di Antonio Montefusco
L’idea di un profilo di Luigi Scorrano dantista è nata, quasi contempo-raneamente, nella testa di Giuseppe Caramuscio (curatore del volume in onore del suddetto) e nella mia, nel lungo scambio volatile delle lettere elettroniche cha hanno accompagnato la preparazione di questo Festschrift dedicato, ahi quanto meritatamente, a Gigi. Quindi, sembrerebbe piuttosto da invocarsi un certo, vago pentimento, tipico di chi si accorge, a metà del guado: in che acque mi sono cacciato. Per colpa mia, per giunta! Mi sia di scusa non solo la vanità narcisistica che caratterizza un po’ tutti gli studiosi, ma piuttosto l’entusiasmo che ho percepito crescente, rispetto a questo momento culminante della carriera di Scorrano uomo e studioso. Culminante, per carità, non finale: ché io ne porto testimonianza grazie all’eccitante impresa che il Nostro ha appena prodotto: una monografia su Ludovico Ariosto, fresca di stampa per i tipi romani di Ediesse, che ho avuto l’enorme fortuna di seguire passo dopo passo, tra scoramenti e discussioni, tra bozze e copertine e apparati iconografici. Ci sono momenti di una bellezza sfolgorante, in rapporto intellettuale, seppure sbilanciato, com’è quello fra maestro e allievo: di questo serberò per sempre memoria. Come quei momenti in cui l’urgenza di conoscere è come una caccia infernale, da cui solo la mano e la forza dell’esperienza possono liberarti con fare materno. Un po’ come Virgilio, quando salva un Dante impaurito dalle zuffe dei demoni, portandolo sulla spalla nel fossato negli ipocriti in Malebolge: «Lo duca mio di sùbito mi prese, / come la madre ch’al romore è desta / e vede presso a sé le fiamme accese, / che prende il figlio e fugge e non s’arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia vesta». Un gesto materno, dunque, urgente: ma la maternità, nel mondo religioso medievale, è più di una metafora. Indica, invece, le inquiete strade del governo materiale, ciò che fa ordine e governa: proprio come Francesco d’Assisi, quando invoca «sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa». Maternità, pedagogia e governo civile, si sa, vanno di pari passo.
Sta qui la mia inadeguatezza: è, per me, defatigante e difficile affrontare l’opera di Scorrano da una sola angolazione. Assidua, preponderante anche, se si vuole, ma non tale da esaurire la vena dell’impegno intellettuale dell’autore, che sappiamo proiettata felicemente su un ventaglio ampio, ampissimo, non solo di impegno scientifico, ma di impegno tout-court, totalizzante. Certo la cultura – lo dico senza virgolette – ne è senz’altro la cifra unificante e caratteristica – ma non in un modo che ne decurta e diminuisce la politicità, tutt’altro. Nell’uomo Scorrano, la comunità cittadina è stata il terreno di un intervento continuativo, in cui letteratura e istituzioni si sono mescolate in una sintesi irripetibile. Senza tema di smentita, direi che Scorrano è stato, per Tuglie, quello che Brunetto Latini ha costituito per Firenze: « gran filosafo, e … sommo maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare», come dice Villani del cosiddetto maestro di Dante. Poco più in là, sempre lo stesso Villani aggiunge: «Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch’egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e farli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica». Non credo di esagerare, quando dico che Scorrano ha svolto, per Tuglie, un ruolo assai simile al notaio Brunetto per Firenze: ha proposto e tentato di realizzare, dentro e intorno alle istituzioni, un progetto pedagogico-politico destinato all’intera cittadinanza, spesso senza distinzioni di ceto né di colore politico.
