di Rosario Coluccia
Un articolo del «Messaggero» del 27 febbraio si intitola: «Gli strafalcioni delle aspiranti maestre. Tanti errori blu, il 79% non riesce a superare il concorso nel Lazio». Il pezzo giornalistico di Lorena Loiacono elenca una lunga serie di errori commessi dalle candidate (quasi tutte donne, è normale considerato il tipo di scuola) che si sono presentate al concorso per insegnare alle elementari e alla scuola per l’infanzia. È generale l’incapacità di scrivere correttamente forme semplici: le aspiranti maestre nelle prove d’esame scrivono «perké» o addirittura «xké» (come sono abituate a fare nelle chat e nei messaggini), non sanno distinguere tra la terza persona del presente indicativo di avere («ha», con «h» iniziale) e la preposizione («a», ad esempio «vado a casa»), usano impropriamente «h» in parole che non la richiedono, come «muccha». Alla domanda: «che obiettivo ha l’insegnamento della lingua italiana?» qualcuna risponde «saper compilare un bollettino postale o un assegno bancario», con buona pace dei tentativi per promuovere un uso adeguato dell’italiano messi in opera da istituzioni e da singoli impegnati nel campo dell’educazione linguistica. Carente l’inglese, anche elementare. Open day si confonde con Day hospital, la pratica del peer tutoring (un compagno di banco più bravo aiuta uno meno bravo, senza l’intervento del maestro) diventa peer touring (quasi ‘viaggio tra pari’). Non c’è da stare allegri, mal comune non è mezzo gaudio. Conoscere e usare bene l’italiano è decisivo. E nello stesso tempo va promossa la conoscenza dell’inglese, studiare le lingue straniere è importante. I due obiettivi hanno finalità diverse, vanno perseguiti insieme.
La lista degli errori è impressionante, ma non è il caso di gridare allo scandalo. Conviene ragionare: il problema esiste, l’incapacità di scrivere (e di esprimersi) in modo corretto e adeguato è diffusa. Il caso del concorso per insegnanti delle scuole primaria ed elementare nel Lazio non è eccezionale, né lì si è verificata una concentrazione anomala di aspiranti docenti in guerra con l’italiano. In quella regione sono stati respinti 8 candidati su 10, la media nazionale è di poco più bassa, non passano 7 candidati su 10. Dunque anche nel resto del paese le condizioni sono simili.
Non va meglio negli altri ordini di scuola. Cominciano ad apparire le graduatorie di merito del concorso 2016. Sulla base dei primi dati, è prevedibile che i vincitori saranno in numero inferiore rispetto ai posti messi a disposizione nel bando, che resti vacante un posto su tre. Selettive le prove o impreparati i concorrenti? Le due cose insieme, probabilmente. Emerge, racconta la rivista Tuttoscuola, «scarsa capacità di comunicazione scritta, in termini di pertinenza, chiarezza e sequenza logica e carenza nell’elaborare un testo in modo organico e compiuto. Si ricava anche un campionario di risposte incomplete, errori e veri e propri strafalcioni, che sorprendono in maniera più acuta per il tipo di concorso in questione, ovvero una selezione tra chi si candida a insegnare».
Il disastro non si limita alla scuola. Anche in altre professioni le cose non vanno bene. Fecero scalpore qualche anno fa gli esiti di un concorso per magistrato. Un record le domande di partecipazione, ma al momento dell’esame molti neppure si presentarono; in 4 mila consegnarono la prova scritta, alla fine i vincitori furono solo 322. Una sessantina di posti non fu assegnata per mancanza di candidati validi. Oltre alle mediocri conoscenze giuridiche una selezione così drastica fu causata dalla pessima conoscenza dell’italiano. Un componente della commissione d’esame, seccato per i piagnistei sulle bocciature, si decise a rivelare alcuni strafalcioni: da «qual’è» con l’apostrofo a «Corte dell’Ajax», dall’«a detto» senza «h» iniziale a «risquotere» con la «q», incapacità di coniugare i verbi elementari, enormi lacune da scuola dell’obbligo. Un altro commissario giunse ad affermare: «La conoscenza della lingua italiana è una pre-condizione per partecipare al concorso, ma alcuni candidati non ce l’avevano. In alcune prove c’erano errori di grammatica e di ortografia, oltre che di forma espositiva, testimonianze evidenti di una mancanza formativa, che non è emendabile». Succede così anche in altri campi, non scrivono meglio commercialisti, medici e ingegneri. Il problema “lingua italiana” esiste e coinvolge l’intera società.
