di Antonio Montefusco
1. Sotto la solenne etichetta “Chi fue il poeta Dante Allighieri di Firenze”, il mercante Giovanni Villani fornisce il primo ritratto biografico del poeta della Commedia. Più giovane di Dante di circa 10 anni, Villani, nel compilare un affresco storico dalle tinte borghesi e distaccate della città di Firenze dalle origini ai giorni della pesta nera, ci regala un corpus prezioso e in buona parte esatto di notizie sulla vita dell’illustre concittadino. Tale ritratto è inserito nell’anno 1321, anno della morte dell’Alighieri. L’evento sembra quasi interrompere il flusso degli avvenimenti guerreschi e agitati di quegli anni, tra la guerra a Castruccio (al capitolo 125) e la Signoria di Roberto d’Angiò (al capitolo 127).
«Nel detto anno MCCCXXI, del mese di luglio, morì Dante Allighieri di Firenze ne la città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d’ambasceria da Vinegia in servigio de’ signori da Polenta, con cui dimorava; e in Ravenna dinanzi alla porta de la chiesa maggiore fue seellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosafo. Morì in esilio del Comune di Firenze in età di circa LVI anni. Questo Dante fue onorevole e antico cittadino di Firenze di Porta san Piero, e nostro vicino; e ‘l suo esilio di Firenze fu per cagione, che quando messer Carlo di Valos de la casa di Francia venne in Firenze l’anno MCCCI, e caccionne la parte bianca, come adietro ne’ tempi è fatta menzione, il detto Dante era de’ maggiori governatori de la nostra città e di quella parte, bene che fosse Guelfo; e però sanza altra colpa co la detta parte bianca fue cacciato e sbandito di Firenze, e andossene a lo Studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo.
Questi fue grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fue sommo poeta e filosafo, e rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare, nobilissimo dicitore, in rima sommo, col più pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua al suo tempo e più innanzi. Fece in sua giovanezza i· libro de la Vita nova d’amore; e poi quando fue in esilio fece da xx canzoni morali e d’amore molto eccellenti, e in tra·ll’altre fece tre nobili pistole; l’una mandò al reggimento di Firenze dogliendosi del suo esilio sanza colpa; l’altra mandò a ’lo ’mperadore Arrigo quand’era a l’assedio di Brescia, riprendendolo della sua stanza, quasi profettezzando; la terza a’ cardinali italiani, quand’era la vacazione dopo la morte di papa Chimento, acciò che s’accordassono a eleggere papa italiano; tutte in latino con alto dittato, e con eccellenti sentenzie e autoritadi, le quali furono molto commendate da’ savi intenditori.»
Questo ritratto costituisce un nucleo molto importante di notizie, che precedono la sistemazione biografica della vicenda dantesca operata da Boccaccio. Del quadro villaniano si tengano presente due elementi:
- la centralità dell’esilio[1] e dell’esperienza politica di Dante.
- l’importanza della produzione epistolare dell’Alighieri.
Questo nucleo di riflessioni ha bisogno di qualche osservazione esplicativa.
A. Come si intuisce bene dal passo citato, Villani conferisce una grande importanza alla carriera politica di Dante: è forse quest’aspetto l’unico di cui sospettare, come ha dimostrato definitivamente lungo tempo fa’ il Barbi in pagine importanti e ancora insuperate. Come che sia, per inquadrare il problema, si tenga conto che l’Alighieri era un magnate, faceva cioè parte di una nobiltà antica, un ceto di preminenti definiti “milites” (cavalieri), nel senso che, alle origini del comune, si distinguevano dal resto della popolazione per la capacità economica di sovvenzionare e mantenere un cavallo. Il ‘200 è il periodo in cui questo ceto dirigente viene radicalmente scalzato da un nuovo strato sociale di ricchi, di estrazione in gran parte mercantile, che impongono ai comuni i cosiddetti “regimi di popolo”. Chiaro frutto di questo ricambio, ovviamente su base rivoluzionaria, sono a Firenze gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella del 1293; con essi viene messo in opera un elenco di proscrizione, cioè un divieto di accesso alla vita politica di questo vecchio ceto dirigente (vennero esclusi qualcosa come 3000 persone, tra cui i Cavalcanti). Nel 1295 un provvedimento correttivo impose che i magnati si iscrivessero a un’Arte – le corporazioni di mestiere – per esercitare attività politica. Alcuni magnati, tra cui Dante, lo fecero, e potettero, dunque, partecipare attivamente al governo in questo regime “misto”, nel quale rimanevano forti i contrasti sociali.