Utilizzo l’esempio di Brunetto Latini non solo per la comunanza di interessi, medievali e fiorentini, che mi lega a Scorrano, ma anche per un motivo interpretativo, serio per dir così. Brunetto, infatti, che fu attivo a Firenze con ruoli pubblici nella seconda metà del Duecento, è il miglior rappresentante di una particolare condizione che si realizzò nell’Italia comunale del Duecento, un febbricitante laboratorio culturale e sociale dove il mondo medievale si trovò ad essere profondamente rielaborato e trasformato, incubando nuovi stimoli che avrebbero condotto a rivoluzioni come quella dell’Umanesimo e del Rinascimento. Ebbene: nell’Italia di questo periodo, e in particolare a Firenze, questa condizione si trovò a essere realizzata in gran parte al di fuori delle cornici istituzionali solitamente deputate alla circolazione dei saperi superiori (in particolare, la teologia). Gli intellettuali dell’epoca di Brunetto, nella generazione precedente a Dante, erano appunto intellettuali pragmatici, impegnati nel governo del Comune e non nell’insegnamento universitario: era spesso parte di équipe itineranti, composte da giudici, notai e cavalieri, che univano i vari spazi cittadini in una rete istituzionale intricata ma felice, perché intrinsecamente libera dall’apparato di controllo, se non proprio di cattura, costituito dalla Chiesa. Le Università subivano sempre di più questo controllo: e infatti, nel 1277, il vescovo di Parigi vietò una lunghissima serie di tesi filosofiche, discusse soprattutto alle cosiddette facoltà delle Artes (dove si insegnava, appunto la logica). Il risultato di questo soffocamento fu una vera e propria diaspora di filosofi innovativi, che discutevano le tesi di Aristotele sbarcate da (relativamente) poco nel contesto dell’Europa latina.
In gran parte, questi filosofi pullularono e portarono con loro le loro tesi e i loro testi, in particolare nell’Italia centrale e settentrionale, dove l’assenza di un sistema universitario e il vivace contesto politico dei Comuni consentiva un’inedita libertà di espressione, di mescolamento e di ibridazione. È quella che gli specialisti di filosofia medievale chiamano la “filosofia dei laici”, ed è in questo contesto che Brunetto diventa centrale: perché con la sua opera di traduzione e di disseminazione di questi nuovi stimoli permise a Firenze di diventare il paesaggio intellettuale che fu: senza quest’opera di “digrossamento”, come dice Villani (che – attenzione! – qui gioca anche con i termini della filosofia) esperito soprattutto sul terreno delle istituzioni e della politica, non sarebbe stata possibile la Firenze di Dante e Cavalcanti. E forse, diciamolo pure, l’Europa che conosciamo. Quando diciamo, dunque, che Brunetto fu “maestro” di Dante, allora bisogna stare attenti, perché parliamo di un fenomeno non istituzionalizzato: non di “banchi” e “scuole”, ma di gruppi informali, di discussione e scambio, di cenacoli non rigidi, in cui il Latini trasmise nuovi testi e nuove domande. Chi conosce Scorrano, avrà ritrovato uno scenario noto: la capacità di rendere la sua casa un crocevia di discussione e insegnamento, di proiettare nella città – anche nella sua attività di Assessore alla Cultura – progetti e domande, che poi, talvolta, hanno camminato da sole.
Scorrano è un laico del Novecento. Uso “laico” nella sua accezione medievale, cioè, essenzialmente, illetteratus e non, come abbiamo visto, per mancanza di letteratura, quanto perché al di fuori delle strutture della Ecclesia che, in quei tempi, coincideva pressappoco con l’intera civiltà. La constatazione tanto più interessante, quando ci si pone di fronte all’uomo: che aveva tutta la stoffa dell’accademico, ma che – per scelta? – accademico non fu mai. Un magistero, dunque, integralmente e coerentemente giocato al di fuori, in un contesto se si vuole periferico ma senza scelte di minoranza, tutt’altro. Nei suoi saggi, Scorrano è un universitario, un italianista a tutto tondo: discute coi colleghi, viene abbondantemente citato ed è conosciuto ben al di fuori dei confini italiani. Non so dire che cosa ci sia dietro e sotto questa esperienza, così singolare d’altronde nel Novecento dell’affermazione dell’Università di massa: umiltà o identità intellettuale di frontiera, Scorrano è davvero un interessantissimo caso di storia intellettuale dello scorcio del Novecento e dell’inizio del nostro millennio.
