Le traduzioni ‘metriche’ di Giovanni Pascoli

di Pietro Giannini

Sulle traduzioni di G. Pascoli da poeti classici grava da tempo il peso di alcune condanne. La prima in ordine di tempo è la sentenza di B. Croce che nel 1907, vivo ancora il poeta, definiva le sue versioni epiche «un Omero alquanto rimbambinito».1

Segue la stroncatura di S. Quasimodo. Nella lettera del 10 luglio 1937 a Maria Cumani, in cui annuncia di aver tradotto durante la notte un’ode di Saffo, egli scrive: «Ma, se ti capita, confronta la traduzione tentata dal Foscolo della stessa ode e vedrai quanto il melodramma abbia reso ridicola quella purissima poesia. E quella di Pascoli?».2 L’interrogativo, che sottintende un giudizio negativo, non ne chiarisce però le ragioni. Che sono invece più evidenti nel Chiarimento e note alle traduzioni dei Lirici greci del 1940, in cui si legge: «Ho eluso il metodo delle equivalenze metriche perché i risultati da esso conseguiti, se pure avvicinarono al battito delle arsi, al silenzio delle tesi, agli spazi delle cesure, alla norma tecnica, infine astratta, dell’antico testo poetico, non ci resero nel tempo stesso la evidenza delle parole costituite a verso». Qui, anche se non esplicito, è manifesto il richiamo al Pascoli, che appunto delle ‘equivalenze metriche’ aveva fatto il suo personale (anche se non esclusivo) metodo di traduzione.3

Successiva è la condanna di Valgimigli, che nel 1946 definì «faticosi, noiosi e vani» i tentativi di Pascoli, «dei quali, più che Omero, la maggior vittima è stato Orazio».4 Una condanna troppo severa e forse ingenerosa5. Una ulteriore valutazione poco lusinghiera, ma più equilibrata, che tocca gli aspetti sia linguistici sia metrici, è quello di Devoto.6

Tutto ciò ha portato ad una sostanziale irrilevanza delle traduzioni nel panorama della produzione pascoliana,7 nonostante l’importanza che vi annetteva il poeta, come dimostra uno dei tre tavoli di lavoro di Castelvecchio.

Non è mia intenzione, in questa sede, ribaltare questi giudizi, ma, dopo aver fatto una lettura diretta delle traduzioni nella vulgata mondadoriana,8 mi è parso che essi siano troppo sommari e in qualche caso viziati da pregiudizi;9 insomma credo che si potrebbe riprendere il discorso sulle traduzioni per procedere ad una riconsiderazione più serena e per valutarle in un modo più comprensivo delle intenzioni che le motivarono.

In realtà, sono stato condotto alla loro lettura da interessi di metrica classica (come sarà evidente dal prosieguo del discorso), ma l’avventuroso percorso, che mi ha portato ad un approfondimento sia tematico sia critico-bibliografico, mi ha consentito di cogliere alcuni aspetti delle traduzioni relativi al contesto storico-culturale in cui maturarono, all’ampiezza delle loro applicazioni e ad alcuni presupposti teorici. E su questi temi intendo soffermarmi, attenendomi alla linea della metrica classica, con particolare riguardo ai testi greci. Solo alla fine tenterò qualche valutazione critica.

Come si sa, l’avvio ufficiale delle traduzioni metriche del Pascoli è il Volgarizzamento del principio della Batracomiomachia, presentato al Carducci come terzo lavoro per la scuola di Magistero nell’anno scolastico 1880-81.10 Nel Proemio che accompagnava la traduzione egli dava alcune indicazioni sul metodo da lui usato:11

 

Negli esametri della mia traduzione si conservano le qevsei” al loro posto. Che con ciò siano piuttosto un poco somiglianti che uguali a quegli antichi, è chiaro: noi non s’ha quantità, tale almeno da poterla misurare. Hanno peraltro la monotonia epica, essendo tutti uguali di sillabe e d’accenti, ma anche un certo balzellare di tre sillabe in tre sillabe fastidioso anzi che no. […]

Quanto alle cesure, poche pentemimeri, molte trocaiche, qualche eftemimere, al contrario dei latini.

 

Pascoli dimostra di avere già le idee chiare: i versi sono esametri greci che rispettano gli ictus (ma Pascoli li chiama qevsei”, e si badi a questo termine12) e le pause metriche degli originali; il loro ritmo è costantemente dattilico. Ancora acerba l’idea della quantità rispetto alla teorizzazione sulle sillabe lunghe, brevi, comuni o ancipiti delle successive (1899-1900) Regole di metrica neoclassica.13

A queste idee fa riscontro un consapevole atteggiamento autonomo nei confronti della poesia ‘barbara’ praticata da Carducci proprio in quegli anni, come attesta un episodio accaduto nel 1881, raccontato da Maria Pascoli.14 In una delle riunioni che teneva presso il suo studio, Carducci lesse una delle sue odi barbare, riscuotendo l’entusiastico apprezzamento di tutti gli allievi. Uno di loro, il Brilli, si lasciò andare ad una esclamazione in dialetto la quale diceva in sostanza che di fronte alla poesia di Carducci tutti dovevano impiccarsi. Anche il Pascoli, interpellato direttamente, espresse il suo giudizio positivo. Ecco il seguito con le parole di Maria Pascoli:

 

Poi lui e il maestro si misero a ragionare dei metri, dei ritmi, degli accenti della poesia barbara e delle difficoltà che essa presentava, non tutte facili da superare ecc. ecc. Uscendo dal ritrovo Giovannino, incontrandosi faccia a faccia col Brilli, non si poté trattenere dal dirgli: “Tu, dunque, vorresti che, se il Carducci fa una bella poesia, ci dovremmo impiccare tutti? Impiccati tu! Io non m’impicco davvero”. Al che l’altro, grave e solenne: “E’ un uomo superiore! E’ un uomo superiore!”. Giovanni proruppe in una grande risata che richiamò gli sguardi di tutta la compagnia.