L’anno in cui Dante incontra per la prima volta in maniera solenne l’attività politica è il 1300, diventando priore il 18 giugno, e rimanendo in carica, com’era stabilito per legge, per due mesi. Il priorato era una carica a base locale: ne venivano eletti 6, provenienti dalle Arti, e su base “locale” (uno per ogni sestiere). Senz’altro è vero che il Villani esagera il ruolo di Dante nella politica della città, e tuttavia bisogna considerare che il 1300 è un anno complesso: ne costituisce una prova evidente la partecipazione dell’Alighieri – insieme agli altri Priori – alla decisione di confinare i capi-fazione più violenti delle due partes in lotta che proprio in quell’anno andavano irrigidendosi nel loro scontro. Venne confinato, dunque, Cavalcanti, a Serazzana, dove avrebbe contratto la malattia che lo avrebbe condotto a morte; vennero confinati anche i Neri, in un’altra località vicina a Firenze. La vicenda è ulteriormente complicata dall’intervento di Carlo di Valois, il fratello di Filippo il Bello, quindi legato alla dinastia regale francese dei capetingi. Bonifacio ne aveva promosso l’intervento in Italia a favore degli Angiò, che fin dall’epoca dei Vespri si contrastavano con gli Aragonesi per la riconquista della Sicilia. Il Papa e il suo legato Matteo d’Acquasparta – un cardinale umbro francescano – tentavano di evitare che Firenze si autonomizzasse in maniera eccessiva, e che continuasse a sovvenzionare le imprese papali in Maremma. Firenze (e Dante) tese a sottrarsi a questo gioco, provando anche la carta della diplomazia; Carlo di Valois mise in atto un colpo di Stato che portò al predominio Nero di Firenze e alla condanna, all’inizio del 1302, al Bando e alla pena di morte di mezzo migliaio di fiorentini. Un’epurazione che colpì Dante (tra 21 gennaio e 10 marzo) fra molti altri.
La centralità dell’esilio va quindi contestualizzata in questi avvenimenti; d’altra parte è indubbio che l’esperienza del Bando divide nettamente in due la vicenda biografica di Dante. Gran parte della produzione letteraria e filosofica di Dante sarà scritta e pubblicata in un percorso lungo e tortuoso, su cui ancora oggi non abbiamo l’integrità delle informazioni, ma che lo condusse a entrare in contatto con un grande spaccato di realtà istituzionali dell’Italia settentrionale. È in questo contesto che Dante matura non solo progetti letterari più ambiziosi ma anche una visione politica originale, che spesso è stata tacciata di utopismo ma che è risulta di enorme ricchezza nel cogliere le dinamiche del suo tempo. L’esperienza del bando, infatti, caratterizza una parte notevole del ceto dirigente comunale tra Due e Trecento, in un periodo chiave della storia italiana, quando si vanno enucleando i poteri che porteranno alle Signorie e alle corti dell’Umanesimo. I banditi che non tornano a casa, conoscono un’esperienza di lungo allontanamento nella quale viene sviluppata una rete sociale e istituzionale solida e sovramunicipale. Soprattutto alcune categorie di banditi (mercanti, giudici e notai, per esempio) sviluppavano nuove attività professionali in un mondo di realtà locali strettamente integrato, arrivando addirittura a occupare interi quartieri delle città (come nel caso di Bologna). SI tratta di uno degli aspetti più sorprendenti della grande mobilità del ceto dirigente del comune, la cui cultura e il cui “internazionalismo”, potremmo dire, costituisce la culla delle nascenti letterature volgari.
