di Paolo Maria Mariano
Un tempo pensavo che non avrei mai visitato Parigi né altro luogo della Francia, con il determinismo che accompagna la gioventù. Poi mi sono ritrovato più volte a Parigi, anzi ho scritto anche versi sulla Ville Lumière in un momento d’incoscienza.
Mon Voyage
Parigi ha il colore della pioggia lenta,
dell’asfalto dei viali,
dei muri, dei tetti, dello sguardo assorto delle finestre.
Valéry camminava
“estremo nel disprezzo”
“assoluto nell’ammirazione”.
Proprio questi versi, nonostante la loro inguaribile debolezza e l’approssimazione, non vengono dalla percezione del disagio sociale delle periferie, quei sobborghi che in francese prendono il nome sonoro, ingannevolmente esotico, di banlieue. Semmai emergono da quel sentimento che può cogliere qualcuno fermandosi tra gli scaffali di Shakespeare and Company, al 37 di rue de la Bûcherie, libreria e sala di lettura dal 1919, o mangiando a Le Procope, nel mezzo del quartiere latino, al 13 di Rue de l’Ancienne Regime, da dove partì l’assalto alla Bastiglia, o sedendo da soli, fuori da un piccolo ristorante, in una Place Dauphine spoglia di gente, con l’illuminazione immota e i battelli che passano lenti sulla Senna di là della cerchia di case, accompagnati dal silenzio. È quella stessa atmosfera che ha fatto sì che Parigi fosse concepita come luogo principe dell’arte e della cultura in lunghi tratti dell’Ottocento e del Novecento, prima che il primato andasse a New York e poi si delocalizzasse infine in rivoli differenti, ritoccando città che erano già state punti di coagulo della fantasia e che in periodi diversi riprendono a tratti il loro ruolo antico. Si tratta di quell’atmosfera che la percezione della storia dei luoghi comunica. Quella stessa atmosfera che ha spesso spinto chi voleva intraprendere una strada artistica (che di arti figurative o di musica o di letteratura si trattasse) a scegliere Parigi come luogo che potesse accogliere parte della propria esistenza, sia perché in fuga per situazioni politiche – gli esempi sono molteplici – sia per scelta, come per due anni fece Enrique Vila-Matas, muovendosi da Barcellona, quando cercava di capire se e quanto sarebbe potuto diventare scrittore. “Andai a Parigi verso la metà degli anni settanta e lì fui molto povero e molto infelice. Mi piacerebbe poter dire di essere stato felice come Hemingway, ma allora tornerei semplicemente il povero giovane, bello e idiota, che ingannava se stesso ogni giorno credendo di aver avuto una discreta fortuna a poter vivere nella sudicia mansarda affittatagli da Marguerite Duras al prezzo simbolico di cento franchi mensili, e dico simbolico perché così lo interpretavo o lo volevo interpretare io, che non pagavo mai l’affitto, di fronte alle logiche – anche se per fortuna solo sporadiche – proteste della mia strana padrona di casa, e dico strana perché a me sembrava di capire tutto quello che mi veniva detto in francese tranne quando ero con lei”. Così Vila-Matas scrive nel suo “Parigi non finisce mai” (Feltrinelli, 2006). È un memoriale, il suo, che si stempera nella finzione dell’immaginare una conferenza a Barcellona che si sviluppa in tre giorni, in tre seminari di due ore ciascuno, un memoriale affrontato in maniera obliqua rispetto al modo con cui Canetti o Chatwin furono assidui narratori della memoria degli eventi personali. In Vila-Matas il discorso sulla vita si mescola al chiedersi come si debba fare letteratura e cosa sia in realtà farla – è un atteggiamento che è poi presente in altri suoi scritti; lo stesso pretesto della conferenza riappare altrove. La vita e la letteratura si mescolano, come realtà e discorso sulla realtà. L’illusione del giovane Vila-Matas a Parigi era di potersi immergere nell’atmosfera che, nella distanza di Barcellona, sembrava avere tangibile la ricchezza che la storia le attribuiva. In realtà quest’atmosfera non era densa, anzi era un po’ svanita, forse non aveva mai in realtà permeato i viali e i bistrot, ma era rimasta solo nell’intorno di chi l’aveva in sé e forse ora non c’è più o ritorna talvolta quando la storia vuole. Di questo si accorse Vila-Matas e tornò a Barcellona. Così era accaduto a Tomasi di Lampedusa quando, in un convegno di letteratura a San Pellegrino Terme, nel 1954, accompagnatore del cugino Lucio Piccolo, lì invitato da Montale, dalla conoscenza diretta dei letterati in auge del tempo si convinse che era futile avere paura di mettere su carta quanto aveva in sé maturato in anni di letture e pensamenti. Anche Vila-Matas, dopo essere tornato indietro, è diventato uno scrittore, diverso da Tomasi di Lampedusa, ma uno scrittore. “Uscii dalla sua vita come si esce da una frase. Poi andai al Flora a mangiare un croque-monsieur. Bevvi un liquore alle more e analizzai la situazione. L’analizzai per sei giorni e il settimo tornai a Barcellona”. Così fu e alla fine, nel mio piccolo, neanch’io mi sono fermato a Parigi.