Di mestiere faccio il linguista 4. Esclusivamente inglese? No grazie!

di Rosario Coluccia

Oggi parliamo di una sentenza recentissima della Corte Costituzionale, depositata il 24 febbraio e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Sentenza importante, lo dico subito. Obbligherà noi a riflettere, scuole e università ad agire coerentemente.

Ecco i precedenti. A partire dall’anno accademico 2013-2014 il Politecnico di Milano ha avviato corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca tenuti solo in lingua inglese: escludendo l’italiano, la lingua nazionale, dalla formazione superiore di ingegneri e architetti. I fautori dell’insegnamento monolingue in inglese motivano così le ragioni della scelta (mi sforzo di essere obiettivo, esponendo tesi che non condivido).

1. Nell’attuale contesto storico la lingua dell’internazionalità è l’inglese, come un tempo fu il latino. Si tratta semplicemente di riconoscere questo dato di fatto, adeguandovisi.

2. Una migliore padronanza della lingua inglese (derivante dall’insegnamento ricevuto) favorisce l’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei nostri laureati, che potranno trovare all’estero occasioni di lavoro, ridotte o assenti in Italia.

3. L’insegnamento impartito in inglese favorisce l’ingresso nell’università italiana degli studenti stranieri, poco attratti dalla lingua e dalla cultura italiane.

Detto con altre parole. Scegliendo l’inglese come lingua dell’insegnamento universitario apriamo i nostri atenei alla modernità e al mondo, mettiamo i nostri giovani nelle condizioni migliori per trovare lavoro anche fuori dai confini nazionali, attiriamo studenti stranieri.

Dopo il Politecnico di Milano, per imitazione, altri Atenei presero iniziative analoghe. Qua e là, un po’ per volta, si progettarono corsi esclusivamente in lingua inglese. Lo slogan, non dichiarato, era: fuori l’italiano dall’università, in questo modo diventiamo internazionali. Spesso capita così in Italia, imitiamo quello che ci pare moderno e riflettiamo poco, ci facciamo sedurre dal canto delle sirene. È più semplice.

Badiamo alla sostanza. In questo caso risiede nell’avverbio che ho usato prima: esclusivamente. A Milano e in altre università si danno corsi solo in inglese: chi non conosce a menadito quella lingua di fatto non può frequentare quei corsi, capirebbe poco, sarebbe sicuramente bocciato. Non importa se ha studiato o no, se conosce o meno la materia. Alla faccia del merito e dell’impegno.

A volte le indicazioni migliori vengono non dagli esperti, che pretendono di conoscere astrattamente la verità, ma da chi vive quotidianamente la condizione di studente universitario in condizioni difficili. Anche un episodio apparentemente minore può aiutare a vedere la cose da una prospettiva diversa. In una seduta del Senato Accademico dell’università del Salento veniva discusso l’avvio di corsi solo in lingua inglese in alcune Facoltà scientifiche e economiche. L’esposizione delle tesi, pro e contro, prodotta da docenti sostenitori delle opposte ragioni, fu interrotta da uno studente (diamogli un nome di comodo, chiamiamolo Mario Rossi), il quale introdusse nella discussione nuovi elementi. Parlava dalla parte di chi subisce (se così posso dire).

1. Non tutti gli studenti hanno una conoscenza dell’inglese tale da permettere loro una comprensione piena degli argomenti esposti.

2. La differente abilità linguistica di partenza non può essere sempre imputata a insufficienza personale; nella maggior parte dei casi va attribuita alla diversa qualità dell’insegnamento ricevuto nelle scuole precedenti e anche, in misura da verificare caso per caso, alle condizioni economiche (se non ci si possono permettere corsi di lingua a pagamento).

L’intervento dello studente obbligò il Senato Accademico a tener conto di fattori fino a quel momento non considerati. E tutti compresero che non ci si può dividere tra presunti sostenitori della modernità (i fautori dell’insegnamento monolingue in inglese) e presunti nostalgici del passato (i fautori dell’insegnamento bilingue, sia in italiano sia in inglese). Non si tratta di difendere a spada tratta le buone ragioni della lingua nazionale contro la lingua considerata internazionale. Sono in ballo valori fondamentali, a partire dal diritto allo studio, che va garantito agli studenti capaci e meritevoli indipendentemente dalle condizioni economiche (lo dice la Costituzione).

