di Antonio Errico
In ogni tempo e in ogni luogo, gli uomini hanno determinato le forme e i significati delle culture e delle civiltà che, a loro volta, hanno determinato il modo di essere degli uomini, i loro pensieri, le loro parole, le loro azioni, i sentimenti e le percezioni, l’immaginario e le relazioni con il reale e con il fantastico, con il tempo, con lo spazio. Hanno finanche conformato le loro emozioni, i loro sogni. Ma prima di tutto, gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, hanno cercato i modi e i mezzi per esprimersi, dirsi, raccontarsi, intendersi, comprendersi. Forse, nei processi di comunicazione non c’è mai nulla di nuovo, in fondo, se non il modo e il mezzo. Quello che conta veramente, il sostanziale, si ripropone con innumerevoli varianti e rappresentazioni, comunque conservando la profondità del senso, l’essenzialità.
L’essenzialità del comunicare, del mettere in comune, del generare comunione, consiste nella ricerca di tutti i possibili espedienti per non essere soli. Ma nel tempo che viviamo questa ricerca a volte subisce l’interferenza di contraddizioni, di fratture, di insospettate distorsioni. Forse una tale interferenza si sta verificando nei contesti e negli aspetti della comunicazione digitale. Forse la comunicazione digitale non sta mettendo in comune, ma sta separando, sta creando solitudini esistenziali.
In un saggio che s’intitola Le parole che ci salvano, Eugenio Borgna si domanda quale sia il tempo della comunicazione digitale. Certo non è il tempo di cui parlava Agostino, strutturato sulla circolarità fra il presente, il passato e il futuro. E’ piuttosto un tempo che vive in un presente intessuto di istanti, di frammenti, che sono gli uni accostati agli altri, gli uni staccati dagli altri, in un presente che non ha storia, non ha passato, e non ha speranze, non ha futuro, in un presente che è di volta in volta risucchiato nel flusso ininterrotto di comunicazioni che nascono e muoiono, rinascono e scompaiono, senza lasciare tracce durature nella nostra vita interiore e nella nostra memoria vissuta. Il tempo della comunicazione digitale, nelle sue vertiginose dissolvenze, non consente facilmente riflessioni e meditazioni, rielaborazioni e ripensamenti, che richiedono tempi distesi, pause e dilatazioni impossibili nei tempi veloci, anzi velocissimi, delle informazioni digitali. Queste compaiono per un attimo sullo schermo, e poi scompaiono, trascinando con sé risonanze sempre diverse, e non di rado le une in conflitto con le altre, le une inconciliabili con le altre. Il tempo digitale insomma scorre come acqua da una cascata, e lascia appena il tempo alla sua istantanea percezione, e alla sua conseguente sparizione.
Non è facile parlarsi in questo deserto, dice Borgna. Se non è facile parlarsi, è impossibile comprendersi.
Il deserto, dunque. Potrebbe essere questa la metafora della condizione alla quale ci stiamo destinando. Un universo di voci che parlano, urlano a se stesse senza che ci sia qualcuno che le ascolti. Voci che si disperdono, che vanificano il proprio messaggio, che divorano se stesse, che non lasciano traccia, non producono effetti di comunicazione, cioè non mettono nulla in comune, non creano comunione di significati. Voci rigide, glaciali, inanimate, che a volte non si associano ad un volto di creatura e quindi non hanno identità. Ci stiamo destinando ad una esistenza nel deserto, nel quale tempeste di parole privano ogni parola della sua significanza, cancellano l’orizzonte e confondono le direzioni, ci separano dall’altro e ci costringono ad una più o meno consapevole solitudine, forse senza scampo.
In un libro di vent’anni fa – Solitudini. Memorie di assenze– Paolo Crepet parlava di un paradosso della contemporaneità.
Scriveva che nessuno ha mai posseduto tanti mezzi di comunicazione quanti sono quelli che possiede l’uomo di questo tempo, ma che mai come in questo tempo è stato così difficile comunicare. Recentemente Crepet ha ripreso questi temi in Baciami senza rete. In un passaggio del libro, si interroga su come potrà essere la vita di un bimbo che si ritrova a scrutare soltanto l’orizzonte di un tablet, se quel bimbo potrà usare la vista in tutte le sue funzioni. Il nostro apparato visivo, scrive, è tarato sull’infinito, non sulla distanza di pochi centimetri dalle orbite. Si domanda se quel bimbo potrà mai diventare un cacciatore di orizzonti; se potrà mai esercitare il suo apparato emotivo non avendo il modo di basarsi sui colori.
Il deserto comincia a questo punto, probabilmente. Non è una condizione a priori e non è uno spazio sconfinato. Comincia quando si azzera l’orizzonte, e l’orizzonte si azzera quando del digitale si fa un uso sconsiderato, quando diventa esperienza di un abuso. Accade per tutte le esagerazioni, per tutte le esasperazioni.
Il problema, allora, non è nello strumento ma nell’uso che se ne fa.
L’uso sconsiderato di qualsiasi strumento, codice, linguaggio, provoca squilibri. Accade anche con i libri. L’hidalgo Alonso Quijano si trasforma in Don Chisciotte della Mancia per la follia provocatagli dalla lettura smaniosa dei romanzi di cavalleria.
Il deserto comincia quando l’orizzonte si fa uniforme e piatto. Quando tutto il mondo si restringe nello spazio di uno schermo. Sullo schermo scorrono gli oceani e le vette più alte dei monti. Attraverso uno schermo si può entrare in ogni museo e addentrarsi nei boschi. Si può vedere la luna da vicino, seguire le rotte di ogni conoscenza, e parlare con amici di cui non si conosce il volto. Si ha l’impressione di possederlo, il mondo; ma il mondo che si possiede non esiste per davvero.
Il deserto comincia a questo punto: quando si spezza la relazione con il reale e l’immaginario artificiale, artificioso, per tutti uguale, sostituisce subdolamente l’immaginario autentico, personale, che non si può replicare. Comincia quando il principio e il fine, il movente, il motivo, il processo della comunicazione si snaturano e non mettono più in comune un sé e un altro ma confinano ciascuno in una bolla colorata isolata dalle innumerevoli altre bolle colorate in cui altre creature galleggiano nelle loro irreparabili solitudini. Anche se basterebbe poco per salvarsi. Basterebbe spegnere il computer, il tablet, il cellulare, e uscirsene per la strada, e parlare con il primo che passa.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 29 marzo 2017]