Dal Salento al Gargano:  il viaggio in Puglia di Anna Maria Ortese

di Antonio Lucio Giannone

Nel corso di tutta la sua vita, Anna Maria Ortese ha svolto un’intensa attività giornalistica, collaborando, anche per pressanti esigenze di carattere economico, a numerosissimi quotidiani e periodici. Una parte consistente di questa attività è costituita dagli scritti di viaggio, molti dei quali sono raccolti nel volume La lente scura, a cura di Luca Clerici (Milano, Adelphi, 2004). Tra i tanti reportage che ha scritto, ricordiamo, ad esempio, quelli dalla Russia del 1954 o da Parigi del 1960 ma anche da varie regioni e città italiane: dalla Sicilia, del 1951, dalla Liguria, del ’57, da Milano, del 1955, e ancora da Napoli, Roma, Bologna, Venezia, Firenze, Genova, ecc.

Uno dei periodi di maggiore produttività giornalistica è sicuramente quello che va dal 1948 al 1952. Sono questi gli anni in cui la scrittrice abbandona definitivamente Napoli, dove però ritorna spesso, e si trasferisce a Milano, dove vivrà fino al 1958. Ma queste due città per lei, come scrive Clerici nella sua documentatissima biografia, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese (Milano, Mondadori, 2002), sono più due basi di partenza che luoghi di residenza stabili.

Infatti in questi anni la Ortese viaggia molto visitando un po’ tutta l’Italia e, nel 1951, anche la Puglia. Dal punto di vista della sua attività letteraria, questo periodo si colloca tra Angelici dolori, il libro di racconti apparso nel 1937 presso Bompiani che la impose all’attenzione della critica, e la sua opera più famosa, Il mare non bagna Napoli, uscito nel 1953 nella collana “I gettoni” che Vittorini dirigeva per l’editore Einaudi.

A Milano, capitale dell’editoria e del giornalismo, la Ortese collabora a testate prestigiose: dal “Mondo” di Pannunzio a “Milano-sera”, dall’”Unità” (edizione di Milano) a “Omnibus”, dall’”Illustrazione Italiana” a “La Fiera letteraria”, da “Oggi al “Nuovo Corriere” di Bilenchi, dall’”Europeo” a “Noi donne” di Maria Antonietta Macciocchi, oltre che ad alcuni giornali napoletani. Su “Noi donne”, organo ufficiale dell’UDI (Unione donne italiane), cioè del movimento delle donne di sinistra, pubblica nove pezzi tra il maggio del 1951 e il 26 settembre del 1954. Proprio dalla direttrice di questo settimanale la Ortese probabilmente ebbe l’incarico di svolgere un’indagine sulle condizioni di lavoro delle tabacchine, il ruolo che ha caratterizzato in campo agricolo la storia della produzione salentina del Novecento. Da qui nasce il viaggio in Puglia da cui derivano tre reportage in tutto: uno dal Salento e gli altri due dal Gargano, tutti dedicati prevalentemente alla descrizione dell’universo femminile in Puglia. Due di questi escono appunto su “Noi donne”, il terzo sul “Corriere di Napoli”, un altro giornale a cui la scrittrice collaborava regolarmente.

La Ortese parte da Napoli ai primi di ottobre del 1951 e non si reca in Puglia in treno, come fa quasi sempre, ma in una ‘topolino’ in compagnia di un fotoreporter. Il primo reportage, che appare, come s’è detto, su “Noi donne” il 21 ottobre 1951, è intitolato Nel dominio del tabacco, in cui all’inizio balza in primo piano il paesaggio pugliese, “uno dei paesaggi più stupefacenti della Penisola, ora tutto sassi, deserto luce, ora soltanto montagne, fantasia, tenebra e poi di nuovo sassi, deserto, luce, in un crescendo altissimo e silenzioso di motivi orientali, di colori”. Lo sguardo, come spesso succede nei reportage della Ortese, è rivolto poi al cielo, che le permette descrizioni che tendono all’astratto, puntando sulla definizione della luce e giocando sui colori. Appena arrivata in Puglia, il cielo le sembra sconfinato: “Il cielo, da quando avevamo lasciato la Campania, sembrava aver perduto ogni senso della misura: immenso, obliquo, stravolto da temporali, lucido di piogge, acceso da folgori o da arcobaleni improvvisi, uncinato, lungo la costa adriatica, da marosi verdissimi”.

