Ancora il primo di ottobre 2016, il Teatro Nuovo di Ferrara era stracolmo. Si discuteva di scuola nell’ambito del “Festival di Internazionale”, e più precisamente dell’insegnamento della storia nella scuola italiana. Parlava Tullio De Mauro; la platea rimbombava del brusìo di insegnanti, studenti, persone interessate; la discussione era stata interrotta solo dal convulso proseguire degli eventi, ma era continuata, in maniera informale e ancora accesa, sui tavoli dei bar di via Mazzini. Il dibattito aveva toccato punti delicati e difficili, soprattutto la qualità didattica della nostra scuola superiore. Affrontare il tema dal punto di vista della storia non era scontato, eppure era risultato molto produttivo, perché aveva permesso di entrare a mani tese sui processi riformatori degli ultimi anni. La scuola italiana è caratterizzata, nel contesto europeo, da un impianto pedagogico nel quale la storicizzazione dell’insegnamento dei contenuti disciplinari, non solo umanistici, rimane teoricamente molto solido. Tuttavia, come De Mauro non mancava di sottolineare, le indagini statistiche sulle conoscenze in ambito strettamente storico degli italiani, in età scolare e non, risultano impietose, soprattutto in merito alle tematiche legate alle vicende contemporanee. A fronte di tale situazione, i contenuti delle riforme scolastiche, da Letizia Moratti (2001) a Francesco Profumo (2013) si erano andati sempre più impoverendo. Non era solo il dissolvimento dell’antico mondo bipolare nel 1989 e l’indebolimento dei vari romans de la nation a giustificare la povertà delle più o meno recenti indicazioni nazionali sugli obiettivi dell’apprendimento, nella quale la storia andava perdendo sempre più il proprio ubi consistam. C’era qualcosa d’altro, che forse può essere spiegato cercando di tenere presente quella particolarissima figura di intellettuale che De Mauro ha incarnato nella storia recente.
Sono gli anni che vanno dal 1963 al 1967 a fare entrare prepotentemente Tullio De Mauro sulla scena intellettuale e nel dibattito culturale con due volumi che avrebbero segnato per sempre la cultura italiana. Mi riferisco alla Storia linguistica dell’Italia unita e all’edizione italiana, con ampio commento, del Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure. Se la seconda fu un tassello fondamentale che contribuì all’originale innesto dello strutturalismo nella cultura italiana, ancora dominata dallo storicismo, il primo fu non solo un affresco che resta fondamentale, ma anche un libro profondamente innovativo nell’uso di strumentazione e metodologie fino ad allora ampiamente sottoutilizzate nell’indagine linguistica. Ma per comprendere appieno il gesto di De Mauro, bisogna tenere presente che, in ogni sua pagina, accuratezza scientifica e tensione civile all’intervento socioculturale risultano non intrecciati: inscindibili. Per dimostrarlo, basta ricordare un fatto poco noto, apparentemente limitato a una discussione tra “linguisti”, ma dotato di implicazioni significative. Nella Storia linguistica, De Mauro aveva stimato che nella neonata Italia, all’indomani dell’unificazione, gli italofoni fossero limitati a un numero ristrettissimo (il 2,5 %). Alcuni studiosi di storia della lingua reagirono a questa stima, sollevando problemi di ordine metodologico riguardanti essenzialmente l’esclusione di alcune aree geografiche (da una parte del Lazio all’Umbria alle Marche), che risultavano parlare l’italiano naturalmente per ragioni geografiche. Il riconteggio che ne scaturì elevò il numero dei parlanti a 2 milioni di persone, il 10% della popolazione.
In questo dibattito all’apparenza accademico emergeva una questione decisiva, mi pare, per comprendere il profilo e il ruolo di De Mauro. La sua posizione risultava solo superficialmente “pessimista”. Il ragionamento dello studioso, che sarebbe poi ritornato sul conteggio tenendo presente le osservazioni dei colleghi, puntava dritto a un problema pratico: e cioè al divario “linguistico” che caratterizzava la struttura sociale dell’Italia postunitaria, e che si sarebbe poi riverberato nella storia successiva. La disuguaglianza nelle competenze linguistiche, calata nelle specifiche vicende dell’unificazione, era l’aspetto evidente di una società profondamente divisa, a livello sia sociale sia geografico. La soluzione, per De Mauro, non consisteva nella imposizione di una lingua dall’alto; era invece affidata – e qui a quel “pessimismo” fa da contrappunto un “ottimismo” pedagogico che sarebbe rimasto costante – alla scuola, al suo allargamento, al suo miglioramento. Non è un caso che proprio De Mauro sarà uno dei principali ispiratori, quasi un decennio dopo, delle Dieci tesi per l’educazione linguistica (http//www.giscel.org). Pubblicate nel 1975, le tesi costituivano, da una parte, la messa in discussione più radicale del tradizionale insegnamento dell’italiano (ma non solo), sia nelle sue prassi consolidate (la classica analisi grammatica e logica o la centralità della produzione scritta) sia nella forma mentis “classista” del docente, che, nella santificazione dell’italiano colto, tendeva a una vera e propria fobia nei confronti delle competenze dialettali dello studente. La parte costruens del documento consisteva nella prefigurazione di un insegnamento che partiva dalle abilità ricettive del discente, ma che tendeva a trascendere la questione del linguaggio per arrivare a disegnare un cambiamento radicale della scuola. Basta leggere la tesi n. 9: «Non c’è dubbio che seguire i principi dell’educazione linguistica democratica comporta un salto di qualità e quantità in fatto di conoscenze sul linguaggio e sull’educazione … L’obiettivo ultimo, per questa parte, è quello di dare agli insegnanti una consapevolezza critica e creativa delle esigenze che la vita scolastica pone e degli strumenti con cui a esse rispondere.»