B. Villani si sofferma in maniera del tutto peculiare e circostanziata sulle lettere scritte di Dante; dedica alla scrittura epistolare più attenzione di quanto dedichi alla Vita Nuova e alla Monarchia, forse la stessa attenzione dedicata alla Commedia. Questo elemento non può non sorprendere. Villani ci dice che Dante ha scritto numerose lettere, in latino e che erano molto ammirate per il dettato molto ricercato, descrivendoci il contenuto di tre lettere:
a. una al reggimento di Firenze (la Signoria), oggi sicuramente perduta;
b. una ad Enrico mentre assedia Brescia: e qui Villani o si sbaglia, confondendo l’assedio di Brescia con quello di Cremona, a cui è legata una delle lettere più belle di Dante (del 17 aprile 1311) oppure si riferisce a un’altra lettera, oggi perduta;
c. infine quella forse più impegnata: una lettera rivolta ai cardinali italiani nel 1314 durante il conclave di Carpentras.
La testimonianza di Villani, quindi, ci spinge a interrogarci sull’attività epistolare di Dante, proponendocela come una delle sue principali e più diffuse attività dopo il bando, caratterizzata da un fortissimo impegno politico anti-fiorentino e filo-imperiale, e con posizioni fortemente riformatrici in ambito ecclesiastico. In realtà di “Dante scrittore di lettere” rimangono tracce scarsissime: si può dire in tutta tranquillità che, all’interno del gruppo delle cosiddette opere minori, le lettere di Dante – insieme alla ancora più sfortunata Quaestio de aqua et de terra, pronunciata a Verona nel gennaio del 1320 – sono, nell’attenzione della critica, opere minime. A ben vedere, in effetti, il gruppo di epistole che ci sono rimaste, oggi, sono un corpus assai ridotto. Sono infatti 13 pezzi, ma molto vari. Se consideriamo che le sole Familiari di Petrarca, appena una generazione dopo, giungono al numero esorbitante di 350 pezzi, possiamo apprezzare in tutta la sua ampiezza quella frattura radicale che fece rapidamente dello “scrivere e raccogliere lettere” una delle attività principali dell’attività dell’intellettuale di corte umanista.
Tuttavia l’epoca di Petrarca guardò con estremo interesse a queste opere dantesche, se è vero che Boccaccia trascrisse tre lettere di Dante in un suo importante zibaldone di lavoro (il cd. Laur. XXIX.8), dove raccolse anche, proprio negli anni in cui l’autore del Decameron raccoglieva notizie intorno all’autore della Commedia, alcune epistole (come la Mavortis milex extrenue) modellate sull’esempio dantesco. Delle restanti lettere abbiamo (pressappoco) soltanto un altro testimone manoscritto. Il codice Vaticano Palatino 1729 è un altro zibaldone, che trasmette, assieme a questi pezzi, la Monarchia di Dante e il Buccolicum Carmen di Petrarca e venne trascritto nel 1394 da ser Francesco di ser Iacopo Piendibeni da Montepulciano. Francesco, a Perugia, aveva preso il posto di cancelliere lasciato vacante da Filippo Villani (nipote di Giovanni e anch’esso biografo di Dante) e dunque anche questo codice sembrerebbe il frutto di una tradizione “erudita” riguardo alla biografia dantesca, ma allo stesso si segnala un nodo storico in cui tale interesse si intreccia con il ruolo di Dante nel nascente umanesimo fiorentino. Cerchiamo di sbrogliare questo nodo.
2. Per farlo, dobbiamo tornare a Dante, e al Dante prima del bando. Nella Vita Nuova, a capitolo 30, nel momento in cui viene annunciata la morte di Beatrice, l’autore dice di aver scritto una lettera a li principi della terra in morte di Beatrice.
«Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade; onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a li principi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo sedet sola civitas. E questo dico, acciò che altri non si meravigli perché io l’abbia allegato di sopra, quasi come entrata de la nuova materia che appresso vene. E se alcuno volesse me reprendere di ciò, ch’io non scrivo qui le parole che seguitano a quelle allegate, escusomene, però che lo intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare; onde, con ciò sia cosa che le parole che seguitano a quelle che sono allegate, siano tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se le scrivessi. E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico a cui io cò scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente volgare.»
