Diseguaglianze: come combattere la povertà

di Guglielmo Forges Davanzati

L’enorme aumento delle diseguaglianze distributive su scala globale è, senza dubbio, il problema principale dei nostri tempi, ed è probabilmente ancora peggiore il problema della sostanziale inesistenza di soluzioni o quantomeno tentativi di soluzione. Cosa imputabile al fatto che qualunque azione di contrasto alla crescita delle diseguaglianze richiederebbe coordinamento fra Stati, ovvero ciò che è esattamente impedito dalla globalizzazione, in quanto meccanismo che innesca competizione fra Stati.

La crescita delle diseguaglianze si verifica anche all’interno dei singoli Stati. Per quanto riguarda l’Italia, la continua crescita non solo delle diseguaglianze della distribuzione del reddito, ma anche dei divari regionali, con un Mezzogiorno che cresce sistematicamente meno del Nord da almeno un decennio, sta determinando un aumento – estremamente preoccupante – di fenomeni di povertà assoluta. Si fa qui riferimento a condizioni di disagio estremo che possono tradursi nell’impossibilità di acquistare beni essenziali, e finanche beni alimentari. L’ISTAT calcola che oltre il 6% delle famiglie italiane si trova in questa condizione, con la duplice aggravante per la quale la povertà assoluta è in continuo aumento ed è concentrata soprattutto nel Mezzogiorno. Le proposte in campo per farvi fronte sono o possono essere tante, assumendo che nessuna è esente da criticità e nessuna è immediatamente attuabile senza generare effetti collaterali.

Fra queste, la lotta all’evasione fiscale, tema che sembra ormai scomparso dall’agenda della politica italiana. Le ultime rilevazioni ISTAT certificano che nel Mezzogiorno l’evasione presenta valori più che doppi rispetto al resto del Paese, con particolare riferimento alla maggiore incidenza del lavoro irregolare, all’evasione del bollo auto, agli affitti in nero. L’agenzia delle Entrate stima una evasione minima di imposta pari al 11% circa per le principali province del Centro Nord, mentre si attesta attorno al 66% per alcune città del Sud, in primis Caserta, Salerno, Cosenza, Reggio Calabria e Messina, cioè le città nelle quali il reddito pro-capite è fra i più bassi d’Italia.

Ci si trova dunque di fronte a uno scenario nel quale nelle aree più povere si evade di più. Ed è difficile ritenere – sebbene siano in molti a sostenerlo – che questo dipenda dal fatto che le aree più povere sono aree con minore ‘capitale sociale’ (inteso come propensione al rispetto delle norme), e che, per conseguenza, siano aree nelle quali i comportamenti illeciti sono maggiormente diffusi. Appare più verosimile pensare che si tratti di quello che alcuni definiscono l’evasione “per necessità”: censurabile, sia chiaro, anche questa, ma verosimilmente effetto di una distorsione del sistema tributario. Che è effettivamente, e sempre più, concepito in forma regressiva, dal momento che le aliquote d’imposta sui redditi più bassi non sono significativamente più basse di quelle applicate sui percettori di redditi più alti.

A livello locale, se realmente si intende contrastare la povertà assoluta, si potrebbe ipotizzare un aumento della soglia di esenzione, attualmente stabilita dal Comune di Lecce al valore di 12.500 euro annui, spostando contestualmente il carico fiscale sui percettori di redditi elevati, per mantenere l’equilibrio del bilancio comunale. L’incremento dell’imposizione graverebbe soprattutto sui redditi derivanti da rendite finanziarie e mobiliari, ovvero non da attività produttive. La ratio di questa ipotesi risiede nel fatto che, assunto che un’elevata tassazione sulle famiglie con redditi bassi, oltre a generare il loro ulteriore impoverimento, si traduce spesso in evasione “per necessità” (ovvero per la pura sopravvivenza) e, dunque, in riduzione di gettito fiscale. Potrebbero derivarne due ulteriori vantaggi:

1.Dal momento che le famiglie con basso reddito hanno, di norma, una propensione al consumo più alta delle famiglie con redditi più elevati, questa misura accrescerebbe i consumi.

2  In più, modificherebbe la composizione dei consumi a vantaggio delle imprese locali, dal momento che gli individui con redditi elevati tendono a consumare beni di lusso, non prodotti in loco. Un aumento dei redditi al netto della tassazione delle famiglie più povere, molto verosimilmente, verrebbe destinato a maggiori consumi e a maggiori consumi di beni prodotti e venduti da imprese locali (si pensi ai prodotti alimentari). In altri termini, al crescere del reddito non solo crescono i consumi (ma decresce la propensione al consumo) ma cambia la composizione merceologica dei beni consumati. L’aumento delle vendite delle imprese locali potrebbe, in costanza di aliquota d’imposta, determinare un aumento della base imponibile e dunque un aumento del gettito fiscale, in un circolo potenzialmente virtuoso di riduzione delle diseguaglianze e aumento della crescita mantenendo in ordine i conti del Comune.

Ovviamente questa proposta è basata su una sequenza di eventi che potrebbe non verificarsi in modo meccanico (p.e. l’aumento dei redditi potrebbe tradursi in aumento dei risparmi e non dei consumi) e, tuttavia, sembra avere il vantaggio – rispetto a misure alternative – di mettere in atto un programma di contrasto alla povertà che non sia esclusivamente assistenzialistico e che miri anche all’aumento della domanda e della produzione locale.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 17 marzo 2017]

 

 

 

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