La città oltre il visibile

di Antonio Prete

Premessa

Con le sue strade tumultuanti di vite e di destini, con i suoi silenzi notturni e le sue luci, con i suoi cieli e le sue nuvole, con le sue finestre dietro le quali pulsano storie e desideri, e si consumano amori e sogni, la città non è entrata nella scrittura letteraria come un tema tra gli altri o come scenico fondale per la narrazione, ma è stata personaggio vivente, presenza di volta in volta labirintica o dispiegata, enigmatica o familiare, corporea o fantasmatica.

La Pietroburgo di Dostoevskij, la Parigi di Baudelaire e di Proust, la Dublino di Joyce, la Praga di Kafka, con i viali, i palazzi, gli interni borghesi, le mansarde e soffitte, i quartieri eleganti o loschi, non hanno soltanto accolto i personaggi romanzeschi, ma hanno dato loro una lingua, un tono, un ritmo. Il respiro stesso della città s’è fatto trama e  soffio animatore della narrazione. Raccontare la città, nella modernità, ha significato dire della condizione umana, delle sue sofferenze o speranze.

Ma, nel viaggio che ora  ci accingiamo a compiere, prima di avventurarci nelle strade della città moderna -della “ville moderne”, diventata con il Baudelaire dei Fiori del male spazio e tempo dove poter leggere nientemeno che un’epoca- vorremmo sostare per un poco in una storia che precede e che ha  anch’essa rappresentato la città nella sua doppia presenza: luogo brulicante di vite e fonte per le avventure dell’ immaginazione, recinto visibile di costruzioni, di ambienti, di giardini, di abitazioni e allo stesso tempo soglia per la costruzione fantastica di un’altra invisibile, animata, città. E’ questo, poi, il proprio della letteratura : essa mostra il visibile, penetrando nelle sue pieghe, nei suoi recessi, e allo stesso tempo costruisce al di là del visibile un universo di presenze, di storie, di vite. Il qui e l’oltre, la storia e l’invenzione, l’esperienza corporea e quella fantastica, il sentire e l’immaginare sono la doppia pulsazione, insomma il respiro, della scrittura che chiamiamo letteraria.

Mitografie

Le città del mito e delle narrazioni epiche o tragiche –Troia o Creta, Micene o Tebe, tra le tante- hanno continuato a vivere, al di là della loro originaria presenza nei “classici”, non solo nell’immaginario diffuso tra i viaggiatori che veleggiavano, in epoche diverse, verso i siti dell’antica Grecia, ma anche presso una scrittura che in epoca moderna ha voluto rianimare quei resti di mura e di templi, di agorà e di teatri per ambientarvi storie e personaggi. Così, soprattutto tra fine Ottocento e primo Novecento,  alla romantica idealizzazione della grecità, del suo rapporto tra bellezza e armonia, tra passione per la sapienza  e senso del tragico, è sopravvenuto un gusto per un mondo perduto di supposte eleganze e raffinata sensibilità : tra il francese Pierre Loti e il D’Annunzio de La città morta (scritto per la Duse, testimonianza di un amore) il mito ha sorvegliato le moderne estenuazioni del sentire. Ma al di là delle presenze e riprese del mito, indubbiamente città come Atene o come Alessandria d’Egitto hanno convogliato verso la loro presenza storica o fantastica scritture romanzesche ed esperienze poetiche.  Quanto ad Alessandria, la sua stratificata storia, col porto sepolto e l’antica Biblioteca, distrutta più volte e rinata, è stata teatro per la narrazione e la poesia: del resto il succedersi di culture –da quella ellenistica a quella neoplatonica, da quella gnostica alle varianti della patristica- e la grande tradizione delle scienze astronomiche  e fisiche,  hanno alimentato nel tempo il mito di una città perduta che la fantasia ripopola di  figure e di voci.   Del resto come non riandare da Aristarco o Ipazia, da Filone o Origene verso il tumultuante crocevia di storie e culture racchiuse, in epoche diverse, nella stessa città? E l’ombra, e il tremito, di questa altra svanita città respira nei versi -di grande energia evocativa- di Costantino Kafavis, e nei versi e nelle prose di Ungaretti, che ad Alessandria è nato e ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza.  Alessandria, come anche Bisanzio, appaiono soprattutto come spazio architettonico e urbano abitato dalle tante parvenze che giungono da epoche lontane, sicché voci, lingue, figure irreali si sovrappongono al crocevia di culture che persiste : concrezione tumultuante di una mediterraneità fantasiosa e accesa,  sulla quale aleggia il profumo dell’ Oriente.