Il passo è particolarmente interessante da molteplici punti di vista. L’incipit della lettera è mutuato dall’incipit del libro biblico delle Lamentazioni di Geremia. Il testo biblico, dedicato alla distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dei Romani, instaura immediatamente un rapporto tra la Firenze resa vedova dalla morte di Beatrice e Gerusalemme, sottolineando la struttura della storia dantesca, violentemente partita in due dalla morte di Beatrice. Dante decide di non allegare la lettera al testo della Vita Nuova perché scritta in latino.
Il passo ci trasporta concretamente nel laboratorio di scrittura di un poeta dell’età comunale. E, pur nelle novità rappresentate dal libello, che fece scalpore nella Firenze dell’epoca, esso va collocato nel contesto culturale che gli è proprio. Gli intellettuali dell’età comunale rappresentato una stagione straordinaria della cultura italiana; in gran parte coincidenti con i ceti dirigenti e profondamente imbevuti di cultura giuridica, i poeti dell’età di Dante sono caratterizzati da una peculiare capacità di dominare vasti campi disciplinari del sapere. Diciamo molto chiaramente che la Commedia, che si istituisce a summa del sapere medievale, non sarebbe nemmeno concepibile senza questo precedente legato a una fase della civiltà comunale caratterizzato da grande mescolanza di saperi. Al centro di tale mélange è la cultura della parola, e rappresentante d’eccezione è Brunetto Latini, per il quale la Rettorica (titolo di uno dei suoi testi più impegnati) è un complesso nodo culturale, linguistico, politico e pedagogico. Vale la pena di riprendere un brano di questo testo fondamentale per gli intellettuali dell’epoca:
«L’epistolografia rappresenta la concretizzazione di questi scambi e della mobilità del ceto dirigente podestarile; essa, con il nome di ars dictaminis, è il sapere diffuso e caratterizzante degli intellettuali. Un esempio lampante è costruito dal caso di Brunetto Latini. Brunetto, maestro riconosciuto di una generazione di poeti, è autore della Rettorica, un testo in cui oratoria e retorica sono intrecciati in maniera fortissima. Vi leggo la definizione che Brunetto da della retorica:
Avemo detto che è rettorica, or diremo chi é lo suo artefice: dico che è doppio, uno è rector e l’altro è orator. Verbigrazia: Rector è quello che ‘nsegna questa scienzia secondo le regole e’ comandamenti dell’arte. Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l’arte sì l’usa in dire et in dittare sopra le quistioni apposte, sì come sono li buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero delle Vigne, il quale perciò fue agozetto di Federigo secondo imperadore di Roma e tutto sire di lui e dello ‘mperio.»
Per Brunetto, dunque, il retore è la figura-chiave della società comunale. Vi leggo un passo in cui è evidente l’esigenza dell’arte della parole per mantenere la pace e la guerra:
«E così sommamente loda Tullio eloquienzia con sapienza congiunta, che sanza ciò le grandissime cose non s’arebbono potute mettere in compimento, e dice che poi àe molto de ben fatto in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti i convenenti de’ comuni e delle speciali persone corrono per due stati o di pace o di guerra, e nell’uno e nell’altro bisogna la nostra rettorica sì al postutto, che sanza lei non si potrebbono mantenere.»
In questo contesto mi sembra particolarmente significativo segnalare due fatti. Così intesa, l’oratoria e l’arte di scrivere lettere (l’ars dictaminis) tende ad allargarsi e comprendere non solo la corrispondenza pubblica, ma anche quella erotica. E’ il caso, davvero eclatante, del “consolamento” inserito da Brunetto Latini tra i vari tipi di corrispondenza e diceria. Uno di questi consolamenti è particolarmente significativo, perché riguarda «un uomo [che] avea fermato nel suo core di menare dolorosa vita per la morte d’una persona cui ella amava sopra tutte cose». La tentazione di considerare quest’esempio il precedente più prossimo al caso segnalato precedentemente nella Vita Nuova è molto forte. Ma quello che vorrei sottolineare è la tendenza spiccata della scrittura epistolare prodotta nel contesto comunale sempre più verso il volgare. Si riscontra questa aperta sia nella didattica, come nel caso delle 29 lettere in volgare di Guittone d’Arezzo, tutte intonate all’insegnamento e alla parenesi, ma anche nella normativa, come nel caso esemplificativo dei Parlamenti di Guido Faba. Questa tendenza si incontra, infine, anche nei repertori, come in un importante manoscritto che trasmette un gruppo di lettere di Pier della Vigna volgarizzate, recentemente avvicinato all’ambiente di Brunetto. E proprio a Brunetto si può forse attribuire un interessante manuale sulla Scrivere volgarmente le epistole.
