Il sottofinaziamento delle Università meridionali

di Guglielmo Forges Davanzati

E’ ben noto che le Università meridionali sono maggiormente sottofinanziate rispetto alle sedi del Nord. Il dato, che emerge da recenti ricerche della Fondazione RES e della SVIMEZ, merita una riflessione, anche in considerazione dell’interpretazione governativa per la quale questo risultato deriverebbe dalla peggiore qualità della ricerca scientifica negli Atenei del Sud, a sua volta imputata a più diffusi casi di nepotismo e concorsi truccati nelle sedi meridionali (e dunque ai reclutamenti ‘sbagliati’).

Giova innanzitutto ricordare che la stangata che il Ministro Tremonti diede all’Università italiana nel 2009 – con una decurtazione di fondi senza precedenti nella sua storia – fu legittimata proprio da una campagna mediatica volta a presentare i professori universitari come nullafacenti e appunto corrotti. Anche ammettendo – cosa che risponde solo parzialmente al vero, e che peraltro è difficilmente stimabile – che l’Università italiana sia luogo di corruzione, occorre considerare che:

1) L’aumento dei casi di corruzione dipende, a sua volta, proprio dalla carenza di risorse. Il de-finanziamento, che, nella logica governativa, sarebbe semmai funzionale a rendere scarse le risorse per incentivarne un uso efficiente ha prodotto l’esito esattamente contrario, accentuando corruzione e conflitti;

2) La corruzione nelle Università, come peraltro in moltissimi settori dell’economia italiana, esiste perché, in Italia, i reclutamenti e gli avanzamenti di carriera, a differenza di molti altri Paesi, avvengono sulla base di concorsi.

In più, il sottofinanziamento delle Università, in particolare meridionali, è un potente incentivo al trasferimento di studenti e ricercatori precari all’estero – la cosiddetta fuga di cervelli. Che non sempre e non necessariamente riguarda giovani ricercatori molto meritevoli ma emarginati nelle Università italiane. Su questo vi è ampia retorica. Il reclutamento all’estero, in moltissimi casi, avviene tramite cooptazione. Ovvero, si selezionano i ricercatori i cui interessi sono in linea con quelli del Dipartimento che li assume. In Italia, il concorso è una pura finzione, e lo è sempre più in un contesto di risorse scarse.

La “fuga dei cervelli” è spesso anche determinato, almeno in alcune aree disciplinari, dall’emarginazione di linee di ricerca non allineate a quelle dominanti, come nel caso delle scienze sociali. Ciò a ragione del fatto che la probabilità di fare carriera accademica, in Italia, dipende in misura rilevante dalla capacità del singolo aspirante ricercatore di pubblicare su riviste reputate “eccellenti”. Si tratta di riviste censite dall’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (ANVUR): un carrozzone burocratico, si direbbe, che opera sostanzialmente così. L’Agenzia valuta le pubblicazioni in relazione alla sede che le ha ospitate, indipendentemente dal loro contenuto, così che un articolo che nulla aggiunge alle nostre conoscenze, se, per puro caso, è stato pubblicato su riviste di “eccellenza” (ovvero certificate tali dall’Agenzia) riceve una valutazione molto positiva, così come, per contro, un articolo estremamente innovativo pubblicato su riviste che l’ANVUR non considera buone riceve una valutazione bassa. E’ del tutto evidente che questo dispositivo genera attitudini conformiste, dal momento che per pubblicare su riviste considerate prestigiose (e definite di classe A) occorre uniformarsi alla loro linea editoriale, e talvolta – come spesso documentato – anche mettere in atto comportamenti eticamente discutibili. La storia della Scienza mostra inequivocabilmente che le maggiori ‘rivoluzioni scientifiche’ si sono generate non allineandosi al paradigma dominante. In tal senso, l’operazione ANVUR è quanto di dannoso si possa immaginare per l’avanzamento delle conoscenze in ogni ambito disciplinare e, non a caso, in quasi nessun Paese al mondo esiste una valutazione “dall’alto” della qualità della ricerca. In alcuni casi, quando si è provato a farlo si è rapidamente tornati indietro. Non a caso, all’estero, non si è valutati sulla base di protocolli di riviste generati da agenzie governative e vi è ampio consenso sul fatto che è semmai la dispersione di risorse (e non il loro accentramento) a produrre maggiore ricerca e di migliore qualità. Il problema è aggravato dal fatto che l’accesso alla carriera universitaria, o gli avanzamenti di carriera, avvengono, da quando è in vigore la c.d. legge Gelmini, in modo assai farraginoso. Si tratta di una procedura di valutazione costosa e soprattutto del tutto inefficace per selezionare i docenti più meritevoli e più produttivi. è innanzitutto una procedura costosa. La Camera dei Deputati, nella relazione tecnica del 29 giugno 2011, stimò un costo annuo per le procedure di abilitazione scientifica nazionale (pre-requisito per l’accesso alla docenza) pari a €17.000.000. E’,  poi, una procedura inefficace per contrastare il “dimagrimento” dell’Università italiana. L’ASN è infatti una precondizione per l’accesso al ruolo, che viene successivamente (di norma, a distanza di due-tre anni) stabilito da una commissione formata dalla singola sede. E’ evidente che il duplice passaggio concorsuale è un ulteriore fattore di potenziale corruzione, illegalità, nepotismo, cosa attestata dall’aumento del numero di ricorsi sia per le abilitazioni sia per i concorsi locali. In tal senso, è proprio la “riforma” dell’Università (ovvero la Legge Gelmini, che istituisce l’ANVUR) ad aver prodotto un aumento dei casi di corruzione e più in generale un aumento dei ricorsi alla giustizia amministrativa per risolvere contenziosi interni al mondo accademico. Si pensi, a titolo puramente esemplificativo, ai ricorsi fatti da direttori di riviste scientifiche al Ministero, per vedersi riconosciute in fascia A (diversamente è evidente che quella rivista è destinata a perire).

Sia chiaro che questo non ha nulla a che fare con il maggiore definanziamento delle sedi meridionali. L’aumento dei contenziosi ha interessato tutti e appare del tutto inverosimile che nel Mezzogiorno, in tutte le aree disciplinari, lavorino i peggiori ricercatori.

La causa è, dunque, da ricercarsi altrove e, in particolare, nella ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi. L’Italia ha perso, negli ultimi anni, circa il 25% della sua produzione industriale e, diventando sempre più un’economia con specializzazione in settori ‘maturi’ (agroalimentare, beni di lusso), è un’economia nella quale il lavoro molto qualificato non serve alle imprese. Con una specificazione rilevante. Le imprese innovative, che assumono laureati e che hanno bisogno di ricerca di base e applicata, sono quasi esclusivamente localizzate al Nord. Non desta quindi sorpresa il fatto che le risorse vengano destinate in misura crescente alle sedi settentrionali, dal momento che è lì che le imprese domandano forza-lavoro qualificata e ricerca scientifica.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 24 febbraio 2017]

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