di Antonio Prete
Se ripenso ai miei dialoghi con Mario Luzi, vedo subito lo sfondo di alcune strade urbane o metropolitane, con il loro rumore e il loro affanno, oppure il divallare dolce della campagna senese tra calanchi ruvidi e succedersi di coltivi e di castagneti che salgono verso torrioni di vecchie ville, insomma, per dirla con le parole del poeta, quel “mare mosso di crete dilavate”, quella strada che “punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma” (Nel corpo oscuro della metamorfosi). Restano, di quegli incontri, frammenti di un dire che accerchia, da ogni dove, una sorta di necessità : porre la poesia, il pensiero della poesia – l’ufficio, direi, della poesia- al centro delle occupazioni mentali, e questo perché la lingua della poesia accoglie e mostra del vivente insieme l’angustia della finitudine e il respiro dell’ oltre, espone allo stesso tempo la gloria del visibile e la ferita della creatura. Inoltre il pensiero della poesia si dispone sulla soglia dell’interrogazione non della certezza, del ricercare non del confermare : era forse questa persuasione il filo che ci legava a una comune amicizia, quella con Edmond Jabès, i cui libri di frammenti e di versi andavo traducendo lungo gli anni Ottanta. Ma c’erano due grandi poeti che riapparivano più di frequente nella conversazione, due poeti per dir così condivisi : Leopardi, Baudelaire.
Leopardi con la costanza del desiderio che è respiro stesso dell’esistenza, con lo sguardo critico su una civiltà che astrae dalla singolarità del corpo vivente e senziente, ma soprattutto con la grazia di una poesia che accoglie il dolore del vivente, la sua fragilità, il suo azzardo d’infinito. Era il Leopardi la cui poesia sa di stare nella lontananza da una anteriorità –l’antico, il fanciullo, l’animale-, un prima nel quale si può scorgere, ancora, la traccia di una luce (di quella luce alla quale gli uomini hanno preferito le tenebre, stando al Prologo di Giovanni citato in esergo alla Ginestra ?). Questa presenza, nel pensiero poetante di Leopardi, di un’anteriorità produttiva di conoscenza riportava il confronto sull’altro poeta, Baudelaire, del quale Luzi aveva tradotto in bellissimi endecasillabi appunto La vie antérieure, e che anch’io andavo traducendo arrischiandomi nel corso degli anni nella selva meravigliosa di tutte le Fleurs du mal (proprio sulla traduzione della poesia ricordo un lungo incontro di Luzi con i miei studenti nell’Aula Magna di Lettere a Siena, in una mattina di luce primaverile, molti anni fa). Nella poesia di Baudelaire il lampo dell’altrove sopravviene nella prigione del qui, l’ardore dell’impossibile nel rumore della città, figure dello spaesamento e del dolore pulsano nel tumulto dell’anonimia metropolitana, e la lingua ospita ciò che la vie moderne consegna all’oblio : questa percezione credo fosse anche la sostanza stessa del dialogo del poeta Luzi con il poeta delle Fleurs du mal. Ma anche, restando in quella regione che Luzi aveva più volte visitato (l’antologia L’idea simbolista era stata come una guida al paesaggio di pensiero e di poesia di tutta un’epoca), l’attenzione andava verso quell’ ansia della forma, del suo rigore e della sua perfezione, che Mallarmé confrontava con il vuoto della perdita, con il fruscio del nulla dietro la tenda del visibile, con il bianco abbacinante dell’assenza. Un’ansia della forma e un confronto con il limite che per Luzi passava anzitutto per la via di una forte prossimità al vivente, al suo respiro, alla sua condizione terrestre. Un’ assenza che per Luzi assumeva via via i riverberi di una privazione, di una lontananza dal principio, di una sospensione della speranza, insomma di una trepida condizione di attesa, un’attesa tuttavia abitata dalla moltitudine dei viventi, dai loro volti, dai loro gesti.