Le linee e le cupole di un’altra città traspaiono lucenti in tante scritture che la tradizione ebraica e cristiana ha alimentato : ecco Gerusalemme, il cui profilo, apparendo in lontananza, si mostra ai crociati come l’orizzonte a lungo sognato di una scelta e di un’avventura guerresca, e per questo accende gli animi. Siamo nel canto terzo della Gerusalemme Liberata di Tasso, quando la città appare sotto i primi raggi del sole e il suo nome si fa litania, benedizione, gioia :

 

Ecco apparir Gierusalem si vede,

ecco additar Gierusalem si scorge,

ecco da mille voci unitamente

Gierusalemme salutar si sente.

La simbolizzazione continuerà a trasferire una storia di distruzioni e di esodi nelle linee di un’ opposizione tra il qui e l’altrove, tra la città terrena e la città ultraterrena : la Gerusalemme  terrestre sarà per molti ombra e annuncio della Gerusalemme celeste.

 

L’uomo della folla

L’avvento della modernità, e con essa della rivoluzione industriale, l’abbandono delle campagne, l’espansione dei centri urbani fanno della nuova grande città soprattutto uno spazio abitato dalla moltitudine, dove nel cammino ciascuno è sfiorato da un altro a lui ignoto : volto senza nome, esistenza i cui labirinti interiori e le cui avventure sono materia per un’assidua fantasticheria. E’ Edgar Allan Poe che col racconto L’uomo della folla (The Man of the Crowd) inaugura una visione della metropoli fondata soprattutto sul brulichio misterioso di una moltitudine, sul movimento incessante, apparentemente privo di vera direzione, della folla che si forma e riforma. E’ Londra la città del racconto, ma presto essa diventa l’immagine di ogni metropoli. Colui che narra se ne sta, al cadere della sera, seduto in un Caffè, dietro una vetrata dalla quale prende a osservare il passaggio della folla, e nel formarsi di una doppia corrente  comincia a scorgere i volti, gli abiti, i gesti, le smorfie, e persino i segni di possibili pensieri, o fantasmi, che si mostrano sulla fronte degli individui o sono consegnati a una particolare movenza del corpo in movimento. Così, alle prime classificazioni, che distinguono quelli dagli occhi mobili, svelti, noncuranti degli urti, sicuri nell’incedere, da quelli che invece hanno gesti smaniosi, volti congestionati e parlano da soli  e gesticolano pur circondati dall’anonimia e dall’indifferenza, sopravvengono altre osservazioni che definiscono, indovinano, in certo senso ordinano gli sconosciuti in categorie, mestieri, abitudini. L’indagine è avviata e presto si fa  minuziosa, analitica. Ecco sfilare nobilotti, borghesi, commercianti, furbi venditori di dubbie mercanzie, uomini d’affari e affaristi,  ecco la vasta tribù impiegatizia, nella quale gli ambiziosi e gli sprezzanti sono seguiti dagli impiegati di concetto appartenenti a ditte dalla solida reputazione, riconoscibili sia dalla giacca, dalla cravatta e dalla sciarpa, sia dall’ incipiente calvizie sia dall’orecchio destro che  sporge bizzarramente perché (come traduce Giorgio Manganelli) “aduso a far da portapenna”.  E poi passano tagliaborse che infestano la città, giocatori riconoscibili dal panciotto di velluto e dall’occhio velato, opaco, e dalle labbra tirate e pallide. Passano dandies, militari, venditori ebrei,  giovinette dimesse che fanno ritorno a “case senza letizia”,  ragazze già esperte delle civetterie necessarie al loro mestiere, e ancora facchini, carbonai, spazzini, accattoni con gli organetti o le scimmiette, artigiani, lavoratori sfiniti. Ma un volto appare, in mezzo a questo fitto scrutare di segni, un volto singolare che spinge l’osservatore verso la decisione di lasciare il suo tavolo dietro la vetrata e avventurarsi al seguito dello sconosciuto. E’ la seconda parte del racconto: per viali, per piazze, per vicoli, per percorsi concentrici e reiterati il narratore segue il misterioso passante, dai vestiti sudici ma dalla biancheria di elegante tessuto, dal mantello sdrucito che però rivela, attraverso uno strappo, un diamante e un pugnale. Nell’ondeggiamento della folla e nel succedersi delle ore, nei quartieri alti e nei quartieri della plebe, nella notte che declina e nell’alba e sotto il sole già alto, fino alle ombre della seconda sera, lo sconosciuto è seguito fino allo sfinimento dell’implacabile indagatore. Il misterioso passante non cessa di camminare. Perché egli è colui che rifiuta di restare solo. E’ infatti l’uomo della folla. L’invenzione di Poe restituisce della città moderna l’essenza per dir così umana : la moltitudine di vite e di storie, di forme e di fogge, di pensieri e di avventure, l’antico labirinto architettonico diventato intrico di destini, contiguità di estranei, sfiorarsi di corpi, lontananze che si congiungono senza conoscenza, prossimità che si allontanano senza appartenenza. La moltitudine metropolitana descritta da Poe la ritroveremo in Baudelaire, che peraltro è il grande traduttore e interprete dello scrittore americano.