Ho toccato velocemente l’elemento dell’identità intellettuale di frontiera e della sua perifericità, poiché implica un aspetto, che, finalmente, ci porta al tema che è oggetto di questo articolo: gli studi danteschi di Scorrano. Essi, infatti, non nascono in maniera isolata, ma si inseriscono solidamente in una tradizione ben definita seppure accidentata. Chiamiamola, per comodità, quella del “dantismo salentino”. Per quanto non ritenga di grande efficacia o penetrazione, soprattutto in ambito letterario, le etichette regionali, questa mi pare in verità di qualche utilità proprio perché ha a che fare con una regione che caratterizzata da una spiccata perifericità. A prescindere dalle radici storiche della questione – e anche da quelle linguistiche –, la cultura salentina si caratterizza in maniera lampante per aver trasformato questa condizione, materiale, geografica e in parte culturale, in un punto di forza: ne è esempio, anche, una tradizione di studi che, anche se non incentrata sulla salentinità del tema, si caratterizza per una certa omogeneità o direi compattezza di approccio e di piste di ricerca.
Quando parlo di “dantismo salentino”, penso ovviamente alla triade costituita da Mario Marti, Aldo Vallone e Enzo Esposito. Si tratta di tre nomi, in realtà, che appartengono alla comunità degli studi danteschi tout court e nei cui studi dedicati a Dante, sarebbe difficile rintracciare effettivamente una qualsivoglia traccia di identità regionale; tuttavia, come detto, c’è un filo comune che evidentemente li accomuna nella diversità e che ci può essere utile a definire con più esattezza il profilo dello Scorrano dantista.
Il triumvirato, innanzitutto, lavorò su un terreno quasi inesplorato in Puglia: fu dello Zingarelli la constatazione, nota anche perché ripetuta dallo stesso Vallone, di una scarsissima fortuna dello studio del nostro maggior poeta nella regione: sfortuna, dunque, che durò fino a metà secolo, e alla quale la fondazione dell’Università salentina ebbe sicuramente a dare una svolta notevole. Appunto, grazie allo sforzo congiunto e parallelo, dei tre docenti universitari, che a partire dagli anni ’30-’40 iniziarono a intervenire robustamente sul tema. Il “dantismo mancato”, secondo la formula felice di Scorrano, si trasformò, dopo una lunga incubazione durata fino all’anno fatidico 1965, in dantismo militante, corposo, continuativo e integrale, con una sua eredità, ormai, davvero notevole e sparsa per le università meridionali.
Tenendo presente le diverse sensibilità degli studiosi, direi che si possa vedere, nei loro inizi, un tratto comune alla ricerca del dopoguerra italiano nel campo degli studi letterari: un tentativo di uscire dalle secche della critica ideologica, di cui, durante il ventennio si erano visti gli effetti micidiali soprattutto nella cultura scolastica e di massa. Su Dante, padre della Patria, questo speciale fardello aveva tra l’altro degli addentellati di qualche importanza, visto l’ancoraggio della sua lettura alla rivalutazione che l’Alighieri aveva subito durante il periodo risorgimentale. Se questo è il quadro generale, le strade percorse dagli studiosi furono differenti, ma lo strumento fu, tutto sommato, unitario: si trattava senz’altro dell’approccio al testo dantesco – ma in generale all’Estetica – fornito da Benedetto Croce. Questo strumento, che, durante il Fascismo, era stato uno degli antidoti agli eccessi citati, sarebbe poi stato poi sottoposto a modificazione: nuovi stimoli si affacciavano nell’ambito della ricerca letteraria. Ma Croce, seppure pian piano scalfito dall’interno, diede una certa unità e un aspetto peculiare alla cultura italiana del dopoguerra: la sua filosofia, come ha mostrato lucidamente Contini, fu una cassetta degli attrezzi utile anche quando la si superava lentamente, dall’interno, tramite un’erosione che apriva felicemente la ricerca a impulsi soprattutto d’oltralpe.
Anche Marti, Vallone ed Esposito partecipano a loro modo a questa lenta erosione, da una parte sdrammatizzando compiutamente l’idea dell’individualità poetica dantesca, dall’altra aprendo il grandioso cantiere della posterità di Dante, della sua fortuna attraverso i secoli. Saranno soprattutto Marti e Vallone a lavorare, con successo, a un allargamento contestuale che giustifichi e spieghi la poesia dantesca, in maniera complanare ma parallela (in qualche maniera, direi, alternativa). Lo svolgimento della pista di ricerca è differente, in altri termini: Vallone ha profondamente lavorato sullo sfondo ideologico-storico, in cui Dante non è più individuo di immediata produzione poetica, ma protagonista particolare, mentre Marti ha disegnato con cura i dintorni culturali, e specificamente letterari e poetici, all’interno del quale (e in continuo confronto con esso) si sviluppa la poesia dantesca. In quest’ultimo, tuttavia, il finalmente robusto approccio filologico risulta mediamente avulso da qualsivoglia dimensione civile che invece nel Vallone diventa questione centrale, di spiegazione ma anche di interpretazione. Non nel senso, tuttavia, di lettura ideologica – richiamerei piuttosto quella che oggi definiamo Intellectual History – ma piuttosto di una caratteristica che lo studioso scopre cruciale nell’universo dantesco, ovverosia la continua tensione fra l’uomo storico e l’ideale. Si tratta, in realtà di felice trouvaille, già impostata definitivamente nel Dante vallardiano, nei termini di un conflitto costitutivo tra l’uomo di Dante e il Dante uomo, che avrebbe trovato il suo più compiuto svolgimento nel Dante medievale.
