di Luigi Scorrano
Una croce sul pallone
Le persone giovani non hanno nella loro memoria l’immagine di un gesto abituale quando la produzione industriale non aveva ancora conquistato tutti gli spazi delle attività umane. Il gesto è quello di incidere, con la punta di un coltello, un segno di croce sulla forma di pane pronta per essere consegnata alla cottura. Quel gesto era così naturale che nessuno se ne sarebbe sorpreso come di una stravaganza. Un gesto che apparteneva alla vita quotidiana e nasceva dal sentimento del sacro rispecchiato in tutte le occasioni dell’esistenza. Un gesto sacro! Perduto, come tanti altri, sotto la spinta livellatrice di una ‘civiltà dell’ indistinzione’, la cui caratteristica più ‘forte’ (si fa per dire) consiste in una sorta di dissacrazione concordata. Si dissacra come relitto inservibile il senso dell’ essere famiglia: ciascuno rivendica la propria libertà interpretandola come svincolata totalmente da norme di qualsiasi genere; si dissacra ogni forma di spiritualità come residuo di una cultura che da molto tempo non parla più alla mente o al cuore di nessuno. Sono solo due esempi della visibilità del fenomeno, ai quali se ne possono aggiungere altri.
Quel gesto sacro è dunque perduto per sempre, cancellato dalla nostra giornata, scomparso dalla memoria, risucchiato dentro il buco nero nel quale tutto inesorabilmente sembra dover finire? Guardiamoci intorno, vediamo se quel gesto sopravvive, e in qual modo, da qualche altra parte.
Sorpresa! Chi mai lo avrebbe pensato? Siamo allo stadio in una qualunque giornata di campionato; oppure seguiamo alla televisione delle partite importanti. A un tratto vediamo risorgere quel gesto, compiuto ora con smaccata evidenza ora quasi furtivamente da uno o più giocatori. Chi poi vuol mettersi in evidenza non si accontenta di quel gesto, ma tende ad amplificarne la portata inginocchiandosi sul terreno di gioco, congiungendo le mani nell’atto dell’orante, indicando insistentemente con l’indice teso il cielo sulla sua testa: quel cielo apparentemente così lontano e che il gesto sembra congiungere alla terra. Che sia risorto in tanti giocatori un senso del sacro che le tifoserie urlanti sugli spalti sembrano del tutto ignorare? Vorremmo crederci, ma ci riesce difficile. Il gesto ha più l’aria d’uno scongiuro che d’una religiosa invocazione. Eppure qualcosa dell’antico significato resta nel segno di croce scaramantico ripetuto da vari atleti in momenti diversi dell’azione. Tracciandolo sulla propria persona o sull’oggetto disputato, sul pallone; chi lo compie riconosce che le sue capacità, pur incontestabili, hanno bisogno di un aiuto, di un intervento che è al di là dei semplici mezzi umani. Se si osserva con attenzione si può registrare un altro fatto: il gesto sacro è solo – per così dire – in situazione di andata: è sempre una richiesta di aiuto, mai un segno di ringraziamento.
Non importa sottilizzare su un comportamento che diremmo istintivo quanto, invece, riconoscere, in quel gesto, il residuo, positivo per quanto fragile, forse di un lontano insegnamento familiare, o la consapevolezza di un bisogno, di un aiuto fiduciosamente ritenuto operante.
Una croce sul pallone. Può essere un segno di profonda adesione, può essere l’esito di un riflesso condizionato: ma c’è. E se ogni segno è portatore di una verità profonda, quel segno significativo ci induce a riflettere, a ripensare all’importanza che attribuiamo anche a quello che ci sembra un banale tic, un guscio svuotato della sua vera sostanza. Il resto è gioco.