 

Parigi, capitale del  secolo XIX

Questa definizione è di Walter Benjamin, il grande filosofo e scrittore che ci ha lasciato alcune delle più profonde interpretazioni di Baudelaire, del rapporto di Baudelaire con Parigi, con la Parigi dei “passages” e dei boulevards, della nuova urbanistica sopravvenuta dopo il ’48. “Fourmillante cité, cité pleine de rêves”. (“Brulicante città, città colma di sogni”). Questo verso dei Fiori del male, nella poesia Les sept vieilliards,  appartiene alla sezione dedicata a Parigi, intitolata Tableaux parisiens, quadri parigini.

Dinanzi alla città moderna la poesia s’è posta come dinanzi alla nuova natura da imitare e descrivere e reinventare: si trattava di cogliere l’incantesimo nascosto tra vicoli, boulevards, portici, piazze, evocare l’invisibile, dare un corpo ai simulacri, accogliere nella lingua  l’affollarsi di presenze e di esistenze. I Tableaux parisiens di Baudelaire danno forma  -evocazione, stile, passione-  al paesaggio urbano tumultuante di voci e di figure, al dolore, ai demoni e ai sogni che abitano la metropoli e alle figure che la metropoli tende ad allontanare dal suo recinto. Il poeta si fa, in certo senso,  etnografo della popolazione visibile, ma anche di quella invisibile. Lo svagato vagabondare del poeta flâneur nella città moderna è disposto a lasciarsi sorprendere dalle apparizioni –tra i cantieri, nelle strade appartate, nei passages– e legge queste apparizioni come allegorie, cioè come occasione di una meditazione sull’altrove, sulla lontananza, sull’impossibile. Si tratta di apparizioni che rivelano un altro tempo, un tempo che si sovrappone al rumore della città, e sospende per un istante il tumulto che trascorre nelle sue vie. Così il grottesco moltiplica le sue figurazioni,  e dietro di esse si disegnano corpi perduti, o impossibili.  Alcuni ciechi attraversano “il nero illimitato” di una città che per loro è deserta di immagini e cercano il cielo. All’angolo di una strada, stracci della povertà coprono una ragazza, ed ecco che dietro questa dimessa figura di una “artista di strada” appare l’immagine di una bellezza guizzante, regale, superba.  E tuttavia proprio nel cuore della metropoli passa per il poeta moderno il meridiano della Malinconia:

Paris change! Mais rien dans ma mélancolie

N’a bougé ! palais neufs, échafaudages, blocs,

Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie,

Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs.

Parigi cambia, e niente la mia malinconia

ha mutato: palazzi nuovi, pietre, travi,

vecchi sobborghi, tutto per me è allegoria,

e i miei cari ricordi più che rocce son grevi.

