di Antonio Errico
Mancavano quattro giorni a primavera. Il cielo era violaceo, e nevicava. Una neve così, di marzo, non si ricordava. Nell’ospedale di Gagliano, giù giù, a Finibusterrae, moriva Salvatore Toma, a trentasei anni. Ne sono passati trenta ormai ed è marzo un’altra volta e arriva un’altra volta primavera.
Salvatore Toma è un grande poeta. Non lo dico perché lo sosteneva lui, un po’ con ironia e un poco senza, facendosi stampare gli adesivi con la scritta a Great Poet che poi attaccava alle porte delle case e sui vetri delle automobili che a suo giudizio erano borghesi. Non lo dico perché siamo stati amici. Lo dico perché è un grande poeta.
Il grande poeta è uno che ci crede. Credere significa anteporre il pensare e l’essere poeticamente a qualsiasi altra cosa. Anche alla vita. Totò Toma antepose: senza nessuna riserva, nessuna cura di sé, senza pudore. La poesia per lui era bere solitario, un gioco di dadi, un azzardo, era conoscere cose orrende, senza fondo, meravigliose. Era la consapevolezza che poeti si nasce, ma a volte non si finisce. La sua poesia è stata un giocare sincero: “Hai giocato sincero/ perciò ci sei riuscito/ come quando mio fratello dice/ lo sapevo perché me lo sentivo!/( e bocciava tranquillamente/ il pallino)”.
Forse è tutta qui, alla fine del conto, la poesia. E’ tutta in un bocciare col cuore di panna e una mano di roccia il pallino del senso del vivere.
Ci ha creduto. Estremamente. Fino in fondo. Fino all’ultimo respiro. Fino all’ultima goccia di flebo che gli passò nelle vene in quel marzo nevoso, lì, giù giù, a Finibusterrae.
Torna primavera un’altra volta e un’altra volta torna la giornata della poesia.
Se fosse vivo Totò Toma, sentendo che si dedica una giornata alla poesia, sghignazzerebbe. Probabilmente masticherebbe turpiloqui. Se fosse vivo Antonio Verri, riderebbe fino a farsi venire l’attacco di tosse. Penserebbero che alla poesia non si può dedicare una giornata, che le si deve dedicare tutta la vita e tutta la morte.
Erano esagerati, certamente. Per loro la poesia era l’assoluto. Erano convinti che se non si è disposti a questa assoluta esagerazione, si deve andare a fare un’altra cosa, qualsiasi altra cosa, anche perché qualsiasi altra cosa è certamente redditizia mentre con la poesia si rimette sempre, tutto.
Loro sapevano che la poesia chiede molto, costa troppo, pretende in modo sproporzionato e non restituisce mai niente di quello che pretende e che si prende. “Sì, qualche volta l’ebbrezza/ d’esser vicini a qualcosa/ ma in che rari momenti/ e a che prezzo/ d’insofferenze, di rotture/ d’ogni più delicata trama d’affetti”, aveva detto uno dei padri che hanno avuto e che rispondeva al nome di Vittorio Bodini.
Spesso ci si chiede a che serve la poesia, oppure se ancora serva in un tempo di tracotanza, di superfluità, di mitologie sgretolate, di dei seppelliti, di utopie svaporate, di tecnologie tracotanti, in un tempo arrogante, borioso, indifferente, sotto l’impero dei mercati, nel contrasto vergognoso di opulenze e di miserie. Ma forse è proprio in un tempo che si mostra con una fisonomia deformata che serve la poesia, che serve una parola autentica e profonda, lontana da qualsiasi convenzionalismo, opportunismo, manierismo, artificio, accondiscendenza, autoreferenzialità, ambizione.
La poesia (quella vera, perché esiste anche la poesia falsa, l’esercizio senza alcun significato) è sempre stata un’esperienza di liberazione e di libertà. E’ questo che deve indispensabilmente continuare ad essere, conformandosi ai volti innumerevoli dell’Altro, ascoltandone le voci e i respiri, urlando contro le ingiustizie, le sofferenze, i qualunquismi, contro ogni sopruso, contro ogni ipocrita silenzio.
Deve indispensabilmente continuare ad essere poesia onesta. Lo diceva Umberto Saba in una prosa, agli inizi del secolo passato, nel 1911: ai poeti non resta altro da fare che la poesia onesta.
Allora ci si potrebbe chiedere se esista una poesia disonesta. Certo che esiste. E’ quella di corte e di cortile, quella che si parla addosso, che lascia qualcuno esattamente come lo ha trovato, quella che non provoca il pensiero, l’indignazione, la rabbia, che non scuote la sonnolenza, non intima l’allerta, che non spaventa chi con essa ha una relazione, prima di ogni altro colui che la pensa, nello stesso istante in cui la sta pensando.
Così ritorno a Salvatore Toma; scriveva: un grande poeta si riconosce soprattutto dalla paura che si fa.
Ma un grande poeta si riconosce anche dalla capacità di stare per la strada.
Così ritorno ad Antonio Verri, alla sua militanza entusiasta e innocente. Faceva fogli di poesia che vendeva a cento lire per le strade di Lecce. Si ostinava a pensare che la poesia dovesse stare tra la gente, che dovesse sprofondare nella storia per poi riemergere e attraversare il presente, ogni giorno che chiariva e che scuriva. Pensava che la poesia potesse cambiare le cose che dovevano essere cambiate attraverso la bellezza e lo stupore, e tanti gli dicevano che era un illuso, e lui rispondeva provateci un po’ a vivere senza un’illusione per vedere l’effetto che fa.
Sì, lo so bene che se nel luogo dove sono Toma e Verri dovessero venire a sapere che li abbiamo ricordati in occasione della giornata della poesia, uno ci direbbe parole che qui non si possono riferire e l’altro riderebbe fino alla tosse, ma sia la poesia che questa terra il ricordo glielo devono, costantemente. Per la semplicissima ragione che alla poesia e a questa terra, uno e l’altro hanno dedicato tutti i giorni avuti in comodato d’uso.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 21 marzo 2017]