Un pensiero per la giornata
A volte le preoccupazioni, o solo le occupazioni quotidiane, ci fanno desiderare uno stato di provvisoria assenza : un tuffo in un’atmosfera senza luce né buio, un’atmosfera dalla quale sia stato possibile cancellare ciò che la costituisce. Al suo posto il silenzio: un silenzio, che non ci spaventa ma che ci accarezza col suo aspetto di un nido di quiete dentro il quale rifugiare ansie ed angosce o, più blandamente, preoccupazioni e (affliggenti a volte!) occupazioni quotidiane.
Uno spazio, un tempo non occupato da nulla. Uno spazio e un tempo in cui c’era qualcosa, ma che abbiamo avuto il potere di cancellare. Come far sparire, senza che nessuno se ne accorga subito, una data importante nel calendario, o un giorno significativo della nostra esistenza. Una bella cancellatura, per aver la possibilità di concederci una tregua, una sospensione non della vita ma di tutto quello che la vita quotidiana può avere di affannoso o semplicemente di stancamente quotidiano.
Pensiamo, a volte, che sarebbe bello – o rassicurante almeno! – trascorrere un’intera giornata senza pensare a niente: niente memoria di giorni luminosi o amari, niente incontri urgenti, niente impegni di lavoro e niente occasioni festose … Soprattutto, niente pensieri. Sappiamo fin troppo bene che è difficile avere una giornata senza pensieri. Per spensierati che possiamo essere, c’è sempre un momento nella giornata che un pensiero ci sorprende, uno di quei pensieri che vengono a tradimento (la sofferenza, la morte!), e s’insinua tenace e fastidioso, nella mente e la induce ad un lavoro di ricucitura di episodi lontani, di fatti in apparenza scollegati dei quali riconosciamo, con ansiosa sorpresa, i legami misteriosi. Oppure è un pensiero solo che, semplicemente, c’inquieta. A volte non sappiamo esattamente perché, eppure quel pensiero non ci abbandona, frustra i nostri tentativi di rimozione, s’accampa al centro di ore che ci attendevamo serene, annuvola il chiaro orizzonte che ci stavamo creando. Ci vien fatto di desiderare che ogni pensiero si cancelli, perché se tutto si cancella anche quello che ci angustia sparisce e noi possiamo sentirci in pace. Eliminare il pensiero dalla vita: ecco quale potrebbe essere un progetto interessante.
Però … dopo aver formulato un’ipotesi del genere, proviamo ad immaginare che cosa diverrebbe la nostra esistenza. Un paesaggio desolato, il sole ed il suo splendore cancellati dal nostro cielo, la noia di giornate senza stimoli, la mancanza di quelle ragioni del cuore che guidano tanta parte delle nostre azioni e delle nostre iniziative. E, peggio di tutto, l’accorgersi d’essere caduti in un vuoto in cui nessuna parola ha più significato, nessun gesto è interpretabile nella sua ricchezza, nessun sorriso accende la luce negli occhi di chi sarebbe destinato a riceverlo. Una simile visione ci spaventa. Ci ritiriamo da essa come da uno spettacolo insopportabile. Un mondo che avesse cancellato il pensiero sarebbe un orribile mondo di schiavi. Se cancellassimo il pensiero, forgeremmo da soli le catene destinate a stringere i nostri polsi.
Siamo andati troppo lontano con l’immaginazione? Ci sono cose nella realtà del nostro tempo che superano, in negativo, le più tristi previsioni. Per questo occorre guardarsi dal desiderare, anche per un momento, di cancellare il pensiero: anche per un giorno solo. Dobbiamo, se mai, sforzarci di elaborare un pensiero per ogni giorno: una modestissima norma di vita, la scelta di un comportamento onesto, uno sguardo partecipe sulla miseria in cui tanta gente non riesce a vivere dignitosamente la propria difficile giornata.