Il ricordo è  quel che resiste  nell’aria della città che cambia.  Nel traffico e nel frastuono di un cantiere, ecco un cigno : è uscito, nel corso del trasporto, da una gabbia, è lontano dal suo ambiente naturale, con le zampe palmate gratta il pavé asciutto, poi solleva lo sguardo verso il cielo come se implorasse un po’ di pioggia. E’ l’immagine di ogni spaesamento, questa figura del cigno : dice l’esilio nella modernità, la condizione di chi è straniero. E infatti dietro di lui ecco che i versi del poeta elencano altre figure dello spaesamento e dell’ irrimediabile nostalgia: la ragazza nera, immigrata,  diventata tisica, la quale dietro la muraglia di nebbia scorge i palmizi della sua Africa lontana, e via via gli orfani,  coloro che sono preda del dolore, i dimenticati.

Altre figure animano la città baudelairiana , nei poemetti in prosa intitolati Lo  Spleen di Parigi o  nel saggio dedicato al pittore Constantin Guys, che ha per titolo appunto Il pittore della vita moderna : il volto del saltimbanco, la donna col suo maquillage, le incarnazioni della moda, il dandy,  le ombre che si muovono  di là dalle finestre. Disegni, tutti, di un album  che racconta la modernità e lascia intravedere dietro le figure qualcosa di lontano e di assente, quell’altrove che agisce come pensiero assiduo.  E’ questa l’ esperienza dello spaesamento, esperienza propria della metropoli. In questa situazione la poesia ha un nuovo compito : accogliere nel verso sia quell’altrove che lampeggia talvolta nel sempreguale ripetersi dei giorni, sia tutto quello che la città non sa accogliere o sa solo sospingere ai propri margini.  Il poeta che ha inaugurato la poesia metropolitana dice di amare “teneramente”, sin dall’infanzia, il deserto e il mare, dunque proprio quello che è davvero altro dalla città moderna.  Il deserto e il mare : figure del silenzio e dell’immenso, della spoliazione e dell’avventura. Anch’esse figure dell’altrove. Talvolta la nostalgia, dice ancora il poeta, è nostalgia  “d’un pays qu’on ignore”, nostalgia di un paese che non si conosce. E’ la lontananza in quanto lontananza.  A questa e alle altre forme di nostalgia non c’è rimedio, esse sono dentro il ritmo stesso, dentro il qui e ora del nuovo tempo urbano.  Ma la poesia può ospitare tutto questo nella sua lingua, come ospita quel che è escluso e abbandonato.

E c’è anche, nel cuore tumultuante della città, la possibilità di un’esperienza che allo stesso tempo è di incontro mancato e di percezione profonda, immediata, anzi istantanea :  un amore vissuto soltanto nel tempo e nello spazio della possibilità, e tuttavia forte e vero come se fosse stato vissuto, un amore che appartiene a quell’orizzonte impalpabile dove quel che non accade ha un’energia, una risonanza interiore, un’intensità davvero più decisive, e forse più reali, di quelle provenienti da quel che accade. Il racconto di questa singolare esperienza metropolitana Baudelaire l’ha affidata al sonetto intitolato A une passante, uno dei testi più belli dei Fiori del male, la poesia metropolitana forse più nota e più amata, tant’è che ha avuto nel corso del tempo, presso varie lingue, diverse riprese e imitazioni, anche da parte di grandi poeti. La trascrivo, facendola seguire, come la quartina citata sopra, dalla mia traduzione :

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;
Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair…puis la nuit! –Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?
Ailleurs, bien loin d’ici! Trop tard! Jamais peut-être!
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

 

La strada era assordante, urlava tutt’intorno.

Esile ed alta, in lutto, regina dolorosa,

una donna passò, con la mano fastosa

sollevando il vestito, di trine e balze adorno.

Leggera, nelle gambe una scultorea grazia.

Negli occhi suoi, cielo ove s’annuncia l’uragano,

bevevo, come quello ch’è fatto ossesso e strano,

la dolcezza che incanta, il piacere che strazia.

Un lampo … poi la notte! Bellezza fuggitiva,

che con un solo sguardo la vita m’hai ridato,

non ti vedrò più dunque che nell’eterna riva?