Sull’altro versante, senz’altro la rimessa in circolo di strumenti pertinenti anche alla filologia, che come detto sono maneggiati con competenza soprattutto da Marti, si inseriscono in un contesto di fuoriuscita dal crocianesimo, visto l’inappellabile condanna che sulle scienze ausiliarie pendevano per bocca del filosofo; così, anche le ricerche di bibliografia di Esposito, permettetemi di dire di grande modernità e ineguagliate – nonostante i mezzi informatici – sono in gran parte il frutto di un allargamento innovativo. D’altronde, era stato lo stesso Vallone, completando la bibliografia dantesca della Vita dello Zingarelli – illustrissimo precedente nella medesima casa Vallardi – ad aprirlo, per poi svilupparlo nella monumentale Storia della critica dantesca. Si respira continuamente aria di famiglia tra le schede di Esposito e la Storia valloniana: ciò che però mi interessa sottolineare è, soprattutto, la novità di un impianto che procedeva a decorticare un mito patrio, storicizzandolo integralmente. In altri termini: se ragioniamo astrattamente in termini di sviluppo della mitologia dantesca, e del suo ruolo risorgimentale e postrisorgimentale, lo stesso gesto di studiarne lo sviluppo ne produceva, di per sé, una demitizzazione, ne faceva emergere i vuoti, le incongruenze, i conflitti di mentalità.
Essere crociani senza essere crociani: alla svolta del centenario dantesco del 1965 l’intellettualità salentina rappresentata dai questi tre giganti si presentava agguerrita e novatrice, in fecondo dialogo, cioè, con la fuoriuscita dal crocianesimo che anche le altre discipline umanistiche stavano felicemente esperendo, ma con un portato del tutto peculiare: filologico, ideologico, radicalmente storicistico. Era dunque un essere crociani senza essere crociani del tutto alternativo alla linea che si andava imponendo negli studi danteschi e saldamente in mano, proprio intorno al centenario dantesco, del filologo romanzo Gianfranco Contini. Il quale, da par suo, proponeva una strada un po’ differente: una strada nella quale emergeva una nuova centralità del testo e delle sue strutture, che faceva ampiamente decadere l’esigenza di parlare del contesto, che veniva confinato al contorno. Nel paradigma di Contini, tutto in qualche maniera si raggrumava nel fatto linguistico: l’impegno di Dante è un impegno tutto linguistico, diceva Contini a una intervistatrice della Radio di Montrèal. Ciò che permetteva allo studioso di collocare la Commedia al crocevia di fili letterari che portavano al Novecento (e soprattutto alla linea sperimentale di Gadda) e all’Europa (dal medievale Roman de la Rose a Proust, grosso modo).
Per comprendere esattamente il percorso di Scorrano dantista, bisogna tenere presenti queste due linee contemporaneamente, quella diciamo così (e per pura comodità, come abbiamo visto) locale e quella invece nazionale. Pur dotato di una sua peculiarità che si intravede già dalla scelta del tema della laurea (D’Annunzio: tema complesso e vischioso quanti altri mai negli anni ’60), il percorso dantesco di Scorrano comincia in maniera retrospettiva: non dal testo medievale, ma da quello contemporaneo, novecentesco. Certo: a prima vista, ciò potrebbe sembrare una scelta tutto sommato in sintonia con l’approccio del maestro alla prospettiva della fortuna del poeta. Ma in realtà, Scorrano è parte di quegli intellettuali e studiosi che a malavoglia si impicciano di approcci teorici e storia della critica: per Scorrano l’elemento principe è il testo, la letteratura. Ebbene, gli studi danteschi privilegiati nella prima fase di attività del critico sono poeti e scrittori tra Otto e Novecento – con qualche sconfinamento rinascimentale e barocco – di cui si interroga il tessuto stilistico per accedere a uno degli elementi che si rivela cardine nel laboratorio dello scrittore: la parola e il costrutto dantesco.