La sera giungono a Lecce che le dà l’impressione di una “piccola Cuzco, con le vie strette e graziose, le case dell’aria segreta e irreprensibile”. Cuzco, com’è noto, è l’antica capitale inca del Perù, famosa anche per le sue chiese e i monumenti barocchi. E qui non si può pensare all’espressione che usa Vittorio Bodini a proposito di Lecce e del barocco leccese, nella prosa intitolata Barocco del Sud, uscita nel 1950, un anno prima del reportage della Ortese (ora in V. Bodini, Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa, 2003): “quel senso di lontananza che improvvisamente vi prende ha nomi geografici: Spagna, Messico”. Ma subito dopo la Ortese definisce Lecce anche “una città di confine, sulle soglie di un mondo nero”. E questo mondo si prepara ad esplorare nella sua breve permanenza: nero non solo perché è il colore dominante dei vestiti e degli occhi delle donne che incontra attraversando i paesi del Salento (“Sulla soglia, donne vestite di nero, con una mano nell’altra, a difenderle dal freddo, levavano su di noi gli occhi senza sorriso, neri”), ma anche  per la sua tragicità, la sua assoluta mancanza di speranza.

A farle da guida nell’ambiente delle tabacchine salentine è una combattiva sindacalista, Cristina Conchiglia, una figura mitica per queste lavoratrici che poi diventò anche deputato del Partito Comunista italiano. Questa donna, durante il viaggio da Lecce ai paesi del Capo di Leuca dove si recano per vedere da vicino come si svolgeva il lavoro delle tabacchine, le fornisce sinteticamente i dati precisi della situazione, che la scrittrice riporta fedelmente: “Nel solo Leccese, 40.000 tabacchine, circa la metà di quante ne sono in Italia. Per le raccoglitrici di tabacco nei campi, un salario di 250 lire al giorno: nei magazzini, da 360 a 560. Concessioni nella provincia, 300, magazzini, 500. Cifra totale del netto guadagnato da un piccolo numero di concessionari, ogni anno: da 15 a 20 miliardi”.

La prima tappa è Alessano, dove a colpirla, come succede spesso nei reportage della Ortese, è una bambina di otto anni, Rita Colaci, “la penultima di quattordici figli di Michelangelo Colaci” – sottolinea – e già questo nudo dato numerico è significativo della difficile condizione socio-economica in cui viveva la gente del Sud (erano abbastanza comuni infatti, soprattutto tra la povera gente, le famiglie con numerosi figli). L’incontro con questa bambina le dà la possibilità di accennare alle disumane condizioni in cui lavoravano le tabacchine, del tutto prive di garanzie in campo igienico e di dignità dal lato umano. Essa infatti aiuta le altre donne a scegliere e infilare le foglie di tabacco, lavorando “in grandi stanzoni pieni di umidità, con una finestrella in alto, che il regolamento vuole munita d’inferriate per evitare i furti”, dove “non vi sono gabinetti, né acqua da bere e all’uscita, tutte le lavoratrici vengono perquisite rapidamente dalla cosiddetta ‘maestra’”. E quando la scrittrice e il fotografo abbandonano il paese, questa e altri bambini si mettono a correre dietro la ‘topolino’ con “gli occhi fissi, – scrive – spalancati, lucidi di una speranza che a poco a poco si spegneva”. “Speranza di che? – commenta allora la Ortese – Di che cosa? Si è fermata col soprafiato vicino a un grosso sasso e presto non l’abbiamo più veduta”. È, questa, la prima delle indimenticabili figure di bambine e di ragazze che si affacciano in questi scritti.