Non si è spento il dibattito seguito al cosiddetto «appello dei seicento» firmato da professori di varie discipline, scrittori, studiosi di diversa estrazione riguardante il cosiddetto “declino dell’italiano” (ne abbiamo scritto in questa rubrica il 12 e il 19 febbraio). L’appello ha avuto grande risonanza: sui giornali, in radio e in televisione, nella rete, sono emerse posizioni diverse, non sempre argomentate. Alcune dichiarazioni successive sono apparse ingiuste e strumentali. Senza eleganza, qualcuno si è affrettato a demolire l’azione mirabile che nel campo dell’educazione linguistica Tullio De Mauro ha svolto per decenni: appena qualche settimana dopo la sua morte sono state scritte cose che mai gli erano state contestate in vita, quando avrebbe potuto controbattere. Opportunamente invece Radio 3, d’intesa con il MIUR, ha dedicato la giornata del 31 marzo a celebrare l’opera di De Mauro a favore dell’italiano, dei libri e della crescita culturale del paese. Il 5 aprile la Camera dei Deputati ne ha ricordato la figura nell’incontro «Alfabeto civile: i pensieri e le parole» (tra i partecipanti la presidente Laura Boldrini, Fabrizia Giuliani, Commissione Giustizia, Sabino Cassese, professore e giudice emerito della Corte Costituzionale, Nicoletta Maraschio, linguista e presidente onoraria dell’Accademia della Crusca, Walter Veltroni, politico e regista, Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo).
L’Accademia della Crusca e l’Associazione per la Storia della Lingua Italiana ASLI organizzano per il prossimo 4 maggio a Firenze, nella sede dell’Accademia, due incontri a più voci su «Politica linguistica, scuola e università», con interventi di esperti e aperti al pubblico. Una discussione costruttiva, capace di andare oltre le polemiche e in grado di puntare soprattutto alla ricerca di strategie comuni e di interventi operativi mirati. Centrale è la formazione. Nelle università si formano i futuri professori (e i futuri giudici, i futuri avvocati, i futuri biologi, ecc.). E allora forse possiamo sin d’ora individuare alcuni punti, che incidono sul livello di preparazione degli studenti.
- Vanno riesaminate le modalità di accesso all’università. A parte i corsi a numero chiuso (richiestissime le professioni mediche), per il resto ogni universitario è libero di iscriversi a qualsiasi corso ritenga, indipendentemente dalle competenze personali e dalle scuole frequentate negli anni precedenti. Non mi si obietti che esistono i test di accesso all’università (con debiti formativi, se non si raggiunge la sufficienza in qualche disciplina). Si tratta di mere finzioni burocratiche, la verità è che le università, in concorrenza tra loro per accaparrarsi gli studenti, aprono le porte a tutti indipendentemente dalle competenze. Altrimenti i finanziamenti calano e gli atenei rischiano di chiudere.
- Durante gli anni di studio, gli studenti universitari vanno allenati all’uso della scrittura. L’università italiana è tutta orale, non ci sono esami scritti seri. Poi, alla fine del percorso magistrale, si chiede agli studenti di scrivere una tesi, che dovrebbe essere di vera ricerca scientifica. I laureandi, impreparati al compito richiesto, naufragano nelle difficoltà e fanno errori simili a quelli che abbiamo visto all’inizio.
- Vanno incrementati gli studi di linguistica. Ci sono sedi dove questa disciplina è insegnata seriamente e altre dove quasi non è conosciuta. Senza una solida preparazione di base, senza conoscenze teoriche e senza pratica, è fatale che i risultati siano quelli che abbiamo visto. La competenza dei futuri docenti va posta al centro dell’attenzione. Con esami obbligatori di linguistica durante gli studi universitari e con adeguati investimenti a sostegno della formazione e dell’aggiornamento dei professori dopo, durante tutta la loro attività di insegnamento.
Non ho la ricetta magica per risolvere problemi incancreniti, non ho consigli da dare a ministri e a rettori. Ma almeno cominciamo a discutere seriamente, se vogliamo che le cose migliorino.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 9 aprile 2017]