Altrove, in lontananza, e tardi, o forse mai!

Non so dove tu fuggi, tu non sai dove vado :

io t’avrei certo amato, e tu certo lo sai!

La passante di Baudelaire inaugura la sequenza delle figure femminili che la poesia e il romanzo mostreranno sul fondo della folla cittadina, dalla “fuggitiva” di Proust alla Nadja di Breton alla “passante” di Campana :  insorgenza di un’alterità fatale, di una bellezza che contraddice l’anonimia, di  un enigma che si staglia contro  la ripetizione  del già noto.

“La strada era assordante, urlava tutt’intorno”. Il primo verso  si apre sulla strada, sul grido affannato della moltitudine. La strada cittadina abolisce ogni possibile forma e definizione per mostrarsi soltanto come invasa dal rumore, dal suo eccesso. Ma subito l’apparizione impone una presenza che allontana ogni elemento esteriore, crea un suo proprio spazio, un suo proprio tempo: la donna, prima ancora d’essere percepita nel gesto che solleva con la mano l’ampia veste orlata, è colta nei tratti di una figura dolorosa, regalmente dolorosa. Una bellezza che unisce l’eleganza e il lutto, un corpo che è composta immagine del dolore e in questa compostezza non abolisce la grazia delle forme. Dal fondo dell’anonimia un’immagine balza: il suo passaggio cancella l’urlo della strada, isola il tempo dell’apparizione. E questo tempo subito si dilata : appaiono, ravvicinati, i tratti della figura. L’incontro, l’istante dell’incontro, è tutt’uno con l’apparizione di questi tratti. Il corpo, prima osservato nel movimento e nel portamento, nella figura, ora appare solo come volto, come luce degli occhi nel volto.   Ed è questa luce che suggerisce l’immagine del cielo : un cielo in tempesta, sorgente e insieme riflesso della tempesta interiore, dello stupore e dell’incantamento del poeta. La poesia d’amore che ci ha consegnato innumerevoli variazioni di questa luce degli occhi, e di quel “terribile” , di quello “spavento”, che sta nel sublime d’amore, qui affiora come orizzonte dell’incontro. Il quale è tutto consegnato a un lampo appunto degli occhi, a un éclair. E’ qui che la classica e medievale poesia d’amore fa un balzo  verso un incontro che si configura come esperienza singolare, irripetibile.  Il turbamento si trasforma in rinascita, il fuggitivo in presenza custodita oltre il suo stesso dileguare.  L’estraneità si fa prossimità, ma nell’assenza di un nome. Ed è un’assenza di nome, questa della passante, che dice un’identità più forte di quella che può dare un nome.
Un éclair…puis la nuit, un lampo…poi la notteEcco, messi a confronto i due estremi della luce e dell’oscurità, della presenza e dell’assenza, dello sguardo e della sparizione. Sullo sfondo, non detto, c’è ancora il brulichio della folla e il rumore della strada nella città moderna. Questo improvviso passaggio dalla luce all’oscuro inaugura un elemento della poesia metropolitana: la rapidità del vedere, il tempo istantaneo, che la fotografia, arte propria della modernità, cattura e fissa in immagine. L’ “éclair” è analogo al lampo di luce improvvisa che illumina il soggetto del ritratto e “impressiona” la lastra.

E quel “fugitive” che designa la bellezza ha un’amplificazione che va al di là della stessa passante: sempre la bellezza è fuggitiva.  Due soggetti dell’incontro, ma nessuno sa nulla dell’altro. L’altro è in cammino anche lui, transita per la via, è parte della folla. Nella folla il cammino non ha direzione, o se la direzione c’è, è come sospesa, opacizzata dal fatto che nessuno conosce veramente il senso verso cui l’altro, anonimo, si dirige. Ed ecco l’ultimo verso, che porta con sé tutto il vigore di una certezza: la certezza  di un’esperienza d’amore  non vissuta e radicata nella consapevolezza che ci sarebbe stata : “ Ô toi que j’eusse aimé, ô toi qui le savais”. La donna non ha un nome proprio: è quel tu, quel toi, con la sua forza, a compensare questa privazione di nome. Un amore risplende nella sua possibilità e insieme nella sua mancanza. La donna s’allontana, il suo sguardo è travolto dalla sparizione propria della folla metropolitana, ma quell’incontro ha già rotto il vetro dello scarto temporale e vibra nella forma della certezza trasferita in un altro orizzonte: l’orizzonte di un tempo ipotetico, irreale, impossibile. L’estranea è diventata, in questo altro tempo, davvero prossima, confidente, anche lei ha la stessa certezza: la certezza di un’esperienza d’amore non vissuta, eppure più forte d’ogni vissuto amore.

