Di mestiere faccio il linguista 3. I dialetti

di Rosario Coluccia

Questa settimana parliamo ancora dei dialetti, componente fondamentale della società italiana. Tutt’altro che moribondi, al contrario di quello che tante volte è stato pronosticato, anche in lavori scientifici di studiosi eccellenti.

Al momento dell’unità d’Italia (più di 150 anni fa) eravamo una nazione di analfabeti e di semianalfabeti. Solo una piccola minoranza era in grado di parlare italiano, ancor meno erano quelli che sapevano scrivere; gli altri si esprimevano in dialetto, in uno dei tanti diversi dialetti della nostra nazione, dal Piemonte fino alla Sicilia. Era l’Italia dei mille e mille campanili e del particolarismo. Poi, decennio dopo decennio, le condizioni sono cambiate. La scolarizzazione è cresciuta, i grandi mezzi di informazione hanno diffuso l’italiano fin nei più piccoli centri di campagna e di montagna, le campagne si sono svuotate a vantaggio delle città e dal sud molti si sono trasferiti al nord: anche per questo era necessaria una lingua comune che consentisse ai contadini del sud (diventati operai non specializzati nelle fabbriche del nord) di comunicare con gli abitanti delle città d’arrivo. Per ragioni sociali ed economiche, in una società in forte cambiamento diventava fortissima, addirittura vitale, la spinta verso l’italiano; ma i dialetti non venivano abbandonati, i parlanti non rinunziavano alla storia e alla tradizione. Il cuore di molti pulsava più forte, pensando al dialetto.

Oggi siamo un paese unito anche linguisticamente, ci esprimiamo correntemente in italiano (spesso in maniera faticosa e incerta, possiamo migliorare), ma non abbiamo abbandonato il dialetto. Una parte rilevante della popolazione è grado di usare sia l’italiano che il dialetto, variando a seconda delle situazioni. Il dialetto si parla più in famiglia e meno con gli estranei, con variazioni all’interno di questi due mondi. In famiglia si usa più con gli anziani e meno con i bambini (con intenti “educativi”, i bambini debbono imparare a esprimersi correttamente); con gli estranei si usa più con gli amici e meno con le persone di riguardo, praticamente mai negli uffici pubblici e in situazioni formali.

Con lo scorrere del tempo il dialetto cambia forma, molte parole antiche scompaiono. Ma non muore, anzi rinasce in luoghi impensati e moderni, nelle canzoni, nella pubblicità, nella rete. Vediamo come.

Il dialetto nelle canzoni diventa spesso un modo per esibire identità, esprimere attaccamento ai luoghi, difendere i tesori tradizionali della cultura e della civiltà, rivendicare le proprie radici. Mirko Grimaldi, che insegna nel nostro ateneo, ha fatto notare che una delle canzoni più note dei Sud Sound System (un gruppo salentino che combina ritmi stranieri e sonorità locali, mettendo insieme musica giamaicana, dialetto locale e ballate di pizzica) si intitola Le radici ca tieni. Cantando in dialetto difendono la propria terra e le tradizioni di essa con finalità rinnovate rispetto al passato: non più rassegnazione ma spirito di riscatto, rispetto dei valori propri e altrui. «Se nu te scerri mai de li radici ca tieni / rispetti puru quiddre de li paisi lontani. / Se nu te scerri mai de du ede ca ieni / dai chiù valore alla cultura ca tieni».

Nella pubblicità si ricorre spesso al dialetto per esaltare la genuinità dei prodotti provenienti da una determinata regione; in particolare per i prodotti alimentari, il dialetto usato in pubblicità costituisce di per sé un richiamo alla qualità dei cibi e degli alimenti provenienti dal territorio dove quel dialetto è parlato. L’azienda siciliana Tomarchio produce varie bibite (aranciata, limonata, mandarino) tutte ottenute da «agrumi da agricoltura biologica di Sicilia a filiera controllata»; in uno spot televisivo l’acquirente, dopo aver rifiutato la bibita che si vanta di essere internazionale e confezionata all’estero, sceglie la bottiglia con il logo Tomarchio perché «sapi bella» ‘ha un buon sapore’. Lo stesso richiamo alla genuinità locale fa la San Pellegrino con vari messaggi televisivi centrati sull’uso del dialetto. L’arancia clandestina che dissimula la propria origine pronunziando la frase «veru sicilianu sugnu» con accento straniero viene scoperta dal tecnico addetto al controllo di qualità e prontamente eliminata dal gruppo delle candidate alla spremitura perché «solo le vere arance siciliane diventano l’aranciata rossa e l’amara San Pellegrino». In altri casi il dialetto di per sé è attrattivo, senza alcun riferimento di tipo locale. Alcuni anni fa, un cartellone della compagnia aerea «EasyJet» pubblicizzava i nuovi scali della compagnia con la scritta «cchiu mete cchiu emozioni» (senza accento su cchiu ‘più’, che invece ci aspetteremmo): ‘più mete, più emozioni’. Ha avuto grande successo uno spot di Parmacotto: in un ambiente raffinato e lussuoso un tipetto arrancava alle spalle di Sophia Loren, che incedeva regalmente, suggerendole brevi frasi in italiano che ella avrebbe dovuto pronunziare per pubblicizzare il prosciutto. E la diva, appena seduta a un tavolo, diceva una sola parola in napoletano: accatatevill ‘compratevelo’ (il prosciutto, ovviamente).