 

Se l’episodio, come propone Capovilla,15 deve essere interpretato come una presa di distanza dalla maniera carducciana di intendere i versi classici, esso dimostra la presenza di un chiaro proposito innovativo, che il Pascoli perseguì per tutta la vita e che costituisce uno dei motivi conduttori della sua attività di poeta e di critico.16

Bisogna aggiungere che il Volgarizzamento, nonostante fosse redatto con criteri difformi da quelli carducciani, forse per considerazioni estranee al lavoro stesso o forse per il tono autocritico che concludeva il Proemio già ricordato, fu valutato con «Molto bene» dal Carducci.17

Chiarita la saldezza delle intenzioni che danno origine all’approccio ‘metrico’ alle traduzioni dalla poesia classica, vogliamo spendere qualche parola per illustrare alcune significative connessioni culturali. Una notizia ci sembra importante. Maria Pascoli, riferendosi al biennio 1880-82, informa che esistono a Castelvecchio dei «fascicoli che contengono studi suoi particolari intorno a Saffo, alla metrica e al ritmo della poesia greca» e soprattutto «un fascicolo intero di appunti di “metrica classica” da lezioni del prof. Vitelli dell’Istituto Superiore di Firenze, copiati con carattere minutissimo da lui, da fascicoli che si faceva procurare da Severino. Per i suoi studi particolari della lingua e della poesia greca, e per la tesi di laurea di argomento greco che stava elaborando, non riteneva inutile la conoscenza dell’insegnamento metrico del dotto professore di greco».18

Si può senz’altro essere d’accordo con la considerazione di Capovilla che «lo studente, forse non pago dell’insegnamento impartito nell’Ateneo bolognese dal grecista Pelliccioni e dal latinista Gandino, cercasse un approccio più scientifico alla materia accedendo al magistero del Vitelli».19 Ma si deve aggiungere che il Vitelli era, in quel momento, il massimo rappresentante in Italia di quell’indirizzo filologico tedesco contro cui qualche tempo prima si era scagliato proprio il Pelliccioni.20 Vitelli aveva studiato a Lipsia col Curtius e con il Ritschl, discepolo a sua volta di Hermann.21 E probabilmente alle teorie di Hermann si ispiravano le nozioni di metrica classica contenute negli appunti acquisiti dal Pascoli.

In assenza di una loro lettura (che sarebbe fortemente auspicabile) nulla si può dire; non va dimenticato peraltro che le stesse idee potevano già circolare in Italia e che il Pascoli aveva certamente una solida preparazione metrica che gli proveniva dagli studi di latino. Ma indizi sicuri del sistema hermanniano si rinvengono nelle nozioni di metrica utilizzate da Pascoli sin dalla tesi di laurea su Alceo,22 a cui egli si preparava con quegli appunti, e che egli discusse nel 1882. Qui, in una ricostruzione per alcuni aspetti fantasiosa della metrica greca arcaica,23 sono presenti alcune nozioni hermanniane quali quella di ‘base’ dei versi eolici (cioè le prime due sillabe che si possono realizzare indifferentemente come lunga o come breve), di ‘anacrusi’ (ossia della parte del verso che precede il primo tempo forte) e di ‘logaedi’ (cioè dei versi nella cui struttura metrica si alternano piedi dattilici e piedi trocaici). Non vi compare una fondamentale nozione hermanniana, quella di ictus, ossia di tempo ritmico forte, di natura intensiva,24 ma su di essa, come si sa, è costruita tutta la successiva Lettera a Giuseppe Chiarini, che costituisce una vera e propria Ars poetica pascoliana.25

L’ictus hermanniano era, come sottolinea il Del Grande,26 l’applicazione dell’«uso di lettura già in voga nelle scuole tedesche».27 Ed appunto il tipo di lettura dei versi classici secondo gli ictus metrici si affermò in Italia a seguito della divulgazione delle relative teorie metriche (detto perciò ‘alla tedesca’) a scapito della tradizionale lettura ad accenti grammaticali (detta perciò ‘all’italiana’). In sostanza, l’innovazione di Pascoli consiste nel sostituire agli esametri carducciani, costruiti sulla lettura grammaticale dei versi classici, gli esametri esemplati sulla lettura ritmica.

Le ragioni di questo mutamento sono intelligibili già nel Volgarizzamento citato, ma sono rese esplicite in scritti della maturità, in primo luogo nella Lettera al Chiarini, sulla base di una dotta discussione sulla presenza delle due letture già nel mondo latino, e quindi col riconoscimento anche alle odi barbare del Carducci di una base scientifica che alcuni gli negavano.28 Ecco le sue parole: «[…]io penso che la metrica Carducciana abbia la sua base razionale e storica, perché i suoi versi corrispondono alla pronuncia grammaticale dei versi antichi»; e, più avanti: «In vero, ella (scil. il Chiarini) preferisce di lui (scil. del Carducci) gli esametri “che corrispondono ai versi eroici latini letti secondo arsi”».29 Qui il poeta, per eccesso di ossequio, attribuisce al Chiarini delle esigenze che sono, e da tempo, sue proprie.

Il modello, proposto anche dal Chiarini, sono gli esametri tedeschi; il fine è quello proclamato verso la fine della Lettera: quello di «dare la cittadinanza italiana specialmente ai poemi epici dell’antichità; che non l’hanno, checché si dica, non l’hanno! L’endecasillabo è un bel verso, è il bellissimo dei versi, se si vuole; e io l’amo d’amore unico. Bene; ma a tradurre Omero e Virgilio, non serve. Non serve, perché quasi mai, e non senza storpiare o mutilare la frase e l’imagine e l’idea, l’endecasillabo del traduttore può contenere l’esametro dell’autore, e quindi diverse sono, nel traduttore e nell’autore, le clausole, cioè tutto».30

Ma, per intendere pienamente il senso dell’esperimento pascoliano, bisogna tenere presente un’altra nozione, che circola nella Lettera del Chiarini: quella di ‘recitazione conveniente’. Egli la riferisce ai versi latini31 già dell’epoca classica, quando coesistevano le due letture, grammaticale e ritmica, del verso e per «pronunciare ritmicamente il verso non bastava l’orecchio, ci voleva spesso anche il dito»32 (ossia la percussione del dito pollice), ma soprattutto ai versi latini dell’epoca tarda, quando il senso della quantità si attenuò e l’accento ritmico dei versi aveva bisogno del plaudere, dello scandere, come si legge nel De musica di Sant’Agostino. Cioè del plausus, del battito della mano, che segnava l’ictus, il tempo forte. Questa ‘recitazione conveniente’ si basava su una coscienza ritmica per cui «ci voleva che l’oratore […] nell’arringare fosse trascinato, a porre l’arsi […], dal movimento, per così dire, delle parole che precedevano o seguivano. Ci voleva che l’ascoltatore percepisse quel movimento come serie a lui familiare».33 Egli cita come esempio l’inizio degli Annali di Tacito, Urbem Romam a principio reges habuere, che soltanto con una ‘recitazione conveniente’ poteva essere sentito come un esametro. Ma cita anche l’inizio de I Promessi sposi, in cui solo una ‘recitazione conveniente’ può far riconoscere in «Quel ramo del lago di Como» un novenario.