 

Incantesimo, memoria, turbamento

La moderna progressiva urbanizzazione ha offerto ai narratori scene e suggerimenti e motivi per le loro affabulazioni. Sia che, come accade nel Victor Hugo di Notre Dame di Parigi,  la città medievale, con le sue strade affollate di mercanti e di studenti, di pellegrini e di furfanti, e i suoi sotterranei, rifugio dei diseredati e dei rivoltosi, si contrapponga alla mirabile geometria architettonica della Cattedrale, così come allo stesso tempo la bellezza luminosa e leggera e celestiale di Esmeralda si oppone al cupo e nefasto e perverso tormento dell’arcidiacono. Sia che, come accade in un’altra grande opera dello stesso Victor Hugo, I miserabili , la città stessa, con i suoi recessi e i suoi palazzi, i suoi interni borghesi e i suoi nascosti e grigi rifugi finisca col diventare personaggio che muove azioni e accoglie o respinge, protegge o allontana. E, a proposito del legame stretto tra città e miseria, tra spazi urbani e povertà, tra tuguri e disperazione, estesa è la sequenza di romanzi che raccontano l’avvento della modernità attraverso il punto d’osservazione che muove dal basso, ovvero, appunto, dai bassifondi : dal Ventre di Parigi di Zola (nel ciclo dei Rougon-Macquart) ai romanzi di Dickens, in particolare  Oliver Twist,  la città mostra la durezza del vivere, il tragico della povertà, la moltitudine di vite consegnate alla sofferenza, alla privazione, all’ignoranza e, sullo sfondo, l’offensivo benessere di una borghesia dedita agli affari e protetta dall’ipocrisia o dalle forme rituali della cortesia, chiusa nella sua suprema distrazione dal dolore altrui. I romanzi della Comédie humaine di Balzac ne raccontano gli interni. Anche la Milano dei manzoniani Promessi Sposi, così come appare nella sequenza dedicata all’ingresso di Renzo attraverso Porta Orientale e al coinvolgimento del personaggio nella “rivolta del pane”, è una città abitata dalla povertà, dal tumulto, dal grido, e governata dal sopruso, sopraffatta dalla spagnolesca incuria e boria.

E c’è un’altra faccia della città moderna, quella che mostra le vetrine dove sono esposte le merci, l’ordine degli uffici, il ritmo ordinato e alacre della produzione o della efficienza, ritmo al quale, come accade nel bellissimo racconto di Melville, un giorno lo scrivano Bartleby oppone il suo rifiuto, lasciandosi inghiottire da un duro silenzio. Un silenzio che si profila, nella sua limpida  ostinazione, come altro dalle esistenze ordinate che si aggirano tra i palazzi del quartiere : e il quartiere è quello di Wall Street, a New York.