Intendiamoci. Nessuno mette in dubbio l’esigenza di una buona conoscenza delle lingue straniere, soprattutto l’inglese, lingua necessaria per muoversi agevolmente nel mondo. Ma per favorire la conoscenza dell’inglese non è necessario adottare soluzione drastiche, che escludono l’italiano dai corsi universitari. Largamente preferibili appaiono percorsi variati, che offrano agli studenti la possibilità di scegliere, caso per caso, la lingua (italiano o inglese) nella quale ascoltare le lezioni e sostenere l’esame. Bilinguismo liberamente scelto, non monolinguismo (inglese) aprioristicamente imposto.

Torniamo alla Corte Costituzionale. Essa è stata chiamata a decidere se la disposizione del Politecnico di Milano (a cui si sono rifatte altre università) «nella parte in cui consente l’attivazione generalizzata ed esclusiva (cioè con esclusione dell’italiano) di corsi di studio universitari in lingua straniera» violi alcuni articoli della nostra Costituzione: a) l’art. 3, poiché permetterebbe una «ingiustificata abolizione integrale della lingua italiana per i corsi considerati», senza tenere conto del fatto che per alcuni di essi è fondamentale una trasmissione del sapere maggiormente attinente alla tradizione e ai valori della cultura italiana, della quale il linguaggio è espressione; b) l’art. 6, poiché si pone in contrasto con il principio dell’ufficialità della lingua italiana; c) l’art. 33, poiché compromette la libera espressione della comunicazione con gli studenti (se gli studenti non conoscono bene l’inglese vengono discriminati, proprio l’argomento del nostro studente Mario Rossi).

Ci sono importanti precedenti giuridici della stessa Corte. La lingua è «elemento fondamentale di identità culturale e […] mezzo primario di trasmissione dei relativi valori» (sentenza n. 62 del 1992), «elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare» (sentenza n. 15 del 1996). Ciò vale per l’«unica lingua ufficiale» del sistema costituzionale (sentenza n. 28 del 1982) – la lingua italiana – la cui qualificazione «non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale», teso a evitare che altre lingue «possano essere intese come alternative alla lingua italiana» o comunque tali da porre quest’ultima «in posizione marginale» (sentenza n. 159 del 2009).

Mi scuso per queste citazioni di sentenze, forse interessano poco i lettori comuni, piaceranno di più ai giuristi. Il senso è chiaro. La Corte sancisce – e a maggior ragione lo fa nella sentenza del 24 febbraio, riepilogativa delle precedenti – che la lingua italiana è vettore della cultura e della tradizione proprie della comunità nazionale. La globalizzazione, il plurilinguismo della società contemporanea, la diffusione generale d’una o più lingue straniere sono fenomeni che non debbono relegare l’italiano in una posizione di marginalità. Il primato della lingua italiana, sancito dalla Costituzione, non è retaggio del passato, inidoneo a cogliere i mutamenti della modernità. Al contrario, diventa decisivo per la trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, garanzia di salvaguardia e di valorizzazione della lingua come bene culturale in sé.

Abbiamo visto nelle scorse settimane quanto sia importante favorire nei giovani un buon possesso della lingua italiana, fondamentale nella società moderna. Ecco l’obiettivo: educare gli studenti, nella scuola e nell’università, agli usi variabili della lingua, scritta e parlata. E vorremmo impedire che nei corsi universitari docenti e studenti si esprimano in italiano? È questa la modernità?

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 5 marzo 2017]

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1 risposta a Di mestiere faccio il linguista 4. Esclusivamente inglese? No grazie!

  1. Marco Capriz scrive:

    I disagree with your conclusion. This is only one university. Anyone who wishes to follow courses in Italian is well served in countless other institutes of higher learning around the country. I believe what Milan Polytechnic is doing is not enough. They are offering English only courses for higher degrees and for teaching degrees. If you are developing future English teachers the benefits are obvious. And in other subjects, an advanced degree student, particularly one who is studying engineering, will only benefit from this arrangement. The level of spoken and written English in Italy is well below par, compared to other EU countries. This is especially troublesome as Italy has very exportable engineering products. What they lack (something I have witnessed many times working for an Italian technology multinational) is the ability to think internationally, something that arguably is helped by the mastery of the international language of trade, which, of course, is English. If Milan Polytechnic can better prepare future engineers for tough competition in an international setting, this can only benefit Italian industry. Indeed they should take this concept further and offer undergraduate courses in English only. And indeed, why stop there? I would argue that Chinese language learning should be a course on offer at undergraduate level for degree courses that prepare anyone who will likely go to work in an industry that is export oriented. Nothing I write above is a repudiation of the Italian language, and neither is what Milan Polytechnic is doing. It is simply reflecting the reality of a multinational world, where, some of us at least, hope walls will be torn down, not built up.

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