Da questo punto di vista, la scelta dantesca è complessa. Dante, pur condividendo pienamente l’importanza, nel sistema dei saperi del tempo, delle corrispondenze letterarie, non segue fino in fondo l’opzione volgare che la cultura municipale toscana andava in quel momento elaborando. Mi chiedo se, in questa specializzazione linguistica, non vi sia anche una qualche scelta di carattere polemico.
4. Da una parte la scelta di Dante, a favore del latino, è vincente dal punto di vista della memoria; dall’altra questa situazione comunicativa preponderante segnerà in senso fortissimo la tradizione manoscritta. Questa tensione tra una tendenza di milieu e una scelta polemica costituirà una sorta di fantasma per l’umanesimo nascente. Ne è esempio significativo Leonardo Bruni, cancelliere della Signoria fiorentina in epoca appena successiva a Coluccio Salutati. Ritorna con Bruni il nodo che prima segnalavamo per la tradizione manoscritta: l’interesse per la vita di Dante e la tradizione di cancelleria. L’interesse per Dante è inserito nella lode della città di Firenze, dall’altro nell’interesse, del tutto peculiare del Bruni di mantenere Dante nel solco del canone umanistico (siamo all’inizio del ‘400). Un tentativo, si badi bene, destinato all’insucesso se pensiamo alla risoluzione bembiana di espungere Dante dal canone delle Prose della volgar lingua.
Dunque il Bruni conosce, e anche molto bene, le Pìstole, le inserisce nuovamente in un elenco di opere; leggiamo un passo illuminante del Bruni (dai Dialoghi a Pietro Paolo Istriano), che ripropone innanzitutto il canone delle opere dantesche dando nuovamente grande importanza alla scrittura delle lettere
«Verum hec, que religionis sunt, omittamus; de his loquamur que ad studia nostra pertinent: que quidem ab isto ita plerumque ignorata video, ut appareat id quod verissimum est, Dantem quodlibeta fratrum atque eiusmodi molestias lectitasse, librorum autem gentilium, unde maxima ars sua dependebat, nec eos quidem qui reliqui sunt, attigisse. Denique, ut alia omnia sibi affuissent, certe latinitas defuit. Nos vero non pudebit eum poetam appellare, et Vergilio etiam anteponere, qui latine loqui non possit? Legi nuper quasdam eius litteras, quas ille videbatur peraccurate scripsisse: erant enim propria manu atque eius sigillo obsignate. At mehercule, nemo est tam rudis, quem tam inepte scripsisse non puderet. Quamobrem, Coluci, ego istum poetam tuum a concilio litteratorum siungam atque lanariiss, pistoribus atque eiusmodi turbe relinquam. Sic enim locutus est ut videatur voluisse huic generi hominum esse familiaris.»
Non ci soprende, quindi, che l’umanista di origine aretina compili un quadro che risulta in forte debito con quello tracciato dal Villani (vista questa comunanza di fonti e di interesse):
«In latino scrisse in prosa et in verso. In prosa un libro chiamato Monarchia, il quale libro è scritto al modo fratesco, senza niuna gentilezza di dire. Scrisse ancora un altro libro intitulato De vulgari eloquentia. Ancora scrisse molte Pìstole in prosa. In versi scrisse alcune Egloghe, et il principio del libro suo in versi eroici; ma non riuscendogli lo stile, non lo seguì.»
