di Rosario Coluccia
Anche se a volte non ce ne accorgiamo, l’Italia è un paese intensamente plurilingue. Oltre all’italiano, nostra lingua ufficiale, e ai tanti dialetti vivi e diffusi nella penisola, dal piemontese fino al siciliano, in territori più ristretti si parlano altre lingue: il francese in Val d’Aosta, il tedesco in Alto Adige, lo sloveno in Friuli, il ladino nelle valli dolomitiche, il catalano ad Alghero, l’albanese e il greco in alcune regioni meridionali, ecc. Lingue parlate nel nostro paese da gruppi minoritari di popolazione, le cosiddette minoranze linguistiche: definiamo in questo modo quei gruppi di cittadini (italiani a pieno titolo e a tutti gli effetti) che, oltre alla lingua nazionale ed eventualmente a uno o più dialetti italiani, conoscono e usano una lingua diversa dall’italiano. Lingua appresa spontaneamente perché viva nella comunità d’origine, non studiata a scuola, né in corsi di lingua, né all’estero.
Gli incroci delle lingue indicano contatti di popoli e di tradizioni, la cui coesistenza va regolamentata (oltre che affidata al buonsenso). Situazione complesse non possono essere abbandonate al caso o all’improvvisazione, meritano una definizione legislativa: la legge 482 del 15 dicembre 1999 esplicita in maniera dettagliata le «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», norme generali valide per l’intero territorio nazionale. Ma non mancano i problemi, le situazioni in Italia sono molto diverse.
Alcuni gruppi minoritari, situati ai confini settentrionali della nazione, hanno (per ragioni storiche) punti di riferimento esterni, nazioni collocate a un passo dalle nostre frontiere: la Francia per la Val D’Aosta, l’Austria per l’Alto Adige, la Slovenia per il Friuli. Questi paesi fanno tutti parte dell’Unione Europea e l’appartenenza comune riduce le occasioni di contrasto (finché l’Europa, per fortuna, resta in piedi). Ma non c’è dubbio che una parte (difficile dire quanto estesa) delle popolazioni di lingua tedesca e di lingua slovena rifiuta, in tutto o in parte, i caratteri identitari dei quali è portatore il resto della popolazione italiana, a partire dalla lingua nazionale; quella parte cerca invece un rapporto di solidarietà culturale e politica con la popolazione di un paese diverso (l’Austria nel primo caso, la Slovenia nel secondo).
Lo stesso non accade con i parlanti grico di Salento e Calabria, con i parlanti albanesi di Salento, Basilicata, Calabria e Molise, con i parlanti provenzali di Guardia Piemontese in Calabria, con i parlanti franco-provenzali di Celle e Faeto nel foggiano, con i parlanti catalano di Alghero in Sardegna. Queste comunità, da secoli radicate in Italia, storicamente hanno intrattenuto relazioni meno stabili con i paesi d’origine, il più delle volte riavviate solo recentemente. Esse sono riconducibili a eredità del passato e a situazioni storiche precise, a migrazioni di popoli che in secoli remoti da altri paesi son venuti a stanziarsi in Italia, per varie ragioni: per colonizzare, per conquistare, per lavorare, per sfuggire a persecuzioni, ecc. Di tutto ciò parleremo un’altra volta, in particolare faremo riferimento alla situazione del Salento. Parliamo invece delle minoranze linguistiche lontane, collocate ai confini settentrionali d’Italia. Recenti fatti di cronaca ce lo impongono.
L’uso del francese in Val d’Aosta è molto antico. Al momento attuale il francese è riconosciuto dallo stato italiano come lingua minoritaria, le due lingue (italiano e francese) possono essere entrambe usate nei rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione, bilingui sono la segnaletica stradale e la toponomastica (nomi di luoghi, di città, di fiumi). Anche l’educazione scolastica, regolata da apposite normative nazionali e regionali, viene impartita in italiano e in francese.
La popolazione di dialetto tirolese e di lingua tedesca di Trentino e Alto Adige è entrata a far parte dello stato italiano alla fine della prima guerra mondiale. Gli accordi De Gasperi-Gruber (1946) garantiscono forme concrete di autonomia amministrativa e culturale a questi cittadini, compresa l’istituzione (1948) di una regione a statuto speciale; successiva è l’emissione di un particolare “pacchetto” di provvedimenti a favore della minoranza di lingua tedesca (1969), compreso un nuovo statuto regionale (1972). Ma, nonostante le intenzioni, in Alto Adige non si può parlare di una società effettivamente plurilingue, multiculturale e multietnica. Predominano i contesti di monolinguismo (tedesco). Paradossalmente, la discriminazione riguarda il gruppo linguistico italiano (ne vedremo, tra poco, un clamoroso esempio).
La minoranza slovena in Friuli (in particolare a Trieste e a Gorizia) è stimata in poco più di 60.000 persone. La legislazione nazionale e quella regionale istituisce per tutta l’area di lingua e cultura slava del Friuli Venezia Giulia condizioni di bilinguismo paritetico italiano-sloveno affini, almeno in linea di principio, a quelle vigenti in Val D’Aosta (per il francese) e in Alto Adige (per il tedesco).
Vivere in armonia è possibile, ma occorrono tolleranza e rispetto. A questi principi non si ispirano le proposte di una Commissione paritetica Stato/Provincia autonoma di Bolzano, detta «Commissione dei Sei», che mettono gravemente in pericolo la toponomastica bilingue italiano-tedesca in Alto Adige. Finora i nomi di città, di borghi, ecc. sono sempre scritti nelle due lingue: Bolzano / Bozen, Brixen / Bressanone, Merano / Meran, Sibeneich / Settequerce, ecc. La «Commissione dei Sei» si accingeva ad approvare una norma che, applicata in un certo modo, avrebbe potuto cancellare i nomi dei luoghi italiani dalla toponomastica ufficiale della Regione.
Per fortuna ci sono state reazioni. L’Accademia della Crusca, autorevoli esponenti del mondo accademico tedesco, polacco, inglese, americano e naturalmente italiano hanno sottoscritto un appello al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio, alla Ministra dell’Istruzione affinché venga fermata un’iniziativa che non ha fondamenti giuridici né linguistici. 102 senatori di tutti i gruppi parlamentari (eccetto i Cinque Stelle che non si sono pronunziati) hanno sollecitato la «Commissione dei Sei» a sospendere ogni decisione.
L’8 marzo, il colpo di scena (positivo). Nel giorno che doveva sancire l’abolizione dei nostri toponimi in Alto Adige, la norma proposta dalla «Commissione dei Sei» è stata bloccata. I dettagli sono in un articolo di Federico Guiglia sul «Messaggero» del 9 marzo, p. 13. Nello stesso numero del giornale, a pp. 1 e 22, un articolo di Carlo Nordio si intitola: «Cancellare i nomi italiani, una follia che va fermata».
L’intervento di cultura e politica, per una volta concordi, ha funzionato: è stata fermata un’azione strumentale, rivalsa anacronistica nell’Europa della coesistenza plurilingue. Non si può impedire ai cittadini italiani di continuare a usare, in Italia, nomi ufficiali italiani che esistono da un secolo. Garantendo ovviamente il diritto contestuale dei cittadini di lingua tedesca di usare anche il tedesco per i nomi delle stesse località. La partita non è neutra, non è una questione di puri nomi senza importanza. Sono in ballo la comprensione reciproca e la convivenza paritaria di etnie e di gruppi linguistici diversi: in una parola, la democrazia. Le scelte linguistiche sono scelte politiche. Se ne riparlerà, con nuovi esempi, la prossima settimana.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 12 marzo 2017]