La presenza verbale di Dante, come recita un titolo di un fortunato libro che è anche, ormai, solido punto di riferimento nella letteratura critica del Novecento, è, in altri termini, il modo scorraniano di interrogare la letteratura novecentesca. Direi una certa letteratura del Novecento, ma non è qui in argomento la letteratura contemporanea, che lascio senz’altro agli specialisti. Dico, innanzitutto, che questi studi vanno guardati innanzitutto come approfondimento della lingua letteraria novecentesca, di cui viene scrutata, analizzata empiricamente, e sviscerata con intelligenza una fascia che, direi, si può definire tradizionale e alta. La constatazione, così come l’idea, non è banale, tutt’altro: se pensiamo a autori come Dino Campana, oppure come Testori, che proprio in linea tendenzialmente antiletteraria hanno lavorato e plasmato lingua e stile, auscultare questa fascia della produzione degli scrittori significa entrare nel campo della storiografia, proporre linee di genealogia innovative. Così per Campana la Commedia è una struttura organizzativa della materia esplosa dei Canti orfici mentre in Testori è una fonte inesauribile di parodia: criterio, dunque, d’ordine o di rovesciamento, Dante è il punto di confronto con la tradizione letteraria.
Ora: non è chi non veda, in questo approccio, qualcosa di particolarmente vicino all’analisi sperimentale, alla scelta tematica e ai risultati analitici di Contini: anche, direi, nella storicità interna del metodo. Mi spiego: in Contini non vi è solo un percorso che procede dalla produzione di critica militante rivolta alla letteratura del Novecento che si alternerà in maniera sempre più fitta con l’oggetto di studio dell’accademico, e cioè le scritture medievali; c’è anche un vorticoso progetto che porta il critico a indagare il testo di alcune esperienze letterarie otto-novecentesche, di carattere sperimentale, come Faldella e Gadda soprattutto, che lo inducono a rintracciare la genealogia di una linea letteraria su su fino a Dante, anzi, come abbiamo visto, Dante come progenitore di questa linea plurilinguista (opposta alla monotonia selettiva di Petrarca e della sua enorme filiazione). In Scorrano, il grumo temporale è praticamente identico: da D’Annunzio a Bevilacqua, così come simile l’attenzione alle pieghe del vocabolario; ciò che cambia è, tuttavia, lo spettro dell’esperienza. In Contini, il filologo romanzo, che è studioso delle letterature europee, proietta la propria analisi sull’ampio raggio delle opere anche al di là dei confini italici; in Scorrano, non vi è diminuzione e provincialismo, tutt’altro. C’è un progetto – non so quanto cosciente – di rilettura a tappetto della letteratura novecentesca sotto la specola di Dante.
Ovviamente, ciò comporta una prima differenza con il filologo: che è il presupposto di una danteità complessiva della modernità letteraria, e non parziale e stilisticamente selettiva. Ciò dà ragione, diciamolo onestamente, a Scorrano ben più che a Contini, le cui categorie di plurilinguismo e pluristilismo risultano, in verità, paradossalmente poco a fuoco: dà ragione a Scorrano anche l’idea che l’identità della scrittura, fino all’esplosione della letteratura a cavallo tra anni ’80 e ’90, comprende inevitabilmente, anche nelle esperienze più anticonformiste, una linea di ancoraggio alla tradizione. Ché poi, quella tradizione si incarni in Dante è fortuna tutta italiana, perché colloca la lingua poetica in continuo interscambio con il linguaggio comune: non dimentichiamo che quasi un quinto del nostro vocabolario di tutti i giorni è ancora dantesco, come calcolò Tullio De Mauro. Il che la dice lunga sia sulla letterarietà della nostra costruzione di identità nazionale, ma anche sull’enorme ventaglio lessicale maneggiato e trasformato dal nostro maggior poeta.