E’ appunto questa ‘recitazione conveniente’ che rende percepibili nella lingua italiana gli esametri classici. Essa, nella Lettera, viene ancorata ad una complessa teoria sulla quantità delle sillabe italiane, secondo cui (come detto più esplicitamente nelle connesse Regole di metrica neoclassica) sono lunghe le sillabe toniche, semilunghe quelle fornite di accento secondario, brevi le sillabe atone. Ma: «si deve ammettere che una sillaba breve (o atona) o semilunga […] possa essere fatta lunga per virtù dell’ictus, ché ciò è pur nelle lingue classiche: non si deve ammettere il contrario, cioè che una lunga o tonica possa essere abbreviata». E più avanti: «Il lettore, dunque, di siffatti versi neoclassici è avvertito di pronunziare accentate tutte le parole e sillabe accentate, e di picchiar bene con la pronunzia, e di non trascurare le metatoniche e le iniziali».34

Quindi solo una pronuncia ‘picchiata’35 (che va adottata, anche pedantemente, nella lettura dei versi36) è in grado di mettere in evidenza i modelli classici che sottendono le traduzioni di Pascoli.37 Essa legittima sul piano ritmico le ‘licenze’ che talvolta l’applicazione rigorosa del metodo inevitabilmente comporta, e di cui lo stesso Pascoli era cosciente fin dal Volgarizzamento. Scrive nel Proemio citato:38

 

Licenze, non me ne sono prese molte: ho solo battuto su qualche particella proclitica e sorvolato su sillabe toniche, in modo p. es. di fare di – e così – un dattilo; ma ciò si vede anche nei versi nostrani. Ho evitato quasi sempre gli spondei, chè non se ne può fare che non siano trochei e giambi…

 

Un esempio di proclitica ‘battuta’ è nel primo verso del brano:

 

C’era una volta…’ un topo, che pér una donnola essendo

morto di sete…,39

 

dove la particolarità è segnalata nell’autografo dall’accento acuto posto su «per». Nello stesso verso vi è un apostrofo per indicare lo iato tra «volta» e «un».40 Segni che, insieme alla dieresi ed all’indicazione delle sillabe brevi e lunghe, fanno dell’autografo un vero e proprio spartito ritmico.41

Diamo qualche altro esempio:42

  • di proclitica ‘battuta’ e di dieresi:

 

Donnola e nibbio che sono, ah!, lá passïone mia grande

 

  • di sillaba breve e di proclitica ‘battuta’:

 

e pur la trappola negra ǒve á tradimento si muore

 

  • di sillaba breve e di dieresi:

 

Non ǐǒ rafani, non citrióli, non cavoli rodo

 

  • di sillabe lunghe:

 

ma in allegria tu pervenga ne l’ ōspītale mia casa

 

dove si segnala un eccezionale spondeo.

Per quanto riguarda il caso di «e così» con misura di dattilo, forse si tratta di un lapsus perché nel testo troviamo casi di «non così» e di «poi così» all’inizio del verso con lo stesso valore prosodico: ad es.:

 

Non così il toro sul dorso portavane, peso d’amore.43

 

Si tratta solo di una documentazione esemplificativa di procedimenti che vengono largamente usati e che danno un carattere artificioso a molte traduzioni metriche,44 pur non mancando, come vedremo, esempi di buona qualità. Gli esametri sono, come osserva Garboli, «faticosi, ma pieni di entusiasmo, di ricerca, di vita».45

A questo punto, va fatta una precisazione. Come si è visto, il metodo neoclassico è teorizzato dal Pascoli per gli esametri epici, ma la sua applicazione non è limitata ad essi. Gli esametri sono certamente la parte più cospicua e sono in prevalenza46 quelli della progettata versione completa dell’Iliade e dell’Odissea.47 che però, egli non potè realizzare a causa delle «molte varie e continue occupazioni» che egli ebbe. Queste traduzioni apparvero via via nelle varie antologie scolastiche che il Pascoli pubblicò, da Lyra romana (1894) a Epos (1897) a Sul limitare (1899), e furono poi raccolte da Maria Pascoli nel volume Traduzioni e riduzioni del 1913 (da cui abbiamo tratto l’osservazione precedente48), volume inglobato poi nelle Poesie del 1939, più volte riedite con aggiunte e correzioni.49 Ma anche le traduzioni da altri tipi di verso rientrano a buon diritto nel canone neoclassico. Ne diamo di seguito un elenco, indicando anche un esempio della loro realizzazione ritmica.50

  1. il distico elegiaco: esametro e pentametro. Qui l’andamento del pentametro è ottenuto con monosillabi o parole tronche alla fine di ciascun emistichio. Un esempio da Archiloco:

 

Pericle, pianti piangendo e sospiri, non un cittadino

può di banchetti aver gioia più, né l’intera città51

 

(gioia è evidentemente monosillabico);

  1. la strofe saffica:52 tre endecasillabi saffici53 e un adonio. Un esempio da Saffo, dalla condannata (da Quasimodo) ode della gelosia:

 

A me pare simile a Dio quell’uomo,

quale e’ sia, che in faccia ti siede, e fiso

tutto in te, da presso t’ascolta, dolce-

mente parlare,54

 

dove l’innaturale divisione «dolce-/mente» vuole riprodurre la sinafia metrica dell’originale, pur con parole diverse (fwneiv-Ésa” uJpakouvei);

  1. strofe alcaica: due endecasillabi, un enneasillabo ed un decasillabo alcaici. Un esempio da Orazio:

 

Chi mai nel nuovo tempio il poeta al dio

domanda, mentre versa il vin nuovo dal-

la tazza e prega? Non le messi

fertili dalla Sardegna opima,55

 

dove è da segnalare la chiusa degli endecasillabi in tempo forte, quindi in sillaba tonica (e con una eccezionale divisione di parole tra il 2° e 3° verso, non giustificata dal modello classico), diversamente dalla chiusa sdrucciola carducciana, corrispondente alla interpretazione dattilica;

  1. sistema asclepiadeo primo: strofe di quattro asclepiadei minori. Da Orazio:

 

Forte più che di bronzo il monumento mio:56

 

la regolarità ritmica richiede la sinalefe tra «bronzo» e «il», con due ictus consecutivi, e la scansione monosillabica di «mio».

