di Antonio Montefusco
Mi piace davvero, in maniera non rituale, ringraziare gli organizzatori per questa bella iniziativa. Per me è un grande onore parlare a Tuglie, e in particolare intervenire intorno a un libro che amo anche per ragioni personali. Non solo e non tanto per l’affetto che mi unisce al suo autore, ma anche perché, questo volumetto, l’ho visto pian piano definirsi e trasformarsi in parola pensata e poi scritta. Il suo lento depositarsi sulla pagina, i fascicoli che vengono cuciti e raccolti… C’è una dimensione temporale, lenta, del lavoro editoriale che è ricolma di fascino e mistero. Ho la fortuna di conoscere da un po’ questa temporalità rotta di attese e commozione perché la casa editrice Ediesse di Roma ha avuto quasi quattro anni addietro questo ardimento: confidare in un gruppo di giovanissimi ricercatori, uniti dalla passione per la ricerca e da un inattuale slancio di “divulgazione critica”, per realizzare un progetto di una collana di libri che fornissero elementi di conoscenza di base su tematiche di attualità o su grandi figure della nostra cultura. La collana si ispira all’antecedente illustre dei Libri di Base che il grande linguista Tullio de Mauro lanciò negli anni ’70 per accompagnare l’alfabetizzazione di massa nel nostro paese, quella grande conquista di una civiltà finalmente restituita anche alle classi subalterne grazie allo sforzo congiunto della legge di innalzamento dell’obbligo scolastico e di una televisione pubblica che finalmente unificava un paese diviso e mancato.
La nostra sfida, con la collana fonda-menti, se si vuole è opposta: come se una diga si fosse rotta, abbiamo pensato che il momento richiede piuttosto uno sforzo di recupero, di risistemazione e un di più di “pensiero critico” e ordinatore. Poiché siamo immersi, o meglio letteralmente sommersi, di informazioni e immagini, il ruolo del divulgatore si è oggi modificato: è importante intervenire su questa massa per darle un significato ed un senso. Non esagero se affermo che, se trent’anni fa la battaglia culturale progressista si giocava essenzialmente sull’accesso, cioè sullo sforzo di colmare la distanza fra chi possedeva una cultura scolastica e chi ne era completamente escluso, nei nostri giorni di Google e di Facebook, il divario è negli strumenti. In altri termini, non è più importante fornire l’alfabeto o il canone di libri sacri da leggere, ma piuttosto delle bussole per orientarsi in tutto quello che ci viene lanciato addosso in maniera indifferenziata.
C’è un libro bellissimo di Jacques Ranciére che si chiama Il maestro ignorante e racconta l’esperienza del maestro e scienziato francese Jacotot, un politico aderente alle più estreme tra le correnti rivoluzionarie dell’800; trovatosi a fuggire in Belgio dopo il naufragio dell’esperienza di Napoleone, Jacotot si trovò di fronte a una classe di fiamminghi e olandesi che non conoscevano il francese. Egli decise di non cominciare dalla grammatica, dalla norma, ma piuttosto di sottoporre ai suoi allievi un testo molto complesso, scritto in francese, sul quale ognuno potesse condurre un lavoro in piena autonomia, sulla lingua e sui concetti veicolati da quell’opera difficile. La scoperta di Jacotot fu sconvolgente: tutti gli studenti riuscirono a capire il testo, lentamente e in maniera accidentata ma definitiva. Ciò significa che tutti abbiamo la stessa intelligenza, e dobbiamo trovare una strada per esprimerla e incanalarla. In tempi di intelligenza condivisa e di scambio di informazione, credo che un metodo del genere sia auspicabile in tutti i campi, anche nella divulgazione. Per questo, i libri fonda-menti, che spaziano dalla scienza al diritto alla letteratura, non rinunciano alla complessità: ma ogni termine difficile deve essere spiegato, in una frase breve che non annoi il lettore. Gigi sa quanto, noi redattori, siamo rigidi su questo principio. I libri si comprano: li compriamo tutti; la vera sfida è farli leggere e capire, e per noi, anche renderli utili, e, perché no, uno strumento di emancipazione e di uguaglianza. «Chi insegna senza emancipare, dice Ranciére, abbrutisce. E chi emancipa non si deve preoccupare di ciò che l’emancipato deve imparare.»
