di Antonio Errico
Dice ad un certo punto l’Amleto di Shakespeare: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”.
La condizione del cielo che forse più di ogni altra si carica di un fascino straordinario, è quella della cognizione che esista sempre qualcosa di sconosciuto e il sospetto che possa essere addirittura inconoscibile.
Ogni scoperta costituisce, in fondo, la conferma di questa consapevolezza, di questo sospetto. Ogni volta che si rivela un mondo di cui non si aveva conoscenza, si rigenera il sospetto che esista altro ancora, oltre, al di là della nostra conoscenza, possibile o impossibile per la nostra intelligenza. Accade sempre ed è accaduto in questi giorni riflettendo sulla rivelazione dei sette pianeti sosia della Terra. (Ne hanno parlato su questo giornale prima Stefano Cristante e poi Ferdinando Boero con la consueta lucida argomentazione). Non sapevamo che esistessero, i sette pianeti. Eppure erano lì, addirittura vicini: trentanove anni luce di distanza dal punto in cui abitiamo; un viaggio di quarant’anni alla velocità della luce. Chi ha venticinque anni oggi, a sessantacinque si potrebbe godere la pensione da quelle parti.
Quanto più si scopre un elemento del cielo tanto più si ribadisce che il cielo ha segreti di cui probabilmente non si riesce ad avere neppure immaginazione. Allora il pensiero dell’umano tenta di sfidare la conoscibilità dell’universo – o degli universi? – e il pensiero del sovrumano ogni volta ribadisce la custodia – non gelosa- di misteri ancora più profondi, meravigliosi e oscuri.
Forse la bellezza straordinaria della scienza è in questo dialogo incessante, serrato, necessario, indispensabile, insostituibile, tra la finitezza e l’infinito, tra il tempo e l’oltretempo, fra la misura e la dismisura, tra l’ idea del possibile e quella dell’impossibile, tra il naturale e la suggestione del sovrannaturale, fra l’ordinario e lo straordinario, fra la ricerca e la contemplazione.
Vedere al di là del visibile. Immaginare oltre l’immaginato. Rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa non era stato immaginato, forse perché inimmaginabile.
“Fu a’ poeti il primo cielo non più in suso delle alture delle montagne”, dice Giambattista Vico. Il profilo dei monti era il limite, il confine. Il cielo non aveva un altro spazio. Si poteva raggiungerlo con la forza delle gambe. In fondo era vicino, prossimo, o comunque ad una lontananza che era possibile abbreviare. Poi la fantasia spostò il cielo oltre le montagne e l’uomo inseguì la fantasia e raggiunse il cielo che aveva fantasticato, quello che si stendeva oltre le montagne.
Il metodo e sempre quello, in fondo: identico. Si immagina uno sconfinamento dai perimetri del conosciuto e si cercano i mezzi per poterlo realizzare, ed ogni cielo che si raggiunge rinforza il sospetto che ce ne possa essere un altro e con il sospetto cresce il desiderio di poterlo conoscere.
Il metodo è sempre quello di una tensione finalizzata alla decifrazione dei codici dell’infinito, nella consapevolezza che quei codici si compongono di innumerabili varianti, che la decifrazione resterà sempre incompleta e incompiuta perché si presenteranno sempre varianti ulteriori, che muteranno le forme e le manifestazioni, i movimenti degli elementi che vediamo e di quelli che non vediamo, e appariranno sempre nuovi corpi di luce, nuove stelle, nuove traiettorie, altri pianeti che rassomiglieranno alla Terra oppure no, e ci chiederemo ancora se qualcuno abita quei mondi. Non siamo i primi a chiedercelo; non saremo certo gli ultimi.
Ogni volta che scopriamo qualcosa ci sentiamo più vicini al cielo. Questo sentimento un poco ci esalta e un po’ ci fa paura.
Ma la rivelazione di qualche mistero del cielo, del tempo, dello spazio, l’idea di sovrumani silenzi, o di un sibilo potentissimo, le teorie che riguardano le vibrazioni di energia, le incantevoli supposizioni sulla musica dell’universo, il bosone di Higgs che la fisica divulgativa ha denominato la Particella di Dio, non smorzano lo stupore dell’uomo nei confronti dell’infinito. Così continuiamo a rivolgere lo sguardo affascinato alle stelle cadenti nonostante la comprensione del fenomeno sia un fatto definitivamente acquisito.
L’uomo che lancia la sfida all’enigma, all’incompreso, non rinuncia alla bellezza della sproporzione, della dismisura fra l’umano e il sovrumano, della indecifrabile metamorfosi degli esseri e delle cose, del senso nascosto, indefinito, dell’ombra che confonde i contorni e rende impenetrabili le cose: per esempio le cose che riguardano il principio di tutto e la fine di tutto.
(Una volta un uomo di scienza si ritrovò davanti agli occhi un arcobaleno. Sapeva perfettamente per quali ragioni e con quali combinazioni si forma l’arcobaleno. Ma alle ragioni e alle combinazioni non ci pensò. Si disse semplicemente: questa è la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Si fermò alla meraviglia, senza indagarla. Con un istinto che sopravanzava la ragione. Con una suggestione ed un’emozione più forti di qualunque conoscenza e qualunque scienza.)
Probabilmente aveva ragione Louis Pasteur quando diceva che poca scienza allontana da Dio ma molta scienza riconduce a Lui. La scienza esiste perché rimane sempre qualcosa da comprendere. Anche la religione esiste per questo motivo. Forse anche l’arte. La sapienza della scienza è nella coscienza del limite. La scienza sapiente sa che ci sono altre scienze che essa non conosce; sa anche di non conoscere molte cose della sua stessa scienza. Sa bene che la sua investigazione ad un certo punto si deve fermare, che sarà continuata da un’altra ricerca che ad un certo punto si dovrà fermare. Sa che la verità a volte, molto spesso, è una rivelazione improvvisa, un’intuizione inaspettata, uno scarto dalla logica, che scienza e trascendenza non si contrappongono, che esisterà sempre qualcosa di irraggiungibile, di inesprimibile, che l’immenso e meraviglioso testo del cielo nasconderà sempre una variante con un significato che noi non riusciremo mai a scoprire. Lo si può affermare anche con arroganza, perché nessuno avrà tempo e possibilità e destino per dimostrare il contrario.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 28 febbraio 2017]