Cancellare può essere un esercizio facile di deresponsabilizzazione e di fuga dalla realtà. Scrivere è più difficile: impegna a svelarsi, a dire con chiarezza quale parte si è scelta. Scrivere un pensiero per ogni giorno: un proposito da confermare, una piaga da guarire …
Un pensiero al giorno inciderlo sulla rugosa superficie della realtà. Non con una penna ben temperata e scorrevole ma con mani arse di fatica, solcate dalla sofferenza, segnate da piaghe profonde. Come quel pensiero che si può scrivere per ricordare, a se stessi e agli altri, che un pensiero al giorno ci permette di scrivere positivamente la nostra storia.
Dante e l’amore per la scienza
Una data è stata celebrata in modi diversi e a vari livelli quest’anno: il compleanno (750 anni dalla nascita) di un personaggio di cui molti conoscono il nome ma poco o nulla sanno della sua opera. Uno dei grandi interpreti della storia dell’umanità: un poeta la cui parola, meditata, costituirebbe un vitale nutrimento della coscienza: Dante. Vogliamo ricordarlo, nell’occasione della festa di Galatina, la nostra città che ha prestato un’amorosa attenzione allo studio del grande poeta; e vogliamo ricordare velocemente una sua caratteristica: il suo amore per la scienza.
Dante esplora l’universo, guarda le stelle. Non si tratta di semplice e un po’ superficiale curiosità: si tratta di humana curiositas sollecitata dagli appassionanti problemi della scienza. Il poeta fa viaggiare la sua immaginazione appoggiandola ai dati che le varie discipline gli forniscono. Inventa, si può dire, sul terreno di risultati certi o largamente ritenuti certi. Sempre risulta suggestivo e fa nascere il desiderio di esplorare con lui percorsi nuovi. Quando racconta del folle volo di Ulisse oltre le colonne d’Ercole, lo fa aprendo ai nostri occhi la vastità dell’oceano sconosciuto, e anche aprendo lo scenario di un firmamento nuovo; e il tempo che precede la tragedia è scandito dal lento trascorrere di cinque lunazioni, sotto la luce del giorno ma soprattutto sotto la luce di stelle nuove e diverse.
L’astrologia concorre a stringere in un legame forte umanità e segni celesti. Essa appare nella Commedia dantesca nella veste di testimone della vita umana. Scienza ed humanitas si saldano; la verità delle cose, nella sua apparente semplicità, è veicolata (basti un esempio) da una parola usuale: stella. Le tre cantiche terminano, come sappiamo, con questa parola (al plurale: stelle). Ma in questa parola c’è una sorta di progressivo arricchimento. Nell’ Inferno: «e quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inf. 1, 131) è un respiro di liberazione; nel Purgatorio c’è l’ansia gioiosa di una meta intravista e desiderata («puro e disposto a salire alle stelle»: Purg. XXXIII 145); nel Paradiso: «l’amor che move il sole e l’altre stelle»: Par. XXXIII 145. Nella vicenda cosmica l’intuizione ed il ‘contatto’ col divino, la piena realizzazione del desiderio.
Dante possiede, e ci offre, un vocabolario della scienza; troviamo, ad esempio, riferimenti alla geometria (all’inizio del canto XIV del Paradiso, o nella similitudine, verso la fine del poema, del geomètra che cerca la quadratura del cerchio e si applica a quel tentativo con tutte le risorse della sua intelligenza); osserva con precisione il mondo della natura; studia il differenziarsi delle lingue, ecc. Sono tutti campi legati alla ricerca scientifica. Ma Dante è un poeta e la scienza traduce in poesia. Né questo, per lui, vuol dire attribuire alla scienza una semplice funzione vicaria. Se poi ricordiamo che scienza, per Dante, è filosofia, e se ricordiamo lo studio della filosofia e il grande amore per essa da parte del poeta, possiamo capire ancora meglio perché il poeta, Dante, tenga in tanto pregio la scienza.
“… cantando giulive canzoni di guerra”.