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Devo ammettere che, quando andai da Gigi per proporgli una collaborazione con la nostra collanina, avevo in mente un libro diverso. Per farla breve: io dissi «Dante» – lui pensò «Ariosto». Dopo un primo momento di disorientamento, dovetti ammettere che la sua idea doveva rivelarsi migliore della mia, e ben più in sintonia con quello che vi dicevo a proposito del nostro progetto e della collana. Perché, a differenza di Dante, autore di scuola e padre di una narrazione patriottica ancora di là dal tramonto, Ludovico Ariosto è figura di confine. Letto anch’egli sui banchi delle nostre scuole, la sua opera maggiore, Orlando furioso, ha lasciato nella nostra mente qualche frammento famosissimo – il paladino inglese Astolfo che corre sulla luna, il cavaliere Orlando che impazzisce, l’appassionato amore fra la cristiana Angelica e il mussulmano Medoro… – tra l’altro talvolta trasfigurato in opere teatrali che ebbero anche l’onore della trasmissione televisiva – sto pensando all’allestimento celeberrimo di Luca Ronconi, da poco scomparso – ebbene, tutti questi frammenti, ne sono certo, non si ricompongono quasi mai in un quadro unitario e condiviso, in un patrimonio di citazioni e riferimenti, come, appunto, un Dante o un Manzoni.
Eppure, nonostante questa posizione allo stesso tempo importante ma defilata, Ariosto è stato anche un grande terreno di riflessione per i critici e i filosofi più importanti. In un saggio di poco meno di un secolo fa, il grandissimo Benedetto Croce proponeva una interpretazione molto raffinata e riuscita del mondo narrativo dell’Orlando furioso. Con un gesto plateale, il Croce, che è stato il pensatore di riferimento per gran parte del secolo scorso nel nostro paese, metteva da parte tutte le opere minori di Ariosto – il teatro, le Satire, la poesia, e quello stranissimo testo che è l’Erbolato – e si concentrata sul poema dedicata a Orlando. L’opera di Ariosto è in verità una riscrittura: in essa viene ripresa una materia che aveva una storia lunghissima, e affondava le sue radici nelle cosiddette chansons de geste medievali, ovverosia tutto quel gruppo di poemi che raccontavano l’epopea dei cavalieri di Carlo Magno, i quali, nel cuore del Medioevo, avevano lottato contro gli arabi musulmani, contendendo loro gran parte dell’Europa. Quei testi, originati e sviluppatisi, spesso anonimamente, lungo le strade dei pellegrinaggi medievali, che portavano i devoti verso Roma o san Giacomo da Compostela, e delle crociate, che con il paradosso di una guerra di conquista avevano unificato le due parti del Mediterraneo, ebbene quei testi giungevano fino alle soglie dell’età moderna perché un tenace filo lo aveva sottratto all’usura del tempo. Mi riferisco al fatto che, quella conflittualità tra le due più bellicose e guerriere religioni del libro, il cristianesimo e l’islam, avrebbero agitato come un fantasma i sonni del continente per secoli, fino agli anni vicini a Ariosto, e ancora dopo di lui (e si può dire che, per uno di quei colpi di coda della storia, oggi riviviamo quell’incubo, in maniera e in un contesto del tutto differente).
Se si vuole, questo fantasma nasceva già trasfigurato, come addolcito in figure scultoree, in rilievi di marmo che prendevano la forma di personaggi dove l’appartenenza religiosa era anche, immediatamente, sinonimo di appartenenza al fronte del bene, ovviamente i cristiani, o a quello del male: un po’ con quel chiaroscuro dei film di Spielberg, o anche in Guerre Stellari, dove i Jedi rappresentano un po’ gli ultimissimi eredi di questi cavalieri da epopea, che combattono solo per necessità e per difendere i deboli. La cosa non deve sembrare profanatrice o irrispettosa, ma è evidente a tutti quelli che hanno un po’ in mente i personaggi della saga di Georg Lucas, che Obi Wan Kenobi è evidentemente l’ultimo rappresentante di un mago-maestro che ha il suo antecedente medievale nella figura di Merlino, il mago che proveniva da mitologie non cristiane e che queste epopee avevano mescolato con sapienza. Così anche Luke Skywalker risale indietro fino al Perceval del ciclo del Graal, dove, di nuovo, quella purezza dello scontro militare e religioso, tra Cristo e Maometto, veniva ampiamente reso “bastardo” con un gran cocktail di miti e religioni che farebbe impallidire Giuliano Ferrara. Per paradosso, certo. Ma è un paradosso, direi, di grande attualità.