Suoni di quel dialogo e luoghi di quegli incontri con Luzi ombreggiano il bianco dei margini quando apro il bel Meridiano curato da Stefano Verdino e gli altri libri poetici postumi a quello, e talvolta mi è difficile separare la lettura dal suono della voce stessa del poeta. Nei mesi scorsi ho indugiato sull’opera in versi che da La barca va verso Onore del vero, e dunque su quella sezione della scrittura da Luzi poi raccolta nel volume Nel giusto della vita : sono nate le pagine uscite ora sul numero della rivista “Istmi” interamente dedicata all’opera di Luzi. Le poche osservazioni di oggi si muoveranno prevalentemente nel tempo successivo, e cercheranno, nella rigogliosa e drammaturgica interrogazione poetica, di seguire brevemente soltanto il disegno di quel nesso che unisce la meditazione sul tempo all’apparizione della figura, il fuggitivo al suo orizzonte, il vivente alla physis. L’attenzione a questo nesso non è che un passaggio in quella esegesi alla quale l’opera poetica di Luzi ci chiama, ora che il compimento ne dispiega ragioni, stazioni, forme : l’approssimazione alla sostanza che sta al di qua delle forme immaginative e ritmiche, l’avvicinamento all’essenza di un domandare che è radice e anima del verso può essere –Benjamin lo diceva- il modo proprio della critica, il principio del commento. Ma d’altra parte, Luzi è un poeta che ha portato il fuoco e la vertigine stessa del pensiero nell’apparenza, nel suono e nella luce della forma, nella corporeità della figura, del gesto, della voce, del passo stesso di chi è in cammino. In questa unità di teoresi e forma davvero prossimo a Leopardi. E dunque in Luzi ogni balzo del pensare, ogni piega del domandare, è allo stesso tempo un passaggio della forma, un’attivazione del vedere, una descrizione del gesto, del suono, del visibile. Anzi, è proprio la preoccupazione che nella parola non prenda dimora l’essenza del cercare, nell’immagine non ci sia, integro, il pulsare dell’esistenza, a rendere sempre tesa e in certo senso irrequieta, la ricerca poetica di Luzi : “Vola alta, parola…/ però non separarti / da me, non arrivare / a quel celestiale appuntamento /da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio ricordo, sii /luce, non disabitata trasparenza” (Per il battesimo dei nostri frammenti). L’ansia per una parola che non possa non accogliere il vivente si unisce alla condizione di chi è sospeso nel cammino verso il principio. Come Simone Martini che lungo il ritorno è sospeso, nel vento e nella chiarità del paesaggio, dinanzi a un approdo che insieme è una sorgente, sapendo che l’arte è solo un annuncio, o una prova. Lo sguardo sulla vita, sulla vita che “segue la vita / con la fedeltà che ha l’ombra” è allo stesso tempo sguardo sul fuggitivo e sulla presenza del vivente : “mentre scorre il fiume, /mentre il filo d’erba trema /tra pala e pala della falciatrice” (Colpi, Dal fondo delle campagne). Il vento della vita che investe il viso è “tutt’uno di rapina / e di morte” (Caccia). Nel libro poetico Dal fondo delle campagne le donne nelle case, i contadini, le mura, le strade, il giorno, la luce, il gelo, le voci dei trapassati, dei presenti, dei migrati vanno a comporre un pensiero dell’esistenza nel quale dolore ed esultanza sono il respiro di quella sospensione tra l’avvenire e l’essere, di quello stare sulla terra dell’attesa, ed è questa condizione sospesa, inconciliata e tuttavia attenta a sorprendere i segni, che può recidere “il duro filamento d’elegia” : “ E seguita, /seguita a pullulare morte e vita /tenera e ostile, chiara e inconoscibile” (Dalla torre). I versi di Su fondamenti invisibili, slargando una dizione narrativa, dilatano anche l’orizzonte di questa tensione della vita verso un punto che è oltre il visibile dell’esistenza, verso un principio che è insieme enigma : “vita fedele alla vita /tutto questo che le è cresciuto in seno /dove va, mi chiedo, /discende o sale a sbalzi verso il suo principio…” (Vita fedele alla vita). Movimento verso il principio, ma allo stesso tempo gloria di un apparire che mentre si mostra nella molteplicità di riverberi e di forme non cancella l’origine : “il punto vivo, il punto pullulante dell’origine continua” (Nel corpo oscuro della metamorfosi). E in quella discesa nel gorgo dell’esame di sé che è il viaggio nell’ India, nella gloria e nella povertà dell’India, quel che si mostra “tra sapienza e oscurità”, e persino nello sguardo degli animali, quel che si mostra è in fondo la “ruota trionfale di rinascita e estinzione” (Il gorgo di salute e malattia).