Una memoria scolastica non so se avvivi più oggi la mente di qualche studente di scuola superiore; non so se ricanti (quasi un ripassare) dei versi manzoniani di un coro dell’Adelchi in cui veniva rievocata la tumultuosa spedizione franca gravata dalla fatica e alleggerita da canti di militari: «A torme, di terra passarono in terra, / Cantando giulive canzoni di guerra, /Ma i dolci castelli pensando nel cor». Si trasporti la situazione in un tempo meno remoto, al primo ventennio del Novecento, e si avrà un quadro simile, benché con caratteristiche specifiche diverse. Anche i soldati coinvolti, e travolti, dalle vicende dolorosissime di quella che è passata alla storia, per la sua immanità, come “La Grande Guerra”, anche quei soldati cantavano cercando di porre un illusorio argine al dolore o alla disperazione, alla puntura delle domestiche rimembranze; a volte quei canti erano un’espressione esteriore di spavalderia che nascondeva oscuri timori. Ne è rimasta memoria in tanti libri che hanno raccontato la guerra: ‘quella’ guerra. Si guardi a qualche esempio. Giovanni Comisso, in Giorni di guerra: «Ogni mattina mi risvegliava dalla strada un canto straordinario. Squadre di soldati con il moschetto a tracolla in ordine sparso, ma con passo rapido cantando a voce viva e severa, marciavano verso il sole appena sorto che illuminava d’oro le finestre: E noi faremo scuola di pugnale / a Cividale, /uno, due. » Non si può dire che la canzone di quei soldati avesse un tono giulivo; se mai avevano questo tono gli sfottò elaborati dai soldati anche nella situazione penosa della guerra di trincea. Si possono leggere, per averne un’idea, certe strofette riportate da Carlo Salsa nel suo libro Trincee, un’opera di quelle che hanno messo a nudo certo patriottismo di facciata e la reale sofferenza di tanti soldati che nelle trincee rimasero uccisi. Scrive Carlo Salsa: «Un soldato canticchia tutto solo, premendo il pollice nel fornello della pipa; La trincea è quella cosa / che nell’acqua ti fa stare; / è una cura balneare / poco adatta alla stagion.». E in un altro passo dello stesso libro, Salsa vede condensarsi nelle canzoni di quella guerra l’amara memoria dei mancati ritorni: «L’inverno ci comprime il cuore come una pressione di ghiacci. Imbrattiamo di peste la neve flaccida che credeva di poter rifare una verginità a queste contrade: noi non dimentichiamo: anche le nostre canzoni ricordano: Tutti giovani sui vent’anni: / la sua vita non torna più». Un’annotazione che riecheggia nel funebre scandito Tapum tapum di un altro canto popolare: «Dietro il ponte c’è un cimitero / cimitero di noi soldà. / Tapum tapum tapum / Tapum tapum tapum! / Quando sei dietro quel mureto / soldatino non puoi più parlà. / Tapum tapum tapum / Tapum tapum tapum! Cimitero di noi soldati / forse un giorno ti vengo a trovà! / Tapum tapum tapum / Tapum tapum tapum!».
La guerra dà contributi al canto, ora ardito e sfidante, ora doloroso e ripiegato sulla nostalgia della casa e della famiglia. Dapprima in guerra si ode il canto noto; un vero e proprio repertorio da trincea si formerà attingendo l’ispirazione o l’osservazione ora dolorosa ora irridente le vicende stesse della guerra. C’è chi ha ricordato che i soldati napoletani, mentre davano la scalata al Monte San Michele cantavano una notissima canzone: O’ surdato ‘nnammurato.
L’età dei soldati suggeriva pensieri e nostalgie d’amore. Ma non si trascuravano lodi del vino, che stordiva consolando. “Canzoni giulive”; ci si poteva credere. Come quella che dice:
Il buon vino fa lieto il core
Il buon vino scaccia il dolore
D’una sbornia non si muore
E vive eternamente il bevitore.
[“Il Titano”, supplemento economico de “Il Galatino”, anno XLVIII n. 12 del 26 giugno 2015, pp. 29-30]