Il documento ebbe delle conseguenze importanti e durature sulla scuola italiana (in particolare, direi, sul ciclo di formazione primaria): le linee-guida vennero recepite fin dal 1979, e la loro influenza è ancora riscontrabile nelle più recenti indicazioni curriculari. Questo è stato reso possibile dal fuoco di fila, congiunto, di una imponente produzione scientifica di rinnovamento in merito alle idee sulla lingua, e a un impegno militante, si direbbe, degli insegnanti democratici: un nesso tra accademia e prassi socioculturale, dunque, che si è dimostrato positivo, e sul quale varrebbe la pena di riflettere oggi, in un contesto di estremo paludamento dell’Università italiana. Non solo, infatti, se messo a confronto con i dibattiti teorici, e tendenzialmente astratti, sulla “fascistizzazione” della lingua (tra Pasolini e Barthes), questo slancio sembra appartenere a un mondo totalmente altro. Il punto sul quale vorrei insistere è la costanza di un approccio “progressista” alla questione dell’educazione linguistica che ha fatto di De Mauro un intellettuale del tutto anomalo nel contesto accademico. Basta sfogliare le pagine della Storia linguistica dell’Italia repubblicana (2014), che quella dell’Italia unita completava: la questione divenuta centrale non era più la scolarizzazione, la quale, pur con limiti innegabili, aveva permesso al paese di fare passi da gigante dopo gli anni ’60. Le nuove disuguaglianze linguistiche riguardano, per De Mauro, le difficoltà dei parlanti a gestire e rispondere a stili di vita che, nonostante il livello di scolarità più o meno diffuso, non consentono di continuare a esercitare le competenze culturali assorbite durante l’età giovanile. Per questo il problema dell’analfabetismo funzionale, che colpisce più della metà della popolazione italiana secondo le statistiche dell’Ocse, diventa centrale nella battaglia culturale di De Mauro, ed è un buco della serratura linguistico con cui guardare alla società in generale: perché consente di spiegare le sue più profonde tendenze in termini di partecipazione alla vita politica, ma anche di censurare l’atteggiamento tendenzialmente reazionario degli intellettuali – ma non solo: basti pensare al fenomeno del “nazismo grammaticale” diffuso sui social network – che lamentano la decadenza dell’italiano, fraintendendo le riflessioni di un Pasolini o di un Calvino sull’antilingua. Mi pare che questo atteggiamento emerga in maniera evidente nell’appello lanciato dal Gruppo di Firenze, il 6 febbraio 2017, firmato da 600 professori universitari, che propone di risolvere il problema del supposto “pessimo stato” della lingua italiana tornando alle pratiche pedagogiche più tradizionali. Spetta a uno dei firmatari, lo storico Ernesto Galli della Loggia, il merito di aver svelato, pochi giorni dopo sulle colonne del Corriere della Sera, che uno degli obiettivi polemici del documento era proprio l’opera di Tullio De Mauro, “principale” responsabile della situazione di balbuzie comunicativa degli italiani.
È un paradosso, perché proprio il problema dell’analfabetismo funzionale – ben più ampio e sfrangiato rispetto a quello descritto dal documento dei 600 – ha permesso a De Mauro uno spostamento, o aggiornamento, dell’obiettivo della «buona battaglia per migliorare le condizioni linguistiche e non solo linguistiche dell’Italia» (sono parole, significative, della Storia linguistica dell’Italia repubblicana). In questo aggiornamento, emergeva una grande fiducia, di tipo quasi illuminista, nel ruolo della scienza nella società: un’attitudine capace di grandi aperture cosmopolite (basta pensare alla recente, e attualissima, riflessione sull’Europa come culla del plurilinguismo) e ma anche di una messa in discussione delle gerarchie tradizionali, affinata nella relazione con figure-chiave come Mario Lodi o Lucio Lombardo Radice. Quello che più colpisce, nel provare a fare un bilancio di una figura come De Mauro, è anche la sua capacità di discostarsi rispetto a un “modo” specifico di essere intellettuale (e professore universitario). Per comprenderlo, forse vale la pena ritornare alla storia a scuola, e ricordare come alcuni docenti, anche progressisti, reagirono all’apertura alla Global history che la Commissione presieduta dall’allora ministro Tullio De Mauro tentò di realizzare, prima che questa proposta naufragasse a causa della vittoria elettorale di Berlusconi nel 2001. Per molti storici di quegli anni, il tentativo era assurdo perché rischiava di mettere sullo stesso piano gli Aborigeni australiani e la cupola del Brunelleschi (esempio vero, non inventato, usato da Giuseppe Galasso su Il Mattino, 15 febbraio 2001), che proprio la Storia (quella con la S maiuscola) aveva messo su due piani diversi. L’esempio mostra, forse con poca sorpresa, la differenza fra un atteggiamento di passiva proiezione della “scienza” sulla società e un tentativo, generoso, di far reagire quella società nel suo insieme a partire da una consapevolezza più ampia. Non è un caso che De Mauro amasse le classi capovolte. Sapeva rovesciare, con ironia e delicatezza, tante inerzie che si annidano nel nostro rapporto con la lingua e con la cultura. Progressista? Ottimista? Direi democratico, a suo modo radicale. E oggi più che mai c’è bisogno di conservare e riattivare la sua eredità.