New York, nel Novecento, con la sua bella geometria urbana, con i suoi grattacieli, con la particolare luce marina e i parchi e la folla e l’intrico di storie e di popolazioni diverse che la abitano e l’esercizio delle arti e la bellezza dei Musei acquisterà il carattere di città simbolo della modernità : tra le opere delle avanguardie   e il cinema, tra  i versi di  Poeta a New York di Federico García Lorca  e le recenti narrazioni di Paul Auster, per tutto un secolo New York è interrogata, esplorata, reinventata. Ma altre città,  mostrano i loro profili, le loro strade, i loro quartieri nella scrittura di narratori e poeti e sono sorgente di fascinazione : la Parigi di Proust, ma anche di Breton (come dimenticare la relazione tra Nadja e le strade e i ponti della città?), di Aragon, e via via di Soupault, di Queneau, o anche di alcuni racconti dell’argentino Cortázar  e, sull’onda dell’ottocentesca  San Pietroburgo di Dostoieskij, la Varsavia di Singer, la Praga di Kafka, la Dublino di Joyce. Anche se ciascuna di queste città appartiene a un mondo in cui la magia (pensiamo a un bellissimo libro, Praga magica di Ripellino) si coniuga con il ventaglio straordinario di invenzioni, di riflessioni, e di sofferenze. Quanto al Novecento letterario delle città appartenenti all’Europa orientale- spesso abitate da una singolare e funambolica e profonda passione per le arti e i saperi, proprie della diaspora ebraica-  la sua ricchezza continua a interrogarci, insieme con il tragico che travolse vite e sogni e scritture (come racconta un recente libro di Francesco Cataluccio, Vado a vedere se di là è meglio, dedicato a un viaggio nelle culture ebraiche dell’Europa centro-orientale attraverso le città). Orientale è anche Venezia, perché in essa l’Oriente è fatto architettura e incantesimo, la lontananza è fatta voce e acqua e trascolorare di fantasmatiche apparizioni, o soprassalto di turbamenti : da Morte a Venezia di Thomas Mann a Fondamenta degli incurabili del grande poeta russo in esilio Brodskij , Venezia ha suggerito senza sosta forme, stili, meditazioni, escursioni metafisiche e introspezioni. Quasi corifea di altre città italiane che hanno consegnato più volte i loro profili, e la loro anima, all’arte del narrare e alle altre arti: Napoli, tra queste, e Roma, Firenze, Siena, Genova, Pisa : ciascuna ha una storia di sguardi descrittivi e di trasvalutazioni fantastiche. Quanto poi alla Praga di Kafka, essa è come sospinta al di là delle sue strade, del suo Castello, dei suoi edifici, oltre il visibile, in quella regione dove il cammino per le vie è affrontamento  di un senso, di un senso che è sempre in fuga, sempre  in procinto di dileguarsi, e in quel paesaggio urbano fatto astratto, figure, personaggi, voci sono immagini dell’esistenza umana, del suo rapporto con l’enigma, del suo nesso con l’assurdo, con una finitudine abitata da un oltresenso indecifrato, indecifrabile. Ma la sequenza delle città rappresentate per quel che suggeriscono al di là del visibile dovrebbe continuare ancora molto, magari muovendosi dalla Lisbona di Pessoa, di Saramago, di Cardoso Pires e di Tabucchi verso i Paesi dell’America Latina, per incontrare  subito la Buenos Aires di Borges e di Bioy Casares e  soprattutto di Ernesto Sabato, nel cui romanzo Sopra eroi e tombe è proprio la città la vera protagonista, e proseguire poi con Salvador di Bahia di Jorge Amado.  Ma a questo punto il curioso indagatore si troverebbe ad affrontare un viaggio davvero interminabile: e infatti dovrebbe approdare sotto i climi e i cieli più diversi,  in città  meravigliose ospitate dalle letterature africane di diverse lingue, dalla letteratura giapponese, da quella cinese e dalle letterature di altri lontani Paesi asiatici o dell’Oceania.

 

Città invisibili e  città postumane

Ma un viaggio come quello che per un istante ci ha occupato la mente sarebbe nulla in confronto alle possibilità sconfinate che dischiude, e ha di fatto dischiuso, la rappresentazione di città utopiche, o inesistenti, o immaginarie :  alimento incessante di una fantasia che spesso si fa morale e politica e dietro la divagazione intende fare sempre esercizio di conoscenza. Nella terra di Utopia, nella Città del Sole, nella Nuova Atlantide, nelle città descritte con minuzia di particolari dall’antropologia fantastica- tra Michaux e Celati- , il ritmo dell’esistenza quotidiana, i rapporti tra gli individui, i costumi, le memorie e i templi, i mercati e le feste sono regolati da sistemi ideali,  da equilibri e da armoniose eguaglianze. La tensione verso la città ideale ha tuttavia agito anche nell’architettura e nell’urbanistica di città storiche : Urbino, Pienza, tra queste.

