. 38-40]