  1. sistema asclepiadeo terzo: due asclepiadei minori, un ferecrateo e un gliconeo. Un altro esempio da Orazio:

 

Fonte di Bandusia, puro cristallo, che

vino meriti e fiori, ecco domani a te

d’un capretto vuo’ fare

dono: ha g le prime corna, e già:57

 

qui bisogna osservare che il primo emistichio degli asclepiadei minori non ha la chiusa tronca richiesta (presente invece nel secondo) e il gliconeo finale è molto forzato. Nelle altre strofe la resa ritmica è più regolare;

  1. sistema asclepiadeo quarto: gliconeo e asclepiadeo minore. Ancora da Orazio:

 

Di Nettuno è la festa: e che

debbo fare? Tu via, Lide, quel Cècubo,58

 

dove l’ eccezionale chiusa dattilica dell’asclepiadeo è motivata dal nome proprio:

  1. sistema asclepiadeo quinto: strofe di quattro asclepiadei maggiori. Questo verso, secondo la prassi latina è costituito da un asclepiadeo minore con l’aggiunta di un coriambo dopo la dieresi:

 

Non cercare così – che non si p – quale a me quale a te.59

 

La traduzione (così commenta Del Grande60) «è veramente mirabile non tanto per la riproduzione del ritmo originario, ma per la riproduzione del ritmo quale allora si credeva che fosse, in alcuni versi ripreso in modo che non si potrebbe dire più preciso».

  1. trimetro giambico. Da Menandro:

 

Poniam ch’un degli dei venga e m’annunzii:61

 

qui l’andamento metrico è regolato sulla scansione per tre dipodie giambiche, in ognuna delle quali il primo giambo è più marcato rispetto al secondo;62

  1. trimetro giambico scazonte o zoppo (con l’ultimo piede in contrattempo rispetto ai precedenti). Da Catullo:

 

Suffeno, o Varo, codest’uom che sai bene,63

 

dove lo scontro ritmico finale è reso con la giustapposizine di due sillabe toniche, «sài bè-ne».

  1. tetrametro trocaico catalettico. Da Archiloco:

 

Cuore, cuor tumultuante per un turbine di guai:64

 

anche qui l’andamento metrico è regolato sulla scansione per quattro dipodie trocaiche, in ognuna delle quali il secondo trocheo è più marcato rispetto al primo;

  1. tetrametro giambico catalettico. Da Ipponatte:

 

Se amásse me una vérgine bellína e tenerína,65

 

le cui cadenze ritmiche, pur con un testo lievemente diverso, sono fissate esplicitamente nelle Regole di metrica neoclassica.66

  1. tetrametro ionico anaclomeno, costituito da due dimetri anaclomeni (o anacreontici) associati in un verso doppio.67 Da Anacreonte:

 

Sono g brinati questi miei cernecchi: il capo è bianco.68

 

Sono infine da segnalare due strutture metriche utilizzate in traduzioni sfuggite alle integrazioni fatte a Traduzioni e riduzioni e presenti nella introduzione di Lyra:69

13) epodo costituito da trimetro giambico e dimetro giambico. L’esempio è da Archiloco:

 

O Giove, o Giove padre, sopra il cielo hai tu

possanza e vedi ciò ch’uom fa

l’ingiusto e il giusto, e il bene e il male sta

pur delle bestie a cuore a te:

 

al v. 3 dialefe tra «–sto, e il», sinalefe in tutti gli altri casi;

14) epodo costituto da dimetro giambico ed esametro. Ancora da Archiloco:

 

meschino fisso all’amor mio

senza più anima sto, con quest’ossa passate fuor fuori

da doglie in causa degli dei.

 

A questo punto è legittimo porsi una domanda: a tale pirotecnica varietà di esperimenti ritmici che qualità di resa poetica corrisponde? Ma, prima di azzardare una qualsiasi risposta, bisogna tener conto dell’idea del tradurre che il Pascoli aveva. Egli la espresse nella prolusione al suo primo corso di Grammatica greca e latina nell’Università di Pisa, nel 1903, intitolata ‘La mia scuola di grammatica’. Si tratta di una pagina a mio avviso molto importante, che andrebbe letta per intero.70 Per evidenti ragioni ci limitiamo ai passi più significativi. Sentiamo direttamente Pascoli:

 

Ma che è tradurre? Così domandava poco fa il più geniale dei filologi tedeschi;71 e rispondeva: “Il di fuori deve divenir nuovo; il di dentro restar com’è. Ogni buona traduzione è mutamento di veste. A dir più preciso, resta l’anima, muta il corpo; la vera traduzione è metempsicosi”.

 

Pascoli non è d’accordo con questa idea. E obietta:

 

Non è giusta. Mutando corpo, si muta anche anima. Si tratta, dunque, non di conservare all’antico la sua anima in un corpo nuovo, ma di deformargliela il meno possibile; si tratta di scegliere per l’antico la veste nuova, che meno lo faccia parere diverso e anche ridicolo e goffo.

 

Passando poi a parlare delle traduzioni precedenti così si esprime:

 

Per esempio, il verso sciolto del Caro e del Monti è troppo sciolto; cioè, pur non potendo con ogni singolo endecasillabo comprendere un esametro, non cura di comprenderne due con tre, sempre, metodicamente, monotonicamente, come mi par dovrebbe? Ebbene, proveremo noi; faremo noi le terzine o rimate o assonanti o libere. O proveremo a tradurre con l’esametro italico. Ma ci sembrerà, l’esametro carducciano, troppo libero d’accenti? E noi c’ingegneremo di farlo tanto regolare, tanto sonoro, quanto almeno quelli del Voss e del Geibel.

 

Infine, alcune considerazioni di carattere generale:

 

Peraltro, io distinguo. C’è traduzione e c’è interpretazione: l’opera di chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione dello scrittore, e di chi si contenta di esprimere le proposizioni soltanto; di chi vuol far gustare e di chi cerca soltanto di far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres, non importa che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole, una per molte, e molte per una; basta che faccia capire ciò che lo straniero dice[…] Ma all’interpretazione, nella scuola, deve tener dietro la traduzione: ossia il morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua, deve venire innanzi e dire nella nostra lingua nuova, dire esso, non io o voi, il suo pensiero che già espresse nella sua lingua antica. Dire esso a modo suo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se era semplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le parole viete, le cerchi ora, le parole viete, nella nostra favella, e se preferiva le frasi poetiche, non scavizzoli ora i riboboli nel parlar della plebe […] Se vogliamo evocarli (scil. gli autori antichi) nella nostra lingua, essi, quando obbediscano, vogliono essere e parere quel che furono; e noi non solo non dobbiamo menomarli e imbruttirli, ma nemmeno (quel che spesso ci sognamo di fare) correggerli e imbellezzirli; come a dire, togliere ad Omero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori, e a Erodoto le sue lungaggini di narratore chiaro, e a Cicerone le sue ridondanze di oratore armonioso, e a Tacito i suoi colori poetici di scrittore schivo del vulgo. Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le predilezioni che ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero e a ritmo.

 

Sintetizzando al massimo: Pascoli rifiuta la traduzione piattamente letterale (implicita nelle parole del filologo tedesco), ma ne vuole una che sia comunque fedele, che non si allontani molto dal testo originario, di cui deve riprodurre non solo gli aspetti linguistici e stilistici ma anche (dove vi siano) ritmici e metrici.72

Giudicate da questo punto di vista le traduzioni di Pascoli si possono considerare riuscite, perché si sforzano di conciliare il livello linguistico e stilistico dei testi, che è alto e solenne, con lo schema metrico dell’esametro.

Diamo un esempio noto, l’inizio dell’Iliade:

 

L’ira, o Dea, tu canta del Peleìade Achille

funebre, causa agli Achei già d’infiniti dolori:

ch’anime molte d’eroi si gittò innanzi nell’Hade,

mentre gli eroi lasciava che fossero preda de’ cani,

mensa per gli uccellacci – di Giove era anche la voglia –

sino d’allor che prima si separarono in lotta

d’Atreo il figlio, signor delle genti, ed il nobile Achille.

 

Chi conosce il testo omerico si rende conto che la traduzione è sostanzialmente fedele (il primo verso è quasi un calco di quello greco) e vi riconosce la forza del modello ritmico operante sia a livello di disposizione sia di scelta delle parole (ad es. «funebre» per il montiano «funesta» all’inizio di esametro). Ma il lettore esperto può cogliere anche delle forzature: ad es. il «già» del v. 2, che, se non è zeppa ritmica, introduce un elemento di ambiguità rispetto al tempo in cui l’ira fu causa di dolore agli Achei. E poi «si gittò innanzi», che, se rende bene il valore di pro- del composto proivayen (non evidente nel «travolse» montiano) non spiega il riflessivo «si». Ancora: «di Giove era anche la voglia» esprime in maniera vaga il concetto che ‘si compiva la volontà di Zeus’. Infine, «per gli uccellacci» introduce una nota dispregiativa che solo con una certa forzatura potremmo considerare implicita nel fatto che gli uccelli in questione sono divoratori di cadaveri. E su questa strada si potrebbe andare avanti. Ma una analisi di questo tipo ha bisogno di molta cautela perché (come dimostra l’esempio di «uccellacci») non tutte le forzature che appaiono tali a prima vista lo sono effettivamente.

Tuttavia dal complesso delle traduzioni emerge con chiarezza che la rigidità del modello metrico richiede interventi sul piano linguistico73 che consistono spesso in addizioni o sottrazioni rispetto al testo omerico.74 Per la prima tipologia75 si considerino i casi di aggiunta di esclamativi quali:

oh! (es.:

 

Quando poi furono nelle capanne del figlio di Atreo

oh!, con i calici d’oro li accolse…),76

 

ah! (es.: il già citato verso della Batracomiomachia

 

Donnola e nibbio che sono, ah!, lá passïone mia grande),

 

ma sì! (es.:

 

ed i bimbi

picchiano pur coi bastoni: ma sì! la lor forza è bambina);77

 

oppure di reduplicazioni ingiustificate di un termine: un esempio dall’episodio dell’incontro di Ettore ed Andromaca:

 

e ne sorrise il suo padre e la madre onoranda sorrise,78

 

un altro riferito alla conclusione del discorso di Patroclo ad Achille:

 

Questo diceva pregando, il bambino, oh! bambino ch’egli era79

 

(a meno che non sia giustificata dall’espressione superlativizzante mevga nhvpio”).

Ma questi fenomeni non sono presenti anche nella poesia originale del Pascoli?

Per la sottrazione valga il caso dei versi:

 

Dunque egli presso le navi che rapide passano il mare

stava adirato il nutrito dal Cielo piè-rapido Achille,80

 

dove è soppressa del tutto la notazione «il figlio di Peleo».

Ad ogni modo il Pascoli non era ignaro delle difficoltà che il suo metodo di traduzione comportava. Nel corso della polemica tra Vitelli e Fraccaroli,81 in una risposta ad Ermenegildo Pistelli che lo aveva chiamato in causa, egli, difendendo tra l’altro il metodo delle «traduzioni in metro originale» scriveva:82

 

Giova ricordare che chi traduce in versi, specialmente neoclassici, per chiamarli in qualche modo, fa sempre un po’ di sacrifizio, quando non fa, a dirittura, un olocausto di chiarezza, di eleganza e di facilità. Ma ad ogni tentativo questo sacrifizio si fa minore, e può darsi che venga il giorno che noi abbiamo quello che hanno i tedeschi, non irriprensibile nemmen loro, e non irripreso; ma insomma un di più e un meno peggio che non si vorrebbe buttar via.

 

Certo, il lettore ideale del Pascoli è un lettore colto, che conosca bene l’esametro e sappia applicarlo anche quando ciò richiede delle ‘licenze’, e sappia intendere il testo anche quando la traduzione richiede il «sacrifizio […] di chiarezza e di eleganza». Ciò vale anche se egli inserì molte delle traduzioni in Sul limitare, un’antologia scolastica che voleva essere «un invito a studiare, un saggio del tanto bello e del tanto buono»83 che i giovani avrebbero trovato nella scuola.84

Il giudizio che Pascoli dà delle sue traduzioni nella prima parte del passo sopra riportato è troppo severo. Ad onor del vero dobbiamo dire che, accanto alle forzature segnalate, si riscontrano delle soluzioni espressive che rivelano la capacità del poeta di cogliere la forza interna di alcuni termini o frasi greche. Facciamo qualche esempio a caso. Per Pascoli gli e[pea pteroventa sono concretamente le «parole dalle ali d’uccelli»85 (non semplicemente le «parole alate»86); rJigedanh; JElevnh è Elena «che dà i brividi al cuore»87 (conservando il senso di «rabbrividire» della prima parte del composto rJige-) non semplicemente «funesta»; [Ektorª…ºa[laste è «Ettore […] indimenticabile»,88 non riduttivamente «Ettore maledetto». Ancora: l’espressione a[lloiª…]ajpourivssousin ajrouvra”, riferita alla sorte di Astianatte dopo la morte del padre, è resa con «gli altri nel campo di lui smuoveranno i confini di pietra» (che tiene conto del senso etimologico del verbo, senso oscurato dalla traduzione «altri gli prenderanno i campi»).89