Significativa la quasi essenza dello sperimentalismo più esibito, di prima (i futuristi) e di seconda avanguardia (i novissimi): segno di gusti letterari personali, senz’altro, ma altresì segnali di una linea che si veniva esaurendo proprio basandosi sul rifiuto della tradizione. Ebbene: la ultramodernità che viviamo si basa più su queste esperienze che sulla linea maggioritaria – ripeto: non classicista, ma piuttosto sperimentale non d’avanguardia – che è l’oggetto di una presenza verbale dantesca che ne costituisce anche la cifra unitaria.
Sintesi non voluta o piuttosto aggiornamento all’air du temps (atmosfera di cui Scorrano non subisce i dettami, ma, ricordo, contribuisce a definire), la coincidenza con il percorso continiano la riscontro anche nel passaggio dal moderno all’antico: nel passare, cioè, dagli autori del Novecento alla scrittura dantesca. Nella utile bibliografia inserita nel volume che presentiamo oggi, strumento utilissimo di cui, se mi posso permettere, rimpiango solo l’assenza di un corretto strumento di corrispondenza che segnalasse l’inserimento dei saggi nei volumi, ebbene in questa bibliografia, si nota immediatamente che l’immersione di Scorrano nella filologia dantesca avviene alla metà degli anni ’80, e coincide con l’impegno nel commento continuo al poema – poi riprodotto anche in forme più leggere, antologiche e critiche – steso insieme a Vallone e pubblicato a Napoli. A partire dall’indomani della pubblicazione del commento, l’impegno di Scorrano inizia a concentrarsi anche su tematiche più specificamente medievistiche e dantesche, che si realizzano nella forma classica della lectura, spesso performata alla Casa di Dante romana, o piuttosto della nota tematica. La raccolta più compiuta, in questo senso, è Tra il Banco e l’alte rote, pubblicato – come a ribadire quell’aria di famiglia di cui parlavo – dall’editore di origini salentine, Longo, di Ravenna.Si rivela immediatamente, in questo percorso à rebours, una compatta solidità e identità di metodo. Con Luzi e con Dante, il metodo è lo stesso: ascoltare il testo, percepirne le pieghe, sollevarne il velo stilistico e dare compattezza al caleidoscopio di personaggi. Attenzione: la chiave con cui si accede a quest’orizzonte di complessità è, di nuovo, la parola. Si tratta dell’ingrediente principale dell’artefice Dante, la sua peculiare modalità di organizzare il risentito viaggio nell’al di là, dai peccati infernali alla felicità paradisiaca. Si possono invocare diverse genealogie, per questo tipo di attitudine, e si farebbero nomi interessanti, e non invano. Non so quanto Scorrano apprezzi, e desideri, un incasellamento in alberi genealogici di tipo ermeneutico. Certamente, lo strutturalismo, nella variante italiana, laddove si sposò con la migliore tradizione filologica, hanno fornito il principale momento di riavvicinamento al testo nella sua cruda materialità di costruzione verbale. La traduzione italiana di De Saussure, come la filiazione nazionale del formalismo russo (che si sarebbe chiamata intertestualità) contribuiscono a collocare Scorrano in un quadro più ampio, di grande sintonia con il proprio tempo: si tratta di concreta e definitiva espulsione degli ultimi rimasugli di crocianesimo?
A me piace, piuttosto, riferirmi di nuovo a una concreta individualità della ricerca di Scorrano, che ha fatto emergere il metodo dalla lettura, con una certa distanza da incrostazioni filologiche e storico-semantiche. Si cercherà invano, nelle pagine scorraniana, tracce della storia delle parole così come praticate da uno Spitzer e da Curtius: qui si tocca un punto radicalmente di distanza rispetto alla presa che la filologia continiana possiede sugli studi danteschi fino agli anni ’80. La parola è per Scorrano individuata come atto di invenzione individuale: si incornicia nella letteratura come fatto linguistico e retorico, e tutti e due questi fatti sono attentamente spogliati dallo scrutinio del critico, ma resta un elemento non solo e non tanto di uso quanto di irripetibile battesimo. C’è qui un tratto di linguistica in parte evaporata nell’estetica che è, oggettivamente, risalente alla tradizione romantica (su su probabilmente fino a Vico); non sono assolutamente d’accordo, sia chiaro, ma il rischio di un’analisi frammentaria è smentita da una pratica di ricollocazione continua di quell’evento che rischierebbe di essere isolato. Il fatto più straordinario, e forse più affascinante, di quest’approccio, è proprio spogliare Dante – soprattutto la scrittura della Commedia – dell’aspetto cosale, reale, storico nel suo aspetto più grezzo.