L’accadere nella poesia di Luzi è come sorpreso nell’atto stesso dell’apparire, ed è come se nella forma dell’apparire, il primo riverbero a mostrarsi sia il tempo. Il tempo materia stessa del visibile, ma anche del suo oltre : l’annuncio, l’attesa, il già stato, i modi del ricordo e della visione, il presagio e le venature destinali che appaiono nel fluttuare delle esistenze, tutte queste stille e faville del tempo costituiscono il ritmo del vivente : la sua orfanità, il suo legame con gli altri viventi, l’angustia della finitudine e la letizia creaturale dell’appartenenza alla physis, il senso del fuggitivo e il senso della terra (quel senso della terra di cui il poeta già diceva nelle pagine raccolte nell’ Inferno e il limbo), tutto questo è fatto di tempo, è lingua del tempo, enigma del tempo. Non c’è in Luzi l’antico epicureo invito a distrarsi dall’assillo del tempo, a sospendere la sua spina, ma c’è lo stare agostiniano nella regione sconfinata dove il tempo è corpo, memoria, angustia, attesa, desiderio, caduta, addio, annuncio, promessa, transito. Animali, pietre, acque, nuvole, vento sono tempo. Il nome è tempo. Da qui la mirabile tessitura, in tutta l’opera di Luzi, di una poetica del trascorrere, di cui il fiume, i fiumi, sono la grande assidua e vivente figurazione. Il tempo che, quasi materico e visibile, nei versi di Villaggio cadeva (“Giù dagli alberi cade tempo”) e che si opponeva all’essenza ( “Il tempo adduce e porta via le forme, / il tempo ci dà vita e ci distrugge / mentre immobile vigila l’essenza” ), nei versi di Per il battesimo dei nostri frammenti e di Frasi e incisi di un canto salutare è sostanza stessa dell’apparire, forma del paesaggio, ritmo del vivente : per questo il fiume o la rondine, il guizzo del pesce nelle acque o il volo dell’uccello, sono figure dell’esistenza proprio nel loro movimento che non abolisce la relazione con l’origine (si veda la presenza della sorgente nell’atto del trascorrere, nei versi che cominciano S’aprì acqua di roccia), né attenua la tensione verso la foce, e soprattutto il sentimento di un’appartenenza alla natura, al grande codice. Sono sillabe di quella lingua, scaglie di quel principio, che è poi lo stesso cui appartiene l’uomo. Per gli animali e gli elementi naturali così presenti nella poesia di Luzi non vale né una lettura simbolica, tanto meno una ricerca del correlativo oggettivo, e neppure quell’antica, patristica e poi auerbachiana lettura della figura, della sua funzione di umbra futurorum. La stessa parola allegoria contiene un’astrazione con quel rinvio a un’alterità che in qualche modo trascende e rende opaco il visibile. Mentre per Luzi la poesia tende ad ospitare la luce del visibile, la trasparenza del visibile nella quale trema quell’orizzonte che non ha più lingua, quel silenzio che è, hölderlinianamente, la sorgente della lingua, quell’enigma che non si scioglie nel sapere, insomma quella “vita”, quella “vita soltanto” che è davvero pienezza dell’apparire, presenza pulsante della physis.
Il passaggio e la leggerezza sono due figure assidue e intensive del pensare poetico di Luzi. Il passaggio : con l’alone di una teoresi cristiana nella cui storia c’è certo la peregrinatio dantesca, ma ci sono anche i riflessi di una rappresentazione della viandanza e del camminamento per Appennino, e del nomadismo e del viaggio esposti all’inatteso e all’apparizione, alla grazia dell’oasi e della sosta ma anche alla minaccia della tempesta, dell’impedimento. La leggerezza : con il rinvio all’idea, o al sogno, di una corporeità libera dalla pesanteur di una civiltà che atrofizza e intorpida i sensi e imprigiona il desiderio (e qui certo sia Leopardi sia Baudelaire potevano agire sottotraccia). Due elementi, l’acqua e l’aria -senza alcuna affinità, credo, con la bachelardiana “imagination matérielle”- sono privilegiati in questa rappresentazione. L’acqua, ovvero il fiume, cioè il passaggio; l’aria, ovvero gli uccelli, cioè la leggerezza. Su queste due figure –di poetica, di teoresi- vorrei concludere, soffermandomi su alcuni versi.