Dopo una sosta a Montesardo, giungono a Gagliano del Capo, la tappa conclusiva di questo viaggio, dove affiora nella scrittrice, inevitabile, il senso della finitudine. Qui infatti – scrive la Ortese – “la Penisola termina nello Jonio, in una struggente tristezza di cosa incompiuta”. E anche qui non si può non pensare a una poesia di Bodini, ambientata a Leuca, Finibusterrae, tratta da Dopo la luna, e ad alcuni suoi versi: “… dove termini, / meschinamente, Italia, in poca rissa / d’acque ai piedi d’un faro”.

A Gagliano, l’attenzione della scrittrice è attirata da una giovane donna, di vent’anni, che lavora il tabacco “in un magazzino come una grotta”. “Minuta quanto una bambina, muovendosi con la leggerezza di un angelo, maneggiava un telaio dov’erano infilate le foglie. Era vestita di chiaro, – aggiunge –  strana cosa in quel nero”. E mentre la osserva, si chiede che cosa questa ragazza abbia conosciuto “della terra, della gioia, del sole”. “Nulla, assolutamente nulla” si risponde e conclude con una splendida immagine, tipica dei suoi scritti di viaggio, caratterizzati da “un alto tasso di figuralità” (Clerici), cioè da una costante presenza di metafore, analogie, similitudini: “Le foglie del tabacco, – scrive – mentre essa sollevava il telaio, frusciarono intorno alla sua persona, con un suono freddo, leggero, unica veste da ballo della sua gioventù”, dove emerge tutta la capacità visionaria della Ortese che con questa metafora vuole dare quasi il senso di una compensazione, di un risarcimento  per la vita-non vita di questa ragazza.

Se nel primo reportage balzano in primo piano quindi le desolate condizioni di vita e di lavoro delle tabacchine salentine, nel secondo, Respiro dell’Adriatico, come nel terzo, Terra dimenticata, entrambi ambientati in alcuni  paesi del Gargano, in cui si reca subito dopo, emerge il senso di isolamento di quei luoghi che contrasta con la bellezza del paesaggio. Mentre inoltre nel primo di essi, Nel dominio del tabacco, c’è soprattutto la volontà di recare una testimonianza su certe situazioni di grande disagio sociale e lavorativo attraverso una precisa e quasi obiettiva documentazione, non priva però, come s’è visto, di scatti inventivi, in questi altri due prevale quella vocazione trasfiguratrice e visionaria della Ortese che è una delle caratteristiche principali della sua narrativa.

Respiro dell’Adriatico, dunque, il più breve fra i tre pezzi, apparso sul “Corriere di Napoli” nel numero del 31 ottobre-1° novembre 1951, inizia con l’arrivo sul Gargano e con una sensazione di smarrimento che la prende a contatto con questa terra: “Anche se alcune cartine colorate, diffuse dalle agenzie di turismo, ne offrono un panorama vagamente arcadico e divertente come un giuoco di bambini, non credo si sia in Italia un luogo più solitario e, nel suo mantello di paradiso, meno invitante di questo”. E come i luoghi sono isolati, anche la gente che li abita è immersa nella solitudine. I ragazzi del posto che le vengono incontro a Vieste infatti “sembrava che avessero perduta la facoltà di pensare, da centinaia di anni, che non aspettassero più nessuno e niente”. “Qui nel Gargano – aggiunge più avanti –  le popolazioni erano residui di una gente fuggita e sperdutasi in un luogo meraviglioso ma privo purtroppo di qualsiasi bene civile, che l’aveva isolata dal resto del mondo”.