Lo sforzo di traghettare Dante nel canone umanistico è qui fortissimo, ma si incardina all’interno di un tentativo di inquadrare la figura dell’Alighieri come “cittadino” in rapporto con il Petrarca, modello di poesia disinteressata. Il tentativo è operativo, come abbiamo visto, anche nel manifesto dell’umanesimo bruniano, i Dialoghi a Pietro Paolo Istriano, nel quale l’eccellenza del latino di Dante è avvalorata proprio dalla lingua delle Epistole. Si tratta, dunque, di un progetto “fazioso” nel quale la scrittura epistolare dantesca è completamente resa monodimensiale (integralmente politica). Ed è difficile apprezzare quale sia l’arbitrio nella scelta di Bruni e quanto invece l’umanista rispecchi quanto effettivamente si sa rispetto alla produzione epistolare di Dante. Il risultato rilevante, ad ogni modo, è un disegno molto interessante e, a suo modo, coerente, che traccia una parabola che da Brunetto a Coluccio riconquista sempre di più il mondo della produzione letteraria in latino con un forte afflato di engagement nell’orizzonte cittadino. In questa parabola la scrittura epistolare dantesca si presenta come un indispensabile anello.
Questa parabola, però, da una parte schiaccia la complessità della scelta dantesca, che invece si trova potentemente recuperata dalla realtà della tradizione manoscritta. E’, difatti, del tutto coerente con il panorama culturale disegnato adesso nella Firenze dell’epoca immediatamente seguente alla morte di Dante, che si dedicò a una ricca attività di volgarizzazione delle epistole, e in particolare di quelle più politiche (quelle legate alla discesa di Enrico VII in Italia). Si tenga presente che queste due lettere volgarizzare circoleranno precocemente unite in una ricca miscellanea di testi epistolari in volgare (tra cui anche Boccaccio e Petrarca) alla fine del ‘300, in ambienti mercantili non estranei a inquietudini religiose, costituendo un panorama culturale solo tangenziale se non quasi alternativo alle opzioni umanistiche.
5. Ma ora entriamo più direttamente nel laboratorio dantesco, per apprezzare e vedere quali potenzialità sfrutta Dante della scrittura epistolare.
Per cominciare accenno nuovamente a una lettera perduta, e ricordata dall’ascolano Francesco Stabili, medico di corte di Carlo e Roberto d’Angiò, astrologo condannato al rogo pochi anni dopo la morte dell’Alighieri, e infine autore di un’Anti-Commedia di carattere astrologico intitolata L’acerba:
Ma qui me scrisse dubitando Dante:
son doi figlioli nati in uno parto,
e più gentil si mostra quel davante,
et ciò converso, come già vedi
dime Esculano, quel che tu credi.
Rescrissi a Dante : Intendi tu che leggi…
Dunque: Cecco afferma di aver ricevuto una lettera di Dante di argomento scientifico ma legato al problema della nobiltà (tema centrale intorno al quale si salda la teorizzazione del gruppo degli stilnovisti fiorentini). Per quanto non possediamo prove positive in merito alla consistenza reale di questo scambio di opinioni, io la ritengo non priva di qualche fondamento. Proprio in quegli anni, infatti, un amico poeta di Dante, Cino da Pistoia – insegnante di Diritto e poeta, in contatto con Dante sicuramente durante il bando pistoiese e probabilmente anche conoscente di Cecco (che forse potette frequentare a Bologna) – ha un interessante scambio epistolare con il medico Gentile da Foligno. Il tema dello scambio riguarda il problema riguardante una coppia sposata da sette mesi. La moglie aveva partorito un bambino, che sosteneva essere “settimino”; il marito sospettava, invece, che il vero padre fosse suo fratello, e quindi richiedeva lo scioglimento del matrimonio. Nella discussione tra Cino e Gentile, secondo una suggestiva ipotesi di Hermann Kantorowitcz, nasce per la prima volta la medicina legale, con un’ impostazione di tipo sperimentale. Cino infatti suggerisce, per risolvere il problema, che, per pronunciarsi in merito alla questione, bisognerà osservare la corporatura del bambino, per poter avere elementi sufficienti a giudicare se si tratti di concepimento pre-matrimoniale o di parto prematuro. Dante, Cecco, Cino sono intellettuali tipici di una stagione della storia culturale italiana caratterizzata da una capacità di incrociare e mescolare saperi molto differenti tra loro (medicina, diritto, filosofia) e allo stesso tempo impegnati in maniera diretta sul terreno poetico. Questa osservazione ci spinge a studiare più intensamente –e senza limiti linguistici – l’integrità della produzione di questi intellettuali, osservando come, ai confini dell’Università, si realizzano ibridazioni di competenze e mélange culturali di grande interesse, che la sistemazione petrarchesca, nel rivendicare al poeta liricità e distacco dalle cure temporali, strapperò via definitivamente.