Ma, nel rendere le metafore, Pascoli segue un proprio metodo, che egli definisce nella risposta ad un recensione negativa di Carlo Pascal all’antologia Epos. A proposito della resa di una espressione latina egli dice:90 «Io, secondo il mio solito, non converto la metafora e l’immagine in linguaggio proprio e prosastico, ma la conservo e la spiego». Con questo metodo Pascoli mette in atto una stretta aderenza all’immaginario greco sotteso alle espressioni tradotte e dimostra di coglierne il carattere estremanente concreto.91

Nella seconda parte del giudizio sopra riportato egli esprime la fiducia che la pratica della traduzione possa portare a risultati sempre migliori. Purtroppo noi non abbiamo indicazioni sui tempi delle traduzioni se non una presunzione generica che le traduzioni dell’Iliade precedano quelle dell’Odissea. Ma occorrerebbe tener conto anche di questo dato nel dare un giudizio sui risultati poetici. Senza presumere di dare indicazioni definitive voglio segnalare la traduzione dei vv. 152-208 del libro XI dell’Odissea, l’incontro nell’Ade di Ulisse con la madre morta. Il passo sarebbe da leggere tutto; ma riporto soltanto i versi finali:92

 

Tanto diceva; ma io, io voleva, ondeggiando nel cuore,

stringere l’anima a me della dolce mia madre già morta:

feci tre slanci, ché il cuore voleva che a me la stringessi;

e dalle mani tre volte volò, come un’ombra od un sogno,

via. Nel mio cuore sorgeva ogni volta più spasimo acuto.

 

Si badi che l’enjambement dell’ultimo verso, con il termine in rejet seguito dal punto fermo, riproduce una analoga situazione metrico-sintattica dell’originale (ma con parole diverse). La traduzione è sostanzialmente fedele, ma vi si coglie una perfetta aderenza tra ictus metrico e accenti grammaticali, una scorrevole fluidità sintattica ma soprattutto un tono poetico non dissimile dai componimenti nei quali il poeta rievoca la madre tragicamente perduta.93

La vicenda delle traduzioni ‘metriche’ sembra concludersi con le parole stesse del Pascoli.

Nel 1899, scrivendo al Chiarini a proposito delle traduzioni di Sul limitare, definisce i suoi esametri «quasi tutti sbagliati» e si ripromette di rifarli.94

Ad un momento successivo si riferisce la notizia data dal Vicinelli nella seconda parte della biografia del poeta:95

 

Col Federzoni il 22 gennaio 1904 ridiscuteva la metrica, il ritmo dei suoi esametri usati nelle traduzioni di Sul limitare (e non lodati dall’amico per la monotonia, per la frequente mancanza della cesura …). “Sono d’accordo con te. In vero li ho rinnegati. Ora li faccio equivalenti, se non m’inganno, ai tedeschi: quasi quantitativi come i loro. Sono difficili però”.

 

Ancora. Nell’ultimo anno del suo insegnamento (1910-11) egli dichiarò a lezione di «non tenere ormai per buono il sistema seguito nei saggi precedenti di versioni in esametri».96

Non so quanto spontanee fossero queste affermazioni o quanto invece dipendessero dalla tiepida accoglienza che le sue versioni avevano ricevuto. Tuttavia sarebbe ingiusto, a mio parere, anche con la sua autorizzazione, liquidare sommariamente il tentativo pascoliano. Solo una indagine attenta potrebbe recuperare le traduzioni nel loro duplice aspetto di resa di modelli classici e di proposta letteraria. In fondo, la traduzione è come un’interfaccia tra il testo antico e il lettore moderno; è come un Giano bifronte che guarda, da una parte, al testo antico, dall’altra al pubblico del suo tempo. La sua riuscita dipende dal modo in cui riesce ad adempiere a tutte e due le funzioni contemporaneamente.

Ma prima di tutto esse avrebbero bisogno di una nuova edizione più accurata,97 che elimini alcuni errori di stampa o di lettura ancora superstiti,98 che distribuisca la materia in un ordine più razionale, che segnali meglio i passi di riferimento (nelle edizioni tenute presenti dal Pascoli), pubblicandoli a fronte (non è così per le traduzioni di Quasimodo?). In questo modo forse si potrebbe apprezzare meglio lo sforzo di ‘traduzione integrale’ portato avanti con tenacia da un autore cui non possiamo negare il titolo di ‘poeta-filologo’.99

 

[in Teorie e forme del tradurre in versi nell’Ottocento fino al Carducci (Lecce 2-4 ottobre 2008), a cura di A. Carrozzini, premessa di G.A. Camerino, Galatina 2010, pp. 379-396.]

NOTE

1 Il saggio su Giovanni Pascoli, apparso originariamente su «La critica» del 20 genn. 1907, pp. 1-31, e 20 marzo 1907, pp. 89-109, fu poi ripubblicato in La letteratura della nuova Italia, IV, Bari, Laterza 19647: il giudizio a p. 130 (= Giovanni Pascoli. Studio critico, Bari, Laterza 19423, p. 68). Va detto però che il giudizio muoveva da un punto di vista improprio, quello cioè di valutare le «traduzioni per sé, come opere d’arte che stiano a sé».

2 Cfr. Salvatore Quasimodo, Lettere d’amore (1936-1949), a cura di A. Quasimodo, Milano, Spirali 1985, pp. 63 sg.

3 Sulle traduzioni di Pascoli nel contesto degli esperimenti di metrica ‘barbara’ alla fine dell’Ottocento vedi anche Roberto Pretagostini, Teoria e prassi della trasposizione metrica e ritmica nelle traduzioni dal greco, in La traduzione dei testi classici. Teoria prassi storia, Atti del Convegno di Palermo, 6-9 aprile 1988, a cura di S. Nicosia, Napoli, D’Auria 1991, pp. 57 sgg.

4 Cfr. Manara Valgimigli, Pascoli, Firenze, Sansoni 1956, pp. 23 sgg., che sembra attribuire al Pascoli la colpa dei suoi maldestri imitatori (p. 28).

5 Valgimigli aveva iniziato a lavorare a Messina proprio su invito del Pascoli e poi aveva frequentato negli anni successivi la casa del poeta (cfr. op. cit. pp. 9 sg., 121 sgg.)

6 Cfr. Giacomo Devoto, Problemi delle traduzioni pascoliane, in Studi per il centenario della nascita di G. Pascoli, II, Bologna, Commissione per i testi in lingua 1962, pp. 57-60.