Nella descrizione del fiume l’elemento visibile, sempre corporeo –la pelle e il vento, il greto e l’argine, il trascorrere e l’inaridirsi, il gonfiarsi e il perdersi, il balenio della luce e l’oscuro del gorgo – è certo colto in tutti i suoi riflessi nei versi del poeta (Luzi è il poeta del fiume), ma l’ ekphrasis fluviale sfiora i sovrasensi : “sfolgora la città disfatta in acqua, /ne brucia di felicità la mente quasi possano /un attimo, uno solo, / accaduto e inaccaduto rifondersi” , leggiamo in una poesia di Al fuoco della controversia. Ma a imporsi alla vista è poi, sempre, la fisicità vivente, il corpo sapiente di un elemento che “si pasce di sé”, “bruca /serpeggiando”, “si trascina già ai suoi putridi ristagni” e rinasce ed entra “uscito dalle sue ceneri/ nei luoghi dove opera la primavera”. (Fiume da fiume, in Per il battesimo dei nostri frammenti). Ed ecco il dialogo dei sensi tra la trota e il fiume, tra la “massa ventosa, /torpida, fremente” dell’acqua e la trota che “non ha conoscenza / se non dell’elemento” : una fedeltà alla corrente, una “memoria ondosa” che è tutt’uno, con lo svariare e trascorrere dell’acqua, sapere e non sapere che è vita ( Trota in acqua, in Per il battesimo dei nostri frammenti). E quanto alle creature dell’aria, della leggerezza, e della leopardiana armoniosa “vista dall’alto” (pensiamo all’operetta Elogio degli uccelli), proprio nella loro figurazione il poeta richiama con grazia ed energia il seno dell’appartenenza al codice della natura, a una memoria che è della specie (“l’albero di sapienza della sua famiglia”), a quella felicità che forse per lei, per la pernice o la rondine, “è vita soltanto (Per lei vita soltanto).
Ne La pernice il movimento è seguito nel suo vortice, nei suoi balzi, nelle sue oscillazioni, nei suoi ritorni, direi nei suoi sensi, perché difatti è un movimento, un volo, che insieme appartenenza alla sapienza della specie e percezione dell’essere nell’aria, di sfiorare gli elementi ( “sentore / di bacca e di salsedine”). Inoltre è relazione con lo sguardo e il sentire dell’uomo : “ci sfida / in un delirio /di abisso e di profondità”. Il volo è un internarsi (anche quel “s’interna nella sua genia” ha sapore dantesco) in un dominio che è insieme libertà e necessità (“lo deliba anche lei come elisir /di libertà e necessità”). Anche in questa apparizione così impetuosa e viva l’interrogazione del poeta, dubitando che non sia il nostro sentire a sovrapporsi al sentire animale, accenna, ancora sospensivamente, ancora dubbiosamente, a quel principio nel cui orizzonte “un pensiero pensa per tutti”, un pensiero muto, “non fosse qualche canto / d’amore che si leva/ di tanto in tanto”. La rondine, che “salita incontro alla pioggia” appare nei versi di Al fuoco della controversia torna in Essere rondine , cuore di una moltitudine, respiro che insieme è dell’individuo e del gruppo (“Sgorgano / l’una dall’altra /esse, traboccano/fuori dal loro caldo gruppo, l’una /dopo l’altra, disfano / le loro rapide pattuglie”. Ma questo “zampillo ricadente”, questo “guizzo /di compresa fiamma” vive nella sapienza di un limite, accade nel “perimetro” di un campo aereo, nel tempo e spazio di un’energia, nell’impeto che sa l’argine, nel “vorticare /della vita dentro i suoi recinti”. Le immagini dello zampillare, della fontana se hanno traccia della visione dantesca, uniscono l’elemento della sorgente con quello del movimento, l’atto vitale con la sapienza, l’appartenenza alla specie con un pensiero che è azione, volo, la leggerezza con l’armonia. Anche per l’altra rondine, “assetata di chiarore”, che appare nella sezione Il corso dei fiumi (in Frasi e incisi di un canto naturale) ricompare il domandare dell’uomo, chiuso nel suo orizzonte : quel suo salire della rondine e spaziare “nei cieli disertati / dopo i gridi e la battaglia”/ , quel “desiderio /di altra luce /e pace” è elemento del nostro sapere, il dilemma sulla sua sofferenza o esaltazione appartiene al nostro orizzonte. Dall’altra parte non c’è che il silenzio della risposta al nostro domandare. Ma quel silenzio affonda in un principio, in un dettato. È questa soglia estrema che si mostra al domandare del poeta. La poesia è questo cammino verso l’enigma, e lungo il cammino l’esperienza di un paragone assiduo tra il pensiero dell’uomo e il pensiero della natura, tra il nostro vedere e l’essenza che è respiro dell’apparire. La poesia è la meravigliosa ospitalità dei riverberi che muovono da quell’essenza, e che sono luce, forma, parola.
[Relazione letta a Milano, Centro culturale “Alle Grazie”, Basilica di Santa Maria delle Grazie – Sala S. Domenico, il 20 marzo 2014, nel Convegno di studi Viaggio terrestre e celeste di Mario Luzi, nel centenario della nascita.]