Non sorprende quindi che, nel corpus di lettere dantesche che invece ci sono rimaste, troviamo un pezzo molto interessante, e in qualche maniera tangenziale alla scrittura appena disegnata. Si tratta della lettera, appunto, all’amico Cino da Pistoia. La lettera (la III) è scritta da Dante probabilmente tra 1305 e 1306, in un periodo in cui l’autore soggiorna in Lunigiana, presso la corte dei Malaspina. Per essi Dante svolge importanti funzioni di procuratore legale per alcune questioni riguardanti i conflitti di competenze con il vescovo di Luni. Cino è un nero, in esilio a Pistoia, e chiede a Dante, inviandogli il sonetto Dante, quando per caso s’abbandona, una consulenza di tipo erotico-filosofico. Il problema è il passaggio dell’amore da un oggetto a un altro, cosa ritenuta possibile da Dante: la potenza concupiscibile, che è la sede dei sensi, permane e ricompone l’amore che pure risulta poi riservata a un altro atto.
L’elemento di maggiore interesse in questo caso è costituito dal fatto che Dante – ma lo farà in maniera ancora più chiara con l’Epistola a Morello Malaspina, leggermente più tardi – utilizzi la scrittura epistolare per completare, postillare e chiarire alcuni punti di particolare rilevanza erotica e filosofica. Questa preoccupazione (a volte una vera e proria ossessione) di una giusta interpretazione della propria poesia è presente in Dante fin dalla Vita Nuova; ciò che va in questa sede chiarito è che, questo tipo di scrittura concettualizzante non avrà seguito nella tradizione epistolografica successiva, e costituisce una caratteristica propria dell’epoca.
6. Scrivere lettere è, per Dante, anche un vero e proprio “lavoro”: e qui tocchiamo un altro aspetto del ventaglio tematico e stilistico delle epistole. Si tratta di un lavoro non semplice, a volte legato all’attività politica. È il caso delle prime due lettere del corpus scritte in qualità di Consigliere dell’Universitas Alborum, l’organizzazione dei banditi bianchi appena dopo il colpo di stato di Carlo di Valois. Sono – diciamo così – lettere di servizio, scritte per conto di altri. La prima (ma probabilmente ragioni di cronologia indurrebbero a pubblicarla in seconda posizione) è essenzialmente una notifica ufficiale che i banditi dell’Università trasmettono a Niccolò da Prato, cardinale incaricato da Benedetto XI fare da paciaro in Toscana (dopo il marzo 1304): vi si ratifica l’impegno a non compiere azioni di guerra; leggermente anteriore è la seconda, una sorta di telegramma di condoglianze rivolto ai nipoti conti di Romena per la morte dello zio Alessandro (che pure sarà duramente condannato per bocca di Mastro Adamao nel canto XXX dell’Inferno).
Ancora più significativa, di questa attività del bandito che si procaccia un salato “pane”, sempre precario nella geografia dei poteri dell’epoca, è il gruppo di epistole scritte per conto (e in nome) di Gherardesca, moglie di Guido di Battifole, conte palatino del Casentino e indirizzate, nel 1311, alla moglie dell’imperatore Enrico VII. Si tratta di lettere galanti, tipicamente aristocratiche, nelle quali, da una parte, il timbro si mantiene burocratico, dall’altra emerge, qua e là, l’autorialità dantesca, soprattutto nell’intrufolare note di autobiografia (come nella II).