7 Si può condividere l’osservazione di Garboli secondo cui «può sembrare strano, ma un settore molto rilevante dell’officina pascoliana, l’attività del traduttore, non gode di quella ricca bibliografia critica e specialistica che ci si aspetterebbe» (Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, progetto editoriale, introduzione e commento di C. Garboli, II, Milano, Mondadori 20032, p.123, con alcune indicazioni bibliografiche). Garboli dedica un qualche spazio alle traduzioni di Sul limitare (ivi pp. 133-172), spazio assai limitato nella edizione di Perugi (vol. II, Milano-Napoli, Ricciardi 1981, pp. 2121-3, 2137, 2140-1, 2160-1).

8 Cfr. G. Pascoli, Poesie, con un avvertimento di A. Baldini, Milano, Mondadori 19547, pp. 1337 sgg.

9 Mi riferisco alle pregiudiziali carducciane e crociane di Valgimigli (op. cit. p. 34). Sulla ostilità di quest’ultimo alle «novità metriche pascoliane» vedi Garboli in G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. I, p.1169.

10 Di alcuni tentativi precedenti dà notizia Guido Capovilla, Sul Pascoli ‘barbaro’, in Metrica classica e linguistica, Atti del colloquio Urbino 3-6 ottobre 1988, a cura di R. M. Danese, F. Gori, C. Questa, Urbino, Quattroventi 1990, pp. 539 sgg.

11 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1550.

12 Vedi oltre, nota 24.

13 Vedile ora in G. Pascoli, Prose, con una premessa di A. Vicinelli, I: Pensieri di varia umanità, Milano, Mondadori 19522, pp. 987 sgg.

14 Cfr. Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate e integrate da A. Vicinelli, Milano, Mondadori 1961, p. 113.

15 Cfr. G. Capovilla, art. cit. p. 531.

16 Il lavoro di traduzione secondo il nuovo metodo fu condotto saltuariamente lungo tutta la vita del Pascoli. Generiche «traduzioni dal greco» sono attestate per il biennio 1882-3 (M. Pascoli, Lungo la vita cit. pp. 156, 177) e «qualche lavoretto di greco» per il 1884 (ivi p. 191). L’estate del 1898 è impegnata per «rifare, tradurre cioè, in ogni sorta di metri, specialmente classici, ben differenti dai barbari» (ivi p. 590). Egli chiama i suoi versi «esametri o esametroidi» in una lettera al De Bosis (ivi p. 506). Comunque, in una lettera a Severino Ferrari del 30 agosto 1899, egli precisa che queste forme metriche sono esclusivamente per le traduzioni (ivi p. 643).

17 Si veda ancora G. Capovilla, art. cit. p. 534.

18 M. Pascoli, Lungo la vita cit. p. 106. I fascicoli, insieme ad altri di interesse metrico, sono elencati, tra quelli presenti a Castelvecchio, da G. Capovilla, art. cit. p. 538.

19 Cfr. G. Capovilla, art. cit. p. 539. Sul Vitelli vedi Piero Treves in Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, V: Dalla storia alla filologia e dalla filologia alla storia, Torino, Einaudi 1979, pp. 1113 sgg.; Luciano Canfora, Vitelli e le correnti nazionalistiche prima del 1818, in Philologie und Hermeneutik im 19. Jahrhundert II, éd. par M. Bollack – H. Wismann et réd. par T. Lindken, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1983, pp. 308 sgg. e Enzo Degani, Italia. La filologia greca nel secolo XX, in La filologia greca e latina nel secolo XX, Atti del Convegno Internazionale, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 17-21 settembre 1984, II, Pisa, Giardini 1989, pp.1084 sgg.

20 Su questa polemica cfr. E. Degani, art. cit. pp. 1065 sgg.

21 In effetti i nomi di Hermann e di Ritschl, insieme a quelli di altri filologi tedeschi, compaiono nei fascicoli di Castelvecchio sopra ricordati, secondo la informazione sommaria di G. Capovilla, art. cit. p. 539, nota 23.

22 Pubblicata ora in G. Pascoli, Prose disperse, a cura di G. Capecchi, Lanciano, Carabba 2004, pp. 79 sgg.

23 Mi riferisco all’idea della derivazione dei metri eolici (endecasillabo saffico ed alcaico) dall’esametro attraverso il dattilo ciclico e, ancor più, dell’invenzione del ritmo trocaico per opera di Terpandro (G. Pascoli, Prose disperse cit. p. 85).

24 Secondo la terminologia corrente, in tutti i suoi scritti Pascoli chiama ‘arsi’ il tempo metrico forte e ‘tesi’ il tempo debole ; è eccezionale la denominazione di qevsei” data ai tempi forti nel già ricordato Proemio del Volgarizzamento. Sul valore di questi termini nella terminologia antica e nella prassi moderna vedi Bruno Gentili – Liana Lomiento, Metrica e ritmica. Storia delle forme poetiche nella Grecia antica, Milano, Mondadori 2003, p. 31.

25 Ora in G. Pascoli, Prose cit. pp. 904 sgg.

26 Carlo Del Grande, Metrica greca, in Enciclopedia classica, V: La lingua greca nei mezzi della sua espressione, Torino, SEI 1960, p. 160.

27 Come conferma lo stesso Gottfried Hermann negli Elementa doctrinae metricae (Lipsiae, Fleischer 1816, p. XIII) a proposito della lettura dei versi plautini sotto la guida del Reiz.

28 Cfr. G. Pascoli, Prose cit. p. 957, nota 1.

29 Ivi p. 942.

30 Ivi p. 975.

31 Ivi p. 907.

32 Ivi p. 935.

33 Ivi p. 940.

34 Ivi pp. 973-4.

35 Tale lettura fa emergere il ‘ritmo riflesso’, classico, dal ritmo, si può dire, ‘proprio’ dei versi italiani che imitano quelli classici: su tale distinzione vedi ivi pp. 906 sg. e 956 sg.

36 Nei versi sotto riportati essa è segnalata dal corsivo con cui sono stampate le sillabe interessate. Gli eventuali accenti sono nell’originale pascoliano.

37 Il rapporto coi modelli classici è evidente nella esemplificazione delle Regole (ivi pp. 998 sgg.). I versi neoclassici non vanno in nessun modo messi in relazione con i versi italiani.

38 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1550.

