di Gianluca Virgilio
Tutto aveva inizio in classe, di solito il giovedì grasso, col passaggio di bigliettini di banco in banco, tra un’ora e l’altra, durante la ricreazione o l’uscita di scuola, quando ci si metteva d’accordo per la mascherata della sera. S’intende che la giornata scorreva frenetica, pervasa dall’unico pensiero del divertimento imminente, che rendeva piuttosto scolorite le battaglie epiche tra greci e troiani o le traversie di Renzo e Lucia. “Tie ce te minti?”, “E tie?”. Io sapevo già che avrei indossato il pigiama liso di mio padre, mentre c’era sempre il figlio di papà che avrebbe sfoggiato il vestito di Arlecchino o il domino acquistato per il Veglioncino dei bambini, la festa ufficiale del carnevale cittadino, quando tutti i grandi si sedevano a teatro per vedere le esibizioni dei loro pargoli in maschera sul palcoscenico.
Noi invece ci riunivamo in bande di una decina, quindicina di ragazzi, seguendo l’esempio dei più grandi; ci riunivamo nel pomeriggio nella casa di uno di noi, spesso nel garage di casa mia, dove ci cambiavamo d’abito. Il travestimento era il primo atto del nostro carnevale. Mio padre aveva manifestato più volte la volontà di non indossare più il pigiama invernale e allora mia madre me lo cedeva volentieri – il riuso e il multiuso erano sue prerogative indefettibili -; mi stava piuttosto largo, ma ciò andava a tutto vantaggio del camuffamento. Con una cordellina legavo ai fianchi pantaloni e giacca insieme; poi, calzavo degli zoccoli con tanto di zeppa che mi facevano più alto di qualche centimetro; e infine impugnavo il bastone. Insisti ed insisti, alla fine mia madre doveva cedermi per due o tre ore la mazza della scopa, che sicuramente le avrei riportato integra. Che me ne facevo del bastone? Nel mio caso serviva a completare la mia maschera, che evidentemente consisteva nella parodia di mio padre, colui che nella vita di tutti i giorni esercitava su di me l’autorità suprema. Egli infatti si accompagnava al bastone per via della paralisi agli arti inferiori che lo aveva colto in età infantile; sicché ora posso dire che mio padre per l’interposta persona del figlio se ne andava in giro in pigiama a tarda sera per le strade della città dove faceva il professore di liceo. Ci tengo a dire che tutto questo avveniva senza alcuna mia premeditazione! È anche vero che molti di noi si armavano di bastone perché questo serviva a dare “allu masciu”, cioè alla maschera, un’aria decisa e aggressiva. Con il bastone “lu masciu” picchiava sui pali della luce e del telefono, strisciava le inferriate delle case, batteva colpi per terra, faceva insomma tutto il baccano possibile per attirare l’attenzione della gente, sia di quella che si incontrava per strada e che si scansava al nostro passaggio sia di quella rintanata nelle case che si affacciava ai balconi per vedere passare “li masci”; se non si affacciava, ci pensavamo noi a stanarla: suonavamo all’impazzata i campanelli, tanto che alla fine gli abitanti, se volevano salvare il campanello da un guasto certo, dovevano farsi vedere. “Li masci, li masci”, gridavamo fino a perdere il fiato, fischiando e cantando, facendo versi e versacci. Tutto si può dire dietro una maschera. La si comprava alla rivendita della Maria Crossa, ma alcuni ancora la facevano in casa o anche a scuola, nell’ora di Applicazioni tecniche, ritagliando il cartone e colorandolo coi pastelli. Poi bastava un elastico e la maschera era fatta.
Volevamo che le persone venissero fuori dalle case, che ci vedessero sfilare. Ma qualche volta dovevamo anche correre, nel caso in cui qualcuno, sentendosi disturbato nella sua quiete serale, ci inseguisse arrabbiato per prenderci a calci. Noi comunque eravamo delle bande e cercavamo di farci rispettare. Gruppi di dieci, quindici, come ho detto, ma si vedevano in giro anche bande più numerose e più temibili, formate da venti, trenta ragazzi, a volte giovani sui vent’anni, che scorrazzavano per la città. E come ogni banda voleva incutere negli spettatori un certo stupore misto a tremore, così faceva lo stesso effetto sulle altre bande che per caso si fossero trovate sulla sua strada. Cercavamo di evitarci, ogni banda per sé. Si favoleggiava, infatti, che un tempo c’erano stati degli scontri, in cui davvero i bastoni avevano fatto la loro parte e addirittura aveva brillato la lama d’un coltello. Sicché era meglio tenersi lontano dalle altre bande perché dietro le maschere non si poteva sapere chi stava nascosto. Alla svolta di una strada, ecco una masnada di “masci” che avanzava agitando i bastoni; e noi via, di corsa, facendo marcia indietro, per sfuggire ad un eventuale inseguimento. Poi, una volta al sicuro – nessuno invero ci stava inseguendo – ci fermavamo e tiravamo il fiato.
Suonavamo a casa dei nostri professori. Alcuni non ci aprivano, neanche a costo di vedersi guastare il campanello: erano i più severi, o meglio, i meno dotati di humour; altri sì, ma solo a patto che ci facessimo conoscere come studenti rispettosi e disciplinati – come in realtà, tutto sommato, eravamo -, il che ci distingueva da certe bande che andavano il giro per la città. Una volta in casa, iniziava la gara del singolo riconoscimento, che il professore alla fine vinceva nonostante tutte le nostre dissimulazioni. Allora, tolta la maschera, il carnevale era finito, almeno in quella casa, e ci conveniva andar via, non senza riportare con noi qualche caramella, come ricompensa dell’avvenuto riconoscimento, neanche fossimo ancora bambini di scuola elementare.
All’uscita, ci rimettevamo la maschera e riprendevamo le nostre scorribande di casa in casa fino a sentirci le ossa rotte per la stanchezza e nessun fiato in gola. A furia di gridare “li masci, li masci”, molti di noi avevano perso la voce. Per tre ore avevamo dato spettacolo e ci eravamo divertiti. Alle nove di sera, le bande in circolazione erano sempre più rare. Allora tornavamo a casa anche noi, ci cambiavamo nel garage e ci davamo appuntamento per un’altra serata carnevalesca. Mancava qualche giorno per il martedì grasso e quindi avremmo potuto uscire di nuovo per le strade della città. Ridavo la mazza della scopa a mia madre, che la esaminava nel caso in cui l’avessi rotta, e il pigiama di mio padre, che avrei potuto ancora utilizzare nei giorni seguenti. Mentre ci cambiavamo, mio padre si affacciava alla porta del garage per vederci riacquistare le nostre spoglie normali e diceva: “Allora, ragazzi, vi siete divertiti?”. E a noi che annuivamo, rispondeva: “Semel in anno licet insanire!”.