7. Gli anni di Enrico VII costituiscono un passaggio fondamentale, nella scrittura dantesca: nel gruppo cosiddetto “arrighiano” (V, VI, VII) Dante sperimenta elementi estremamente importanti per la definizione della sua personalità di autore letterario: sul problema dell’auto-rappresentazione, sul terreno della sua collocazione definitiva rispetto al mondo dei poteri e e su quello della teorizzazione del rapporto tra Impero e sacerdozio. Si tenga conto che tra l’incoronazione di Enrico (nel 1308) e la sua morte (improvvisa) nel 1313, Dante conduce a termine una buona parte delle prime due cantiche. Quando Enrico decide di scendere in Italia per ottenere la corona imperiale, papa Clemente V (con la bolla Exultet in gloria) ordina a tutti i signori, principi e comuni di riconoscerlo come imperatore. Questo è un momento di grande mobilitazione collettiva degli intellettuali. Anche il modo in cui viene impostata la spedizione da parte di Enrico – che punta a una radicale pacificazione all’interno delle città abolendo le parti e le disposizioni persecutorie nei confronti dei fuoriusciti – aveva creato un clima di attesa: a questo clima partecipa Dante, il quale, precipitandosi da Parigi per seguire le vicende italiane, vi assume un ruolo protagonistico, quasi da intellettuale di riferimento del milieu intorno all’imperatore.
In questo contesto, le epistole, nel documentare le vicende di quegli anni, ci mostrano un autore impegnato su terreni molteplici, che diventa finalmente preminente (quasi esorbitante) rispetto alla setssa scrittura epistolare. Già nell’epistola V si vanno – nel fuoco degli eventi – stabilizzando delle concettualizzazioni che saranno poi definitivamente conquiste del pensiero dantesco. Dante riconosce all’Impero un’origine divina in quanto frutto della Dei ordinatio; la sua giurisdizione non ha confini, costituendo l’unica guida che può garantire la pace come nel caso della pax augusta durata dodici anni; infine la denuncia della cupidigia come radice del mancato riconoscimento del mandato imperiale, all’origine dell’impossibilità dello sviluppo del ruolo di Impero e Chiesa in quanto rimedio e argine dei peccati. Le epistole seguenti, VI e VII, confermano e rafforzano questo nucleo teorico, semmai precisando il rapporto tra Impero e realtà istituzionali locali: in questo ambito è particolarmente significativa l’accusa che Dante muove ai Fiorentini, i quali, nell’illegittima resistenza attuata nei confronti del mandato imperiale, creano una mostruosità politica (lo sdoppiamento dei poteri).
Ciò che conta è riscontrare oramai, in una fase in cui il progetto della Comedia è ben avviato, la precisa sperimentazione dantesca di un’auto-investitura profetica che trova una prima realizzazione in questi testi, nei quali viene mobilitata un’impressionante mole di richiami, di origine insieme biblica e classica. In questo processo riveste un ruolo centrale la costruzione della propria autorità di “scrittore della verità” in rapporto, soprattutto, con il precedente di Giovanni Battista. Il processo si definisce – in rapporto con il fondamentale precedente costituito dall’epistolario di Pier della Vigna – nella fondamentale Epistola XI rivolta ai Cardinali italiani durante il conclave di Carpentras (1314). In questa sede Dante, dopo il fallimento della missione di Enrico, approda alla consapevolezza del potere della scrittura: l’autore della Comedìa si dedica, ormai, in qualità di nuovo Giovanni Battista, a un disegno intellettuale totalizzante, vox clamantis in deserto destinata «a porre mano a cielo e terra.»
Forse non è un caso se, nell’anno successivo, Dante verrà nuovamente – e definitivamente – mandato al rogo. Il tempo è maturo per l’ultimo rifugio – e per il Paradiso. In quel frangente, su cui le epistole rimangono drammaticamente silenziose, si consumano le possibilità di recupero – di pacificazione e di ritorno. Firenze non può più perdonare l’Alighieri perché l’Alighieri non è più il Priore del 1300. Egli è ormai il profeta di Enrico VII, il sostenitore della riforma ecclesiastica, l’autore della Comedìa. Anche Villani, pure suo grande ammiratore, non gli perdonerà una voce troppo severa nei confronti della città. Firenze, in fondo, non ha risparmiato Dante – proprio come Dante, ormai, non perdonerà più Firenze. In questo infiammato chiudersi di prospettive c’è tutto il segreto delle epistole – che è un po’ anche il segreto dell’esilio del poeta.
[1] In realtà si tratta di un istituto criminale tipicamente medievale che si chiama “bando”, ed è un’istituzione molto simile alla scomunica, che punta a colpire chi si è reso colpevole di attentato alla vita pubblica del Comune, ma che può essere reintegrato se chiede e ottiene il perdono