C’è di più. Oggi a sorpresa dialetti, gerghi, espressioni popolari, sono tornati a vivere on-line: si moltiplicano i siti specializzati in lingue locali, i dizionari che traducono dall’italiano in dialetto, i forum dove i vocabolari di frasi perdute vengono continuamente aggiornati attingendo alla memoria dei vecchi, dei ricordi familiari, delle tradizioni non ancora intaccate dal vivere metropolitano. I siti dedicati alle lingue locali sono migliaia: corsi per imparare il modo di parlare della propria regione, pagine dedicate alle tradizioni popolari, indirizzi dove rintracciare filastrocche, proverbi e detti fino a ieri sepolti dal tempo. Giorno dopo giorno, sempre più i dialetti popolano la rete, in un immenso archivio di idiomi, una specie di cassaforte delle diversità.

Non solo canzoni, pubblicità e rete, il dialetto va forte anche ai piani alti della cultura. La letteratura in dialetto, che nei secoli passati rifulge con i nomi illustri di Goldoni (veneziano), Porta (milanese), Belli (romanesco), si continua fino ai nostri giorni. Forse in nessun paese al mondo la poesia nei vari dialetti è florida come in Italia e di livello così alto. Nella prima metà del Novecento scrive in dialetto il grande Di Giacomo (napoletano), nella seconda metà di quel secolo usano la lingua nativa (con cambi e innovazioni) Pasolini (friulano), Zanzotto (veneto), Loi (milanese), Guerra (romagnolo), Pierro (lucano), De Donno (salentino) e la tradizione della poesia dialettale continua nei nostri anni.

Non possiamo parlare di tutti i prosatori, faccio un solo esempio famosissimo, quello di Camilleri: chi non ha visto almeno una puntata delle serie televisive con il commissario Salvo Montalbano? Nei romanzi di Camilleri l’uso di termini dialettali contribuisce a rendere più viva l’ambientazione di un paese siciliano che non esiste nella realtà, Vigata, e a dipingere di concreta umanità i suoi personaggi. Al contrario di quanto potremmo aspettarci, le incastonature dialettali non rendono difficoltosa la lettura dei romanzi e il godimento degli episodi televisivi, attraggono anche chi non ha familiarità con il siciliano. Ci piace sentire «Montalbano sono» (e non «sono Montalbano») e abbiamo familiarizzato con espressioni come «s’arrisbigliò» ‘si risveglio’, «li linzola arravugliati» ‘le lenzuola aggrovigliate’, «taliare» ‘guardare, ecc.

Insomma: tradizione antica e forme moderne di comunicazione (che arrivano fino alla letteratura), insieme. La globalizzazione da una parte cancella spazi pubblici tradizionali come il bar o la piazza, dall’altra trasferisce questi spazi nella realtà virtuale e così assistiamo al recupero dei dialetti e delle tradizioni popolari. Fino a qualche tempo fa la riscoperta delle nostre radici linguistiche era fondamentalmente un processo colto, oggi sembra diventata esigenza collettiva e ricerca di identità.

Il recupero dei dialetti rappresenta una difesa delle biodiversità culturali a rischio d’estinzione. Le memorie non si cancellano, possono trovare spazio nel mondo moderno. E convivere con l’italiano, senza conflitti.

Chiudo con una doverosa precisazione. La prof. Santina Sarcinella, insegnante di Lettere nell’Istituto Tecnico Industriale “Antonio Meucci” di Casarano, che ho citato nella scorsa puntata sul “declino dell’italiano”, mi scrive per precisare che le sue considerazioni non si riferivano alla scuola nella quale lei attualmente lavora, benissimo diretta e nella quale si insegna efficacemente, ma alle condizioni generali della scuola italiana. È così, confermo, era già detto esplicitamente nella lettera che la prof. Sarcinella mi aveva inviato precedentemente e che ho dovuto riassumere per ragioni di spazio. E del resto tutte le considerazioni contenute in quell’articolo non si riferiscono a questo o a quell’istituto, riguardano l’istituzione scolastica nazionale.

 

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 26 febbraio 2017]

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