Questa impressione diventa ancora più allucinante a Peschici, che le evoca addirittura “i deserti e i giardini lunari”. “Veduta dal mare – continua ancora ricorrendo a una potente immagine analogica – sembra un fossile, un gigante dell’età più remote, a cui i secoli e il sole abbiano mutato in pietra la carne”. E inoltrandosi in questo paesaggio spettrale, in cui le ombre della sera erano rischiarate soltanto dai lumi che si accendevano sulla collina dove si distendeva “un agglomerato di case bianche”, scopre che anche la collina è abitata. “Scalette, sottili come antenne di insetti, conducevano a ingressi di antri, difesi tutti da un’identica tendina di filo o cotone, lacera e stinta”. Passando, quando la tenda era scostata, intravede per un attimo i miseri interni di queste grotte: “un lume, un letto in un angolo, un tavolo ove un uomo pallido sedeva in silenzio col mento nella mano”.

Incomincia a provare allora “una strana paura” che non ha un oggetto preciso e fugge via, ritornando ormai di notte verso Rodi, “dove unico segno di vita era il respiro profondo e insieme inquieto dell’Adriatico, che veniva a frangersi regolarmente, col suo linguaggio infantile, confuso e meraviglioso, su quella povera riva”. E qui il mare, personificato, diventa appunto simbolo di vita che la libera dall’angoscia.

Ancora sul Gargano è ambientato il terzo reportage dalla Puglia della Ortese, Terra dimenticata, uscito per la prima volta su “Noi donne” il 4 novembre 1951. Fu ripubblicato poi, l’anno seguente, col titolo Paradiso sul Gargano sul “Corriere di Napoli” e con quello di Oltre l’isola dei coatti qualcuno ha chiamato su “Milano-sera. Con quest’ultimo titolo, di origine sicuramente redazionale (che allude alle isole Tremiti, terra di confinati e di esiliati),  figura nel volume citato, La lente scura. I primi due titoli invece, Terra dimenticata e Paradiso sul Gargano, che costituiscono un ossimoro, frequente figura retorica negli scritti di viaggio della Ortese, danno pienamente il senso di questo bellissimo pezzo il cui brano iniziale è per l’appunto tutto un seguito di ossimori:

“Il Gargano mi ha offerto un tale numero di sorprese, in questi due giorni, che ancora adesso ne serbo l’immagine di un paese stregato. Qui, la bellezza celeste delle cose, ha isolato e perduto gli uomini. In alcuni momenti, sembra non vi sia altro che beatitudine, subito dopo avvertite la presenza di un nero sconforto. Dopo le selvagge impressioni della sera precedente, fra la spiaggia e gli antri domestici di Peschici, e una lunga notte trascorsa nella locanda di Rodi, minacciata da presso dal vento e dal mare, che in quell’incertezza del buio esasperavano la loro potenza, non credetti a me stessa, quando la mattina dopo, aprendo le imposte, vidi davanti alla casa un mare liscio e celeste e grande, che nella luce nuovissima del giorno brillava con la stessa freschezza, faceva sentire la stessa voce favolosa dei mari apparsi a Omero nella sua Iliade.”

Qui insomma emerge ancora più chiaramente quello che è il motivo dominante di questi due scritti ambientati sul Gargano: il contrasto tra l’incanto dei luoghi e la condizione degli abitanti, la loro miseria, il loro isolamento dal resto del mondo. L’attenzione della scrittrice in particolare, ancora una volta, è rivolta ai bambini. Quelli di Rodi – scrive – erano “vestiti alla meglio, coi cenci dei grandi, creature la cui esistenza è affidata, come quella dei fiori selvatici, alla bontà del cielo, alla clemenza dei venti, bambini protetti da ben poche cose, al mondo, salvi per caso, cresciuti per puro miracolo”. Ma straordinaria subito dopo è la descrizione di uno di questi bambini, di poco più di cinque anni, vestito col saio da frate per voto, come ci spiega la scrittrice (con un’annotazione di carattere antropologico, che fa riferimento ad antiche tradizioni delle genti pugliesi e meridionali):

“Levava un piedino dopo l’altro, nell’impaccio della tonaca, difendendosi con una manina lo sguardo. La sua testina brillava al sole, come una pallida arancia, e più pallide erano, quando le scorgemmo le sue guance, le labbra. Era Tonino Fontanarosa, che questo inverno è stato malato e la sua mamma gli ha fatto un saio, per voto, ma ancora non è sanato. Vedendoci, sorrise appena e aggrottò le sopracciglia. I suoi chiari occhi erano tutti arrossati, e a mala pena sopportavano la luce del sole, ma circa questo particolare, nessuno seppe dirci niente, se non “malato… malato…”.”

