di Antonio Errico
Una parola che in questo tempo si carica di un significato assoluto, che pronuncia promesse di salvezza delle sorti individuali e collettive, che attraversa ogni territorio sociale e culturale, che coinvolge ogni dimensione esistenziale, è cambiamento. Si dice che occorre cambiare le cose, cambiare le storie, i processi, i metodi, i risultati, le forme con cui si rappresentano gli eventi, la sostanza dei fatti; si dice che si devono abbandonare i vecchi pensieri, le vecchie azioni, le visioni e le interpretazioni del mondo che si sono avute fino a questo punto; si ribadisce che il mondo cambia in fretta e che bisogna adeguarsi in fretta al cambiamento, che non ci si può permettere l’ indugio, la riflessione pacata sulle cause e sugli effetti degli accadimenti, dei cambiamenti, perché l’importante è che cambi, perché il cambiamento è già una soluzione, e poco importa se il problema prevede, pretende, una più approfondita analisi, una maggiore ponderazione. L’importante è che tutto cambi.
Il cambiamento dev’essere radicale, strutturale, continuo, totale, indubitabile, evidente; deve interessare l’io e il noi, il tu e il voi, le piccole cose e quelle grandi, la prossimità e la lontananza, i microuniversi, l’universo. Così si dice.
Che cambi l’universo è una condizione del tutto naturale. Probabilmente in natura l’immutabilità non esiste. Se non esiste nei fenomeni della natura, non può esistere in quelli della cultura. Poi il cambiamento è anche necessario, indispensabile.
Una cosa del tutto diversa, invece, è la progressiva accelerazione del cambiamento, l’alterazione dei ritmi. Questo non è un fatto naturale: in fondo equivale a determinare artificialmente la maturazione di un frutto in una stagione in cui quel frutto non deve maturare. Quando accade come un’imposizione, quando non ha un periodo di transizione, un movimento di passaggio, quando non risponde ad un’esigenza e non si sviluppa nel contesto di un’esperienza di progresso ma asseconda soltanto un’apparenza, una maschera di ultramodernità, quando è soltanto la tinteggiatura di una superficie, l’enfatizzazione di una forma, allora il cambiamento non soltanto si svuota di significato ma espone ciascuno e tutti al rischio della confusione e del disorientamento, del turbamento, a volte.
Se si volge lo sguardo un poco intorno, e si riflette appena appena su quello che si vede, difficilmente si può evitare di considerare che per molte cose che cambiano il cambiamento non è affatto necessario e che le cose cambiate non sono meglio di com’erano prima che cambiassero. Per cui si smentisce la regola generale secondo la quale il cambiamento deve produrre un miglioramento e non il contrario.
Allora viene da domandarsi perché si cambia se non c’è necessità di cambiamento e se addirittura, in alcune circostanze, si cambia anche in peggio. Viene da domandarsi che cosa genera questa frenesia di rinnovare continuamente – metaforicamente – il guardaroba, di sostituire i mobili di casa, o addirittura di cambiare casa, se i vestiti hanno vissuto una stagione sola, se i mobili sono belli e funzionali anche se vecchi, se la casa è comoda e in un quartiere a modo.
Le risposte possono essere tante, senza alcun dubbio, e possono essere tutte giuste o tutte sbagliate. Fra queste si insinua anche il sospetto che il cambiamento in molte situazioni trovi la sua ragione profonda, più o meno consapevole, in un mancato riconoscersi nelle cose, in una estraneità ad esse, nell’inappartenenza. Le storie che attraversiamo non ci appartengono e non sentiamo nessun vincolo con la loro trama; restiamo indifferenti verso quello che accade intorno, anche verso quello che ci accade dentro; da una finestra guardiamo il dipanarsi delle vicende e i personaggi delle vicende senza partecipazione, senza coinvolgimento, senza interesse. Non proviamo affetto nei confronti di quello che, comunque, ha contribuito a farci nel modo in cui siamo, a conformare il nostro pensiero, che ha strutturato la nostra esistenza e quella delle persone che ci riguardano.
Così il cambiamento molto spesso assume il significato di una rimozione, di un rifiuto della memoria. Cambiare vuol dire cancellare. Il vortice del nuovo risucchia e inabissa tutto quello che è stato. La dimenticanza ci mette al riparo oltre che dalla emozionata nostalgia e dallo scongiurabile rimpianto anche dalla necessaria comparazione analitica delle forme e dei sistemi e ci concede il privilegio di autodispensarci dalla valutazione e conseguentemente dal giudizio e quindi dalla comprensione se quello che abbiamo realizzato qui e ora rappresenta davvero un’evoluzione rispetto a quello che era sempre qui, appena ieri.
Sempre più frequentemente, i cambiamenti che si verificano o quelle condizioni che si vuole considerare come cambiamenti, vengono definiti come epocali. Ogni semplice trasformazione di qualcosa, ogni variante anche ordinaria di un sistema, rappresenta un cambiamento epocale. Ogni riforma è una riforma epocale. Però non si considera che l’unico cambiamento, l’unica riforma che può assumere una valenza sostanziale, che può in modo concreto e duraturo produrre una trasformazione positiva e prospettica dell’esistente, è quella del pensiero. Senza una riforma del pensiero, qualsiasi innovazione, qualsiasi cambiamento si risolve in una operazione di superficie oppure in un marchingegno il cui funzionamento è soltanto fine a se stesso: gira a vuoto.
Allora, forse, come sempre, il giusto sta nel mezzo. Aveva ragione Octavio Paz quando diceva che la saggezza non sta nella stasi né nel cambiamento, ma nella loro dialettica.
I grandi cambiamenti della storia, i cambiamenti saggi, quelli che hanno elaborato visioni nuove del mondo e della vita, quelli che hanno portato sviluppo, benessere, progresso, sono stati generati da questa dialettica, dall’integrazione del vecchio e del nuovo, della certezza e del dubbio, della realtà e della fantasia. Quelli che hanno provocato inutili o imprudenti illusioni, o sconcerti o spaesamenti, sono stati i cambiamenti fondati sull’improvvisazione. Ecco. Da un po’ di tempo a questa parte, accade di frequente che ci si ritrovi in una vertigine di cambiamento, un po’ illusi e un po’ spaesati.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 5 aprile, 2017]