Scorrano ha costruito, nella prassi, un’ipotesi sperimentale di continuità tra il medioevo di Dante e la modernità letteraria basata, appunto, sulla continuità di questo atto di invenzione. Si tratta, se si vuole, di un paradigma ottimistico, che ribatte alla tragedia che invece, proprio a cavallo degli anni di cui parliamo, segnalavano i filosofi francesi nel cuore della modernità. Basta richiamare il Michel Foucault di Les mots et les choses per sentire allo stesso tempo la sintonia e la discordanza di Scorrano con le inquietudini del suo tempo: Foucault individuava tra Cinque e Seicento la rottura di un paradigma di lettura del mondo, in cui il criterio ordinatore era la continua consonanza tra le parole e le cose. Questo ordine viene fracassato sonoramente dalle rivoluzioni scientifiche, ma anche dalla letteratura: la folle impresa di Don Chisciotte, incapace ormai di vedere la realtà dei mulini a vento e capace solo di trasfigurarla tragicamente nei draghi della letteratura cavalleresca dimostra da vicino questa tragica scissione. La modernità letteraria di Scorrano, sotto l’ottica dantesca, reagisce sonoramente a questa frattura, perché, in verità, denudando il testo ne mostra la continuità tramite la costanza verbale: il Dante di Scorrano resiste alle intemperie, ma è un’utopia, una trappola, qualcosa che segnala l’impossibilità della scrittura di vedere il mondo, o di reagirne – faccio l’esempio del Dante di Mario Luzi – con risentito moralismo. Che, in fondo, è la stessa cosa.
Da questo punto di vista, andrà rilevata anche la peculiare infedeltà di Scorrano a Vallone – ma sia chiaro che un’infedeltà è spesso sintomo di grande innovazione – soprattutto laddove egli rinuncia alle robuste, ma onestamente al limite del rigido, costruzioni contestuali e ideologiche del professore di Galatina: preferendo, in realtà, la più minuta casistica, che però ha come conseguenza un grande surplus di verità. Così, un articolo su cui ritorno di frequente, che è Da Firenze a Firenze: vicenda politica della Commedia, propone una lettura a larghe campate della visione politica che emerge dal capolavoro dantesco, incentrandola sulla seconda protagonista del poema, e cioè la città amata, nostalgicamente vagheggiata, odiata, Firenze. La politica della Commedia , dunque, si incarna in una realtà storica che è subito trascesa a simbolo: è il miglior antidoto alle letture troppo brutali, ma anche filosofiche, o a tesi, che Scorrano stesso ci ha insegnato a esorcizzare nel suo capitolo più valloniano, Il Dante “fascista”.
Ciò che vi propongo, infine, è uno Scorrano francese, quasi post-strutturalista: non è un’idea che ha bisogno di verifiche né di attestazioni specifiche. In fondo, quella cultura ha penetrato ampiamente la nostra letteratura con l’amato patrocinio di Calvino: a quella cultura, secondo me, Scorrano è debitore anche per la sua peculiare modalità di costruzione saggistica. La forma-saggio, come si sa, è ben tipicamente francese: Scorrano la declina sempre intorno a un’idea precisa, che rende la sua produzione una miniera inesauribile di suggestioni, più o meno limitate a una parte del testo: se scorrete la sua bibliografia, avrete una cassetta degli attrezzi che comprende la carità di Sapìa, un Dante sotterraneo o laterale, abbandoni e bontà riconquistate etc. Non si tratta mai di idee isolate, di ricerca di bella pagina: sono potenti strumenti di interpretazione. Si veda, nel caso del canto di Pier della Vigna, come l’orizzonte di negazione proposto da Dante al suo lettore tra gli sterpi della selva dei suicidi sia l’ottica con cui si analizzano i singoli passi del testo. In fondo, era la stessa domanda che Gilles Deleuze poneva sullo sfondo della ricerca filosofica. Che cos’è la filosofia, si chiedeva il filosofo in un famoso volume scritto insieme a Guattari: essenzialmente, rispondeva, creazione di concetti. Scorrano ci ha lasciato, e continua a farlo, una miniera di concetti, incarnati nelle parole.
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