A Peschici, dove ritorna dopo un giorno, resta abbagliata ancora una volta dalla bellezza del paesaggio, ma anche qui subito dopo c’è la riflessione sulle arretrate condizioni di vita degli abitanti della cittadina, dove “solo dieci case erano provvedute di un elementare servizio igienico, e in quanto alle fontane non davano acqua che per qualche ora”. Allora la scrittrice fa una considerazione che oggi può sembrare eccessiva e anacronistica, soprattutto se riferita a queste zone, che ormai sono una delle mete più ambite del turismo nazionale e internazionale:

“Io non vedevo la Puglia da moltissimi anni, e ora mi andavo lentamente ricordando ch’era stata sempre così, un’esistenza sprovveduta e feroce, un sole tremendo e una terra dimenticata, dove il livello di vita nelle campagne era solo poco più su di quello animale. Non eravamo che a poche centinaia di chilometri da Roma, col suo Governo, le Ambasciate, i miliardi profusi come le lampade elettriche, e qui cadeva ancora l’ombra delle caverne.”

Dopo la sosta in una locanda, si reca a visitare le case-grotte sulla collina da cui continua ad essere irresistibilmente attratta. E qui, tra i ragazzi che li seguono in questo giro sull’abitato in collina, la colpisce la figura di un’altra ragazza, Maria di Mele, dalla “testa stranamente aggressiva, rapata”, la quale chiede loro insistentemente una fotografia: “ ‘Bellu giovane, fammi la fotografia’, gridava continuamente”, rivolta al fotoreporter che accompagnava la scrittrice. Alla fine, anche per liberarsi da quell’ “esserino”, che “cominciava a farci paura”, la accontentano e mentre il fotografo prepara la macchina, la Ortese le chiede nome e cognome e si accinge a scriverlo su un taccuino.

“Non ho mai visto un cambiamento più repentino e straordinario in una fisionomia – commenta a questo punto –. Da adulto e cattivo, quel viso si rifece infantile, tenero. I lineamenti si distesero; gli occhi piccoli e foschi si allargarono e risero. Una grande, una meravigliosa risata di gioia. Poi, guardando i compagni, guardando le rocce e la gente ch’era affacciata alle rocce, e guardando l’aria e il mare, e come bevendo e godendo improvvisamente di tutto, cominciò a gridare: “Mi ha scritta e mi basta, mi ha scritta e mi basta, mi ha scritta e mi basta!

Ecco, questa figura e questo episodio diventano emblematici del disperato desiderio della gente del Gargano di legarsi a qualcosa, di vivere insomma una vita vera, degna di questo nome Così infatti termina il suo scritto la Ortese: “L’avevamo scritta, legata a qualche cosa, a qualcuno: oltre tutto quel mare, oltre l’isola dei coatti, oltre i boschi e le pietraie di questa terra, qualcuno aveva chiamato il suo nome, a cui la sua infanzia era cara, le aveva fatto intravedere l’approdo a una civiltà, un giorno, una vita”.

 

[Pubblicato in “Apulia”, a. XXXVII, n. 2, giugno 2011, pp. 138-144. Deriva da una relazione tenuta al II Convegno Internazionale Letteratura  Adriatica. “Le donne e la scrittura di viaggio” , svoltosi a Capitolo (Monopoli) il 28 e 29 settembre 2010 e sarà pubblicato nei relativi Atti]

 

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