Anche  nel cuore delle avanguardie storiche, sulle soglie della prima guerra mondiale, il disegno di una città ideale fa parte delle invenzioni di futuristi ed espressionisti : si pensi, tra le varie ricerche progettuali, ai lavori di Antonio Sant’Elia sulla città futurista e, intorno alla rivista tedesca “Sturm”, il movimento architettonico della cosiddetta Gläserne Kette (Catena di vetro), e le visioni architettoniche del romanzo Lesabéndio, di Paul Scheerbart , pubblicato nel 1913.

Ne Le città invisibili di Calvino  Marco Polo racconta all’imperatore dei Tartari  Kublai Kan quel che ha visto nelle tante ambascerie compiute : si disegnano nel racconto linee di città favolose, concrezioni del desiderio, figurazioni dei sogni, fantasmi della memoria. Nei dialoghi con l’imperatore si dispiega via via la tela di una meditazione sul viaggiare, sull’esistenza e l’erranza, sugli idiomi e i costumi e le credenze, sull’altrove e i suoi specchi e i suoi abissi, e si aprono mappe di tutte le città possibili e irreali.  Si delinea, lungo il dialogo, una  fisica e una metafisica della città. E intanto prendono forma e lingua e colore innumerevoli siti urbani, transitabili, oppure intangibili : mura, bastioni, torri, minareti, porte e statue e templi, mulini, bazar, mercati, fontane, definiscono città “sottili”, città “nascoste”, città “continue” , ciascuna col suo carattere, la sua architettura, la sua levità e trasognata bellezza. Alcune di queste città, costruite da esperti astronomi, hanno una stretta relazione con il cielo, con il movimento dei corpi celesti. Altre si possono scorgere solo da lontano, e mutano di nome mentre sono attraversate. E ci sono città che esistono solo in quanto riflesse negli specchi d’acqua, ci sono città operosissime, città vuote, città sospese nel vuoto, città la cui essenza è volatile, città acquatiche, città che vivono solo nel loro nome. E il nome di ogni città ne dice la grazia o l’energia o lo stile o l’incantesimo. Nomi, tutti, di donne, perché la città del sogno, e del desiderio, ha a che fare con il principio del femminile, con la maternità e la leggerezza, con un’inesauribile disposizione all’invenzione narrativa (non è  Sherazade, nella sua Bagdad, a intrecciare la vita con il racconto?). Ed ecco le città invisibili allineare i loro nomi, e dietro i nomi, la loro essenza, la loro storia, la loro architettura : Diomira, Isidora, Dorotea, Zaira, Anastasia, Tamara, Zora, Despina, Zirma,  Isaura, e ancora Maurilia, Fedora, Zoe, Zenobia, Eufemia, Zobeide,  Ipazia, Armilla, Cloe, Valdrada e così via fino a Berenice, città ingiusta che “germoglia in segreto  nella segreta città giusta”.

L’invenzione di Calvino da una parte raccoglie, trasponendola su registri di levità utopica, la storia di città disegnate dalla fantasia di poeti (si pensi alla poesia di Baudelaire Sogno parigino -anch’essa compresa nella sezione dei Fiori del male dedicata a Parigi- dove una città di vetro, di cristalli, di minerali preziosi si leva nel sogno) , dall’altra sembra esorcizzare nella lunga sequenza di urbanistiche meraviglie l’ incubo di una civiltà come la nostra, sulla quale si leva minacciosa l’ombra della possibile catastrofe. Quell’ombra alla quale scrittori di grande energia inventiva e stilistica –come Don DeLillo e Cormac McCarthy-  danno una lingua e un ritmo narrativo, descrivendo il delinearsi, nella rovina, nella cenere, nel disastro,  di un gelido mondo postumano. Narrazioni che in fondo mostrano –diremmo, ancora leopardianamente-  quanto ingannevole ed effimero sia, in civiltà, l’orgoglio   di  chi si gloria delle magnifiche sorti cittadine.

 

[in Miti di città, Salvietti & Barabuffi editori, 2010. Su suggerimento di Annie e Walter Gamet, si consiglia l’ascolto di Baudelaire, A une passante, mis en musique et chanté par Léo Ferré (G.V.)].

 

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura, Scritti critici di Antonio Prete e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *