di Ferdinando Boero
Guglielmo Forges Davanzati, sul “Quotidiano” di venerdì scorso, prova a spiegare i motivi dell’enorme divario tra le Università settentrionali e quelle meridionali. Ci sono altre cause oltre a quelle che lui giustamente sottolinea. Una delle più importanti è che i professori universitari del nord spesso usano le università del sud per far fare carriera ai loro allievi, e poi li richiamano al nord. Quando arrivai a Lecce da Genova, nel 1987, altri 13 o 14 colleghi di altre materie arrivarono assieme a me a seguito di un’infornata concorsuale. I concorsi erano nazionali, con una sola commissione per tutta l’Italia. Chi era in commissione “metteva a posto” i suoi. I più bravi (o i più fidati) restavano a casa, gli altri venivano mandati ai confini dell’impero (Lecce). Dopo tre anni si poteva essere richiamati a casa. Dopo tre anni restammo solo in tre. Tutti gli altri erano tornati a casa. Ovviamente questo arrecò non poco disagio alla gestione di didattica e ricerca. Poi le cose cambiarono, e i concorsi divennero locali. La regola era: ognuno chiama i ciucci suoi…
Allora decisi di restare a Lecce per un motivo opposto a quello riportato dall’amico Forges: i finanziamenti. Arrivavano a vagonate (e arrivano ancora). Fondi per costruire nuovi edifici (e mi ritrovai nel nuovissimo centro Ecotekne) e poi fondi POR, FIRB, PON, INTERREG, CLUSTER, progetto Catania-Lecce e altre sigle che neppure ricordo. In gran parte queste fonti di finanziamento ci sono ancora.
Se sono venuto a Lecce è perché non avevo padrini, e qui non voleva venire nessuno. E non me ne sono andato perché, anche se all’inizio forse me ne sarei tornato a Genova, poi compresi le potenzialità di questa Università. Non sono iscritto a partiti e tanto meno a logge di fratellanza più o meno occulta, eppure qui ho avuto la possibilità di costruire, assieme a chi è stato reclutato in seguito, una realtà che ha assunto prima carattere nazionale e poi internazionale. Il processo ha richiesto circa 20 anni. A Genova non avrei avuto le stesse occasioni che ho avuto qui. Ha ragione Forges Davanzati a rimarcare come l’assenza di forti realtà produttive limiti lo sviluppo di certe branche dell’Università. Le Università di Modena (con la Ferrari) o di Torino (con la FIAT) sono senz’altro più avvantaggiate nei rapporti con il mondo produttivo nel campo automobilistico, così come lo sono le Università che operano in aree dove altre attività sono molto sviluppate. Ma, alla fine, ogni Università riesce a “trovarsi un mercato” in un solo modo: l’eccellenza di quello che fanno i suoi ricercatori. La delocalizzazione vale anche per noi. Se si forma un gruppo di ricerca di valenza internazionale, non ha importanza dove è localizzato. La conoscenza è un bene immateriale che può essere prodotto in qualunque posto e può essere utilizzato in tutto il mondo. Non per niente i centri di sviluppo di tecnologie informatiche sono nella Silicon Valley e la produzione è in Cina. E’ quindi interesse dell’Università attirare le persone migliori e offrire loro ogni possibilità di sviluppo. In modo che possano usare bene le risorse a disposizione e, con la loro progettualità, attirarne di nuove. E poi ci sono le valenze territoriali legate all’unicità di quello che il territorio offre. Per il Salento le valenze sono ben note: beni culturali, beni ambientali, produzioni alimentari. Questo patrimonio è legato alle caratteristiche del territorio, e non può essere replicato altrove. E’ unico. Ma non basta che ci sia l’opportunità, bisogna che chi la coglie sia all’altezza del compito. Un’Università deve essere in grado di attirare le persone migliori e di usarle per produrne altre, creando quelli che sono spesso definiti come “centri di eccellenza”. I problemi di valutazione espressi da Forges Davanzati sono reali. Restare nella corrente dominante è garanzia di successo, mentre innovare e uscire dagli schemi può essere rischioso. Ma se si riesce a produrre qualcosa di nuovo, deviando dalle norme, si deve essere sostenuti dalla struttura, in modo che il “nuovo”, se vale, possa affermarsi. La dittatura della maggioranza spesso porta al trionfo della mediocrità e marginalizza l’innovazione di chi esce dagli schemi. Questo non viene deciso da linee politiche esterne all’Università. Ogni Università dovrebbe seguire due strade maestre: sviluppare al massimo le vocazioni che il territorio le offre, e valorizzare gli elementi innovatori, indipendentemente da quello che fanno. Le valutazioni ministeriali soffrono delle pecche rilevate da Forges Davanzati, ma si devono inventare altri criteri che permettano comunque di identificare le potenzialità positive, in modo da innescare politiche che le sviluppino. Le valutazioni interne sono essenziali. Se trionfa la mediocrità, l’Università decade. Indipendentemente dagli investimenti. Si costruiscono cattedrali nel deserto e il fallimento è sicuro. I soldi di solito ci sono, ma spesso sono spesi male. Ogni Università dovrebbe valutare in modo approfondito i propri punti di forza e di debolezza e dovrebbe intraprendere azioni di valorizzazione dei propri potenziali. Le cose le fanno le persone e il capitale umano è la risorsa primaria per un’Università. Se il capitale umano è di alto livello, i risultati arrivano. I fondi disponibili sono spesi bene, e iniziano ad arrivare finanziamenti dai circuiti internazionali. Si diventa un punto di riferimento. Se, invece, le cosiddette eccellenze “danno fastidio” e vince la mediocrità, il declino è garantito. Queste politiche non sono decise “altrove”, sono il frutto delle decisioni interne. Siamo entrati in una fase nuova, e alcune Università tendono ad attirare gli elementi migliori, rubandoli alle altre Università (che ancora non hanno capito), in modo da creare “centri di eccellenza”. In altre Università, quando questi elementi, che magari “danno fastidio”, vanno via … si festeggia. Poi ci si sorprende se arriva il declino. E magari si incolpa il destino cinico e baro.
Sono appena usciti i risultati della valutazione nazionale del sistema universitario. Andrebbero considerati con grandissima attenzione, per capire dove puntare. Il Ministero lancia segnali fortissimi, e la valorizzazione del merito è in tutti gli Statuti. Se si decide diversamente, e l’autonomia lo permette, che poi non ci si sorprenda se si precipita nelle graduatorie.
L’Università del Salento in alcune aree ha ottenuto posizioni di tutto rispetto, in altre proprio no. Se ne terrà conto in futuro, quando si divideranno le risorse, quando si decideranno le linee di sviluppo?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 1° marzo 2017]