39 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1473. Si indica, per tutti i versi citati, la pagina dell’edizione mondadoriana perché, nella disorganica sistemazione dei testi tradotti, la semplice citazione del luogo letterario non consentirebbe un suo agevole reperimento, dal momento i rinvii bibliografici sono presenti solo nell’indice.

40 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1549. Secondo altri (per es. M. Valgimigli, op. cit. p. 25) il segno è un digamma.

41 Un fac-simile è pubblicato nell’edizione originale di Traduzioni e riduzioni, a cura di M. Pascoli, Bologna, Zanichelli 1920.

42 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1474.

43 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1475.

44 Sul carattere artificioso delle traduzioni pascoliane vedi B. Gentili, Tradurre poesia cit. p. 39.

45 Cfr. G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. I, p. 200.

46 Altri esametri sono di Esiodo (Opere e giorni) e di Virgilio.

47 Di un «Omero» che avrebbe potuto dedicare alla regina egli parla in una lettera del 1899 e «della traduzione dei poemi d’Omero in esametri» in una lettera al Chiarini sempre nel 1899 (7 febbraio): cfr. M. Pascoli, Lungo la vita cit. pp. 632 e 183 rispettivamente. Ancora: al «difficile assunto di rendere i poemi d’Omero in esametri italiani» per l’editore Sandron egli fa cenno nella ‘Nota agli insegnanti’ delle terza edizione (1906) di Sul limitare (vedila in G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. II, p. 139, nota 1).

48 Ora in G. Pascoli, Poesie cit. p. 1338.

49 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1547.

50 Molte delle forme (ma non tutte, vedi pp.8-9) sono registrate da G.B. Pighi nell’ ‘Indice sommario della poesia barbara italiana’ in Studi di ritmica e di metrica, Torino, Erasmo 1970, pp. 424 sgg.

51 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1437.

52 Sulla strofe saffica e sul suo diverso impiego in greco ed il latino vedi le osservazioni originariamente contenute in Lyra, ora riportate in G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. I, pp. 1173-4.

53 Con l’accento di quinta che tanto infastidiva il Valgimigli (op. cit. p. 31).

54 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1436.

55 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1454.

56 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1458.

57 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1455.

58 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1457.

59 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1454.

60 Cfr. C. Del Grande, op. cit. p. 200.

61 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1476.

62 Vedi le Regole in G. Pascoli, Prose cit. p. 1001.

63 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1449.

64 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1438.

65 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1440.

66 Cfr. G. Pascoli, Prose cit. p. 1003.

67 Sul metro vedi B. Gentili – L. Lomiento, op. cit. pp. 181 sgg. Il frammento di Anacreonte, pubblicato dal Bergk in versi tetrametri, è più giustamente ridotto da B. Gentili in dimetri (Anacreon, Roma, Ateneo 1958, p. 28).

68 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1439.

69 Lyra, Livorno 18992, pp. XXII-XXIII. Altri frammenti sfuggiti sono: un tetrametro trocaico catalettico e un frammento in trimetri giambici da Archiloco (frr. 65 e 29 Bergk) e alcuni trimetri giambici scazonti di Ipponatte (frr. 16, 17, 18, 19 Bergk).

70 Cfr. G. Pascoli, Prose cit. pp. 246 sgg.

71 Il Wilamowitz, come ha identificato Pasquini (vedi sopra, p. 00).

72 «Dunque, letteralità assoluta»: M. Valgimigli, op. cit. p. 103.

73 Sulle ‘contorsioni’ della lingua pascoliana per adattarsi all’esametro vedi Garboli in G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. II, pp. 129 sgg.

74 Sui procedimenti di ‘sottrazione, ‘addizione’ e ‘sostituzione’, richiesti dalla traduzione in quanto passaggio da «lingua poetica a lingua poetica» richiama l’attenzione Giuseppe Sansone, Traduzione ritmica e traduzione metrica, in La traduzione del testo poetico, a cura di F. Buffoni, Milano, Guerini 1989, pp. 15-17.

75 Su queste ‘zeppe’ vedi Garboli in G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit., II p. 130.

76 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1349.

77 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1350.

78 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1346.

79 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1352.

80 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1344.

81 Su questa polemica, anche in rapporto a Pascoli, informa M. Pascoli, Lungo la vita cit. pp. 632-3. Sull’intervento polemico di Romagnoli vedi E. Degani, art. cit. pp. 1100 sgg.

82 Cfr. G. Pascoli, Prose disperse cit. p. 230.

83 Cfr. G. Pascoli, Prose disperse cit. p. 203.

84 La destinazione scolastica delle traduzioni (che motivò il giudizio di Croce sopra riportato, e su cui insiste Garboli in G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. II, pp. 124 sgg.) doveva essere solo temporanea: esse dovevano far parte di un lavoro complessivo su Omero (vedi sopra nota 47).

85 Cfr. ad es. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1345. Così sempre, per rispettare gli «aggiunti oziosi» di Omero di cui parla nella prolusione pisana (vedi sopra); lo stesso vale per altre formule, ad es. «il piè-rapido Achille».

86 Pascoli risolve così l’ambiguità insita nell’aggettivo pterovei”, che può riferirsi tanto agli uccelli quanto alle frecce: vedi le osservazioni di B. Gentili, Tradurre poesia cit. p. 38.

87 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1362.

88 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1367.

89 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1374.

90 Cfr. G. Pascoli, Prose disperse cit. p. 162.

91 Su questi aspetti dell’immaginario greco cfr. B. Gentili in Pindaro. Le Pitiche, a cura di B. Gentili, P. Angeli Bernardini, E. Cingano e P. Giannini, Milano, Mondadori 20064, pp. LXIV sgg.

92 Cfr. G. Pascoli, Poesie cit. p. 1421.

93 Sul carattere ‘pascoliano’ delle traduzioni (ma non è chiaro se come limite o come pregio) vedi M. Valgimigli, op. cit. pp. 92 sgg., in part. 103 sg.

94 Cfr. G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. II, p. 179.

95 Cfr. M. Pascoli, Lungo la vita cit. p. 765.

96 Testimonianza di A. Scolari nel «Marzocco» del 20 aprile 1913, ricordata da M. Valgimigli, op. cit. p. 27.

97 Sulla inaffidabilità dell’edizione mondadoriana vedi G. Capovilla, art. cit. p. 545.

98 Se ne segnalano qui due, emersi ad una lettura cursoria: «E malincuore» per «A malincuore» (p. 1340) e «col bellissimo occhio» per «col bellissimo cocchio» (p. 1354).

99 Così lo definisce Garboli in G. Pascoli, Poesie e prose scelte cit. I, p. 369.

 

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