di Gianluca Virgilio
Un monumento agli animali (un cane, un gatto, un cavallo, ecc.), ecco quello che manca nel nostro paesaggio urbano! Si sa che la gratitudine non è il forte degli esseri umani, e dunque si deve arrivare fino a Brema per vedere i quattro musicanti oppure un branco di maiali che pascolano all’angolo d’una strada. Siamo troppo intrisi di antropocentrismo per vedere in un animale domestico il soggetto di un monumento. Tuttavia sentiamo il bisogno di avere con noi un cane, un gatto, un criceto, una tartaruga, ecc. La nostra vita senza gli animali sarebbe più povera, più triste, più disumana, non avremmo i ricordi che abbiamo, mancherebbe loro quella purezza che è l’anima della storia intima di ciascuno di noi.
Mio padre mi raccontava di Fiume, il cane valiò che lo accolse alla nascita (1921), lo accompagnò per tutti gli anni della sua infanzia e adolescenza e, quando morì, fu sepolto sotto un pino. La famiglia lo aveva relegato, con funzione di guardia campestre, allu Lardu, una contrada non molto distante dal centro cittadino; da cui spesso scappava per raggiungere i suoi padroni in città, quando essi tardavano ad arrivare negli orari consueti; e sempre li accoglieva festoso all’imbocco del viale che menava alla casina. Sarà stato chiamato così in omaggio a D’Annunzio e alla sua impresa, la cui eco risuonava allora anche nell’estrema provincia meridionale. E poi c’era lu Ninu, il cavallo di casa, un possente cavallo da tiro che aveva costruito l’intero edificio a due piani in cui abitava mio padre, portando da Cursi a Galatina carri carichi di pietra: un gran lavoratore! Nel racconto di mio padre sembrava che l’intera famiglia dovesse essergli riconoscente, ed invece un bel giorno un prestante giovanotto lo prelevò di stalla e lo portò al macello perché si era fatto vecchio; e per la strada lu Ninu non la finiva più di nitrire; e fu uno strazio anche per chi aveva preso la decisione di venderlo. Fiume accompagnò lu Ninu per un pezzo, facendo finta, come sempre, di mordicchiargli gli stinchi, ma quella volta sembrava trattenerlo; poi se ne tornò a casa senza dire niente.
Con questi ricordi per la testa, mio padre acconsentì con facilità a che io e mia sorella prendessimo con noi un animale, sebbene mia madre si mostrasse piuttosto riluttante. Da principio fu un gatto, un siamese, a cui demmo dapprima un nome femminile, Pamela; poi, quando il suo sesso divenne evidente, lo cambiammo in Ringo. Per anni portai le mani piene di graffi perché dovevo essere un bambino piuttosto irrequieto, da cui il povero gattino non poteva che difendersi a suo modo. Morì di cimurro (o di qualche malattia affine) senza ricevere la visita di un veterinario, dopo aver rovinato coi suoi artigli non poche coperte di corredo e aver attentato più volte, senza riuscirvi, alla vita del canarino di mia madre. Fu sostituito da Bulka, un cagnolino giunto in casa nostra dentro una cesta portata da una studentessa di mio padre. Lo chiamammo così sull’onda dell’emozione provocataci da un racconto di Lev Tolstoj, sebbene quello di cui parlava lo scrittore russo fosse un mastino, mentre il nostro un piccolo meticcio.
Messo sul tavolo perché tutti noi lo potessimo vedere, Bulka si presentò in modo molto originale: si guardò intorno, forse ebbe paura, ruotò su se stesso per tre o quattro volte e… bagnò la tovaglia tra le urla di mia madre, che già prevedeva per sé un aggravio di lavoro domestico. In effetti fu lei ad accudire Bulka come aveva fatto con Pamela/Ringo. Gli animali erano per noi bambini perlopiù un motivo di trastullo, mentre mia madre sapeva bene che essi dovevano mangiare, bere, dovevano essere lavati, ecc. Forse per questo alla loro morte, sebbene noi ragazzini ne rimanessimo molto colpiti, il pianto più lungo e profondo fu il suo.
Altri animali hanno accompagnato la vita della mia famiglia, ma non ne parlo per non dilungarmi e poi perché quelli che hanno segnato un’infanzia (di mio padre, la mia) sono quelli più importanti: ci hanno insegnato a vivere.
Oggi in casa mia si aggirano un cane di nome Billi, un gatto di nome Fuffi e una tartaruga di palude di nome Leo. Altre due minuscole tartarughe di neanche un anno, Rocco e Lia, si muovono in una teca posta su un mobile della cucina. Senza questi animali la vita della mia famiglia sarebbe diversa. Billi è un trovatello chiassoso, bisognoso d’affetto e di carezze. In lui non si riconosce alcuna razza, il che vuol dire che egli da molte generazioni si è affrancato dalle manipolazioni umane fino a diventare quello che è, un irriducibile meticcio. Fuffi è un selvaggio, un gatto semirandagio che va e viene a suo piacere, dopo epiche lotte con figli, nipoti e pronipoti, di cui in sette anni di sua vita ha popolato il quartiere. Leo trascina il suo carapace per tutta la casa, ma ho notato che finisce sempre per recarsi nella stanza dove c’è qualche familiare, come volesse stare in sua compagnia; passa il letargo in acqua, in una bacinella, dove, quando è sveglio, rientra più volte al giorno per mangiare. Le due piccole tartarughe nella teca, Rocco e Lia, ancora dicono ben poco, ma lasciano ben sperare.
Con questi animali trascorriamo la nostra vita, non ci sono mai screzi, fraintendimenti, disaccordi, litigi. La nostra convivenza è perfetta. Sono convinto che le mie figlie, una volte adulte, se ne ricorderanno sempre.
Perché non dovrei desiderare che in città si innalzasse un monumento all’animale?
[in Così stanno le cose, Edit Santoro, Galatina 2014, pp. 65-69]