Della felicità

di Paolo Maria Mariano

La felicità è uno stato d’animo. È un modo di guardare all’essere in sé e in relazione con il mondo. La ricerca della felicità, che appare come diritto nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, ratificata a Filadelfia il 4 luglio 1776, è innanzitutto una ricerca interiore: un raggiungere pace, un canto di serenità. Realizzare un desiderio, soprattutto se protratto nel tempo, se raggiunto per un cammino arduo, talvolta inusitato, apporta soddisfazione, la concede come un regalo. Se però a questa soddisfazione non corrisponde uno stato d’armonia interiore, quello che la eleva a felicità, ciò che nasce, col tempo, è un desiderio nuovo che porta la smania e l’illusione, quella d’essere felice se si soddisfa la brama, proprio quella che fa ricadere nello stesso processo, una volta che quest’altro passo sia infine compiuto. L’ambiente può essere costruttivo ma anche distruttivo – è ovvio. È costruttivo quando aiuta alla comprensione che la felicità – quello che è uno stato di letizia – non dipende esclusivamente da ciò che viene dall’esterno di ciascuno, ma ha bisogno di un’istintiva attitudine a essa. Ci devono essere le premesse. D’altra parte, l’ambiente può distruggere e talvolta lo fa con puntuale efficienza. Chi era portato nei campi di sterminio nazisti, nei gulag sovietici, anche quando è riuscito a salvarsi, non è stato immune dalla lacerazione del suo stato interiore, per quanto in principio potesse essere felice, anzi ne è uscito, quando pur l’ha fatto per puro fortunoso incontro di circostanze concomitanti, con segni perenni. Eppure alle ideologie che hanno supportato quelle azioni, tanti studiosi dalla pancia piena hanno aderito con pomposo atteggiarsi, traendo vantaggi dall’aderire, ed essendo aderenti proprio per quei vantaggi o per la propria psicologia. Tra i tanti che, invece, hanno scritto del dolore che quelle azioni hanno provocato e che hanno fatto quel percorso di prigionia, Imre Kertész, ungherese, che fu imprigionato quattordicenne ad Auschwitz nel 1944 e liberato a Buchenwald l’anno successivo, e che fu osteggiato come scrittore, prima di ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 2002 e lasciare l’Ungheria per la Germania, mi pare voce cristallina che può superare con gioia il lavacro del tempo (si veda il suo Io, un altro, Bompiani, 2012), e non è l’unico. Così la lacerazione ritorna puntuale, presente in situazioni e in modi diversi, come accade nel tempo presente per quelle ragazze che sono state rapite e vendute come schiave in Nigeria, solo perché andavano a scuola, o i 150 studenti di Garissa, Kenya, uccisi il 2 aprile 2015 nelle ore di lezione solo perché cristiani e incapaci di recitare a memoria versetti del Corano che altro è che non una mera scusa per giustificare quella che è sola volontà rabbiosa di potenza, quella che si suole accostare al colonialismo di accesa protervia, alle invasioni distruttive, alla mancanza di rispetto reciproco, quella che è spesso esercitata in maniera intrusiva da gente che ha escrementi al posto del cervello. Così accade perfino nelle circostanze minime della vita giornaliera, quelle in cui si esercita sottile, incalzante, pervadente violenza psicologica in luoghi riposti, spesso proprio quelli che dovrebbero essere rifugio dalle ugge degli affanni del mondo. E in ogni caso, da quelle più iperboliche a quelle minime, quasi volatili all’occhio di un osservatore non partecipe, tutte queste circostanze sono alla fine influenzate dal desiderio ottuso, dalla volontà di potenza ancora una volta, sempre lei, quella che dà la sensazione di esistere attraverso la possibilità di sottomettere gli altri al proprio volere, di spingerli, nei casi più gravi tramite costrizione fisica che si aggiunge a quella psicologica, a compiere ciò che si desidera non tanto per la convenienza in sé di ciò che si fa ma per la sensazione di vedere gli altri fare ciò che si vuole, spesso solo per questo. E chi sviluppa questi processi, in genere tende al proprio logoramento interiore, all’incapacità di percepire la bellezza di un fiume che scorre tra sponde erbose, degli orti d’estate, degli uccelli che volano sui rami e si posano sulle punte degli alberi allungati a fuso – così ho visto fare alle cicogne nel parco dell’archivio della Comunità Europea, Villa Salviati a Firenze, quattordici ettari di verde irrorati di sole in un caldo pomeriggio di maggio –, insomma, il sapore della vita, circondandosi di costrizioni, quelle che si cerca di imporre agli altri, ma anche quelle più interiori, senza provare alcuna intima gioia, senza percepire che “la vita forse è un grande privilegio, visto che alla fine dobbiamo pagarla con la morte” (Io, un altro, p. 83). Chi così agisce tende a sgretolare la dignità sua e degli altri nelle varie interpretazioni, talvolta sfumature, che al concetto sono state attribuite nella Storia. Da ciò appare utile, se non necessario, guardarsi, difendersi. “Non resta che vivere in modo anacronistico, cioè tragico, nella grandiosa dimensione dell’unicità della vita e della repentina e imprevedibile morte,” annota ancora Kertész (op. cit., pp. 77-78), “come per qualcuno che tra due vite paralizzate di bozzolo è stata data soltanto questa unica, breve estate,” senza dimenticarsi, aggiungo, il valore di un sorriso, un veicolo di felicità.

 

 

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