In questa lunghissima durata, il filo che ci unisce è la guerra e la religione, il bisogno di rendere compatibili e pacifiche situazioni che, all’apparenza, erano incomponibili. Per Guerre Stellari, era l’America di Reagan con quell’ultima fiammata di Guerra Fredda; per i cicli di Carlo Magno, la reconquista; per Ariosto, è tutto un mondo che finisce e non resta mai stabile. Le guerre d’Italia agitano i desideri di conquista dei vari stati regionali; la Cristianità stessa iniziava a spezzarsi in tronconi sempre più distanti fra di loro, covando e lasciando esplodere la rivoluzione dei protestanti e dei luterani; il Mediterraneo, dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi, era diventato un terreno di scontro sempre più pericoloso, che sarebbe sfociato, ma ben dopo la morte di Ariosto, nella epica battaglia di Lepanto di cui è memoria anche nella cattedrale di Santa Croce a Lecce. Quel nuovo scontro, tra arabi e cristiani, rinfocolò la mitologia dei paladini, e un autore come Torquato Tasso, nel poema Gerusalemme Liberata, non poté che riscrivere, di nuovo, il mito, in uno sforzo di idealizzazione, ma questa volta sofferta, volutamente non riuscita, a tratti oscura, minacciosa, pur nella sua eleganza.
E qui mi tocca ritornare a Benedetto Croce, che, nell’Orlando Furioso, aveva individuato un nucleo forte, non tanto di organizzazione, per così dire, della materia narrativa, quanto di vero e proprio punto di vista sul mondo. Croce l’aveva chiamata armonia: era una sorta di intuizione, di natura poetica – e non filosofica, quindi non sistematica – che aveva permesso ad Ariosto di superare tutti i sentimenti particolari, le vicende individuali, e di raccoglierle come in un unico click, in un unitario quadro, grandioso, in cui tutti i particolari si corrispondono, trovano posto, respirano… Si potrebbe, in fondo, dire che Ariosto aveva un insopprimibile bisogno di quest’armonia: anzi, che i suoi lettori, in quei marosi della storia, ne sentissero una naturale esigenza. In un mondo che si stava andando a frangere come un vetro, nei cocci della storia con la S maiuscola, questa storia di paladini che impazziscono ma riacquisiscono il senno recuperandolo sulla luna, aveva un che di miracolosamente consolatorio… E con questo non voglio dire che Croce avrebbe sottoscritto questa idea, questo ancorare al contesto l’idea di Ariosto; per Croce, ripeto, era una questione di poesia e quindi di intuizione. E’ un’idea romantica, staccata dalla Storia, peculiare all’individuo. Ma qui è innegabile, direi, che gli studi successivi hanno sempre di più lavorato proprio sulla spiegazione di questo mistero di distacco e ironia…
Bene, non ve la faccio lunga e non credo che sia interessante. Ma forse è giunto il momento di arrivare e parlare di come si colloca questo libro di Scorrano in questa storia, piccola se volete ma importante, della nostra idea di Ariosto. Ecco: è una bussola. Riorganizza e risistema. Dà un nome nuovo alle cose, permette di orientarsi nel labirinto delle trovate e delle mitologie ariostesche, conferisce un nuovo ordine e inventa nuove formule per continuare, domani, a interpretare e raccontare, Ariosto.
Per chi conosce la produzione scientifica di Scorrano, c’è questa magia che non sfugge mai al lettore più attento. Un elegante distacco che serve, come in un laboratorio, a isolare gli elementi di questi composti chimici che prendono il nome di opere letterarie, a considerarli singolarmente, soppesarli e ricomporli; c’è la stoffa del commentatore – quello che ha provvisto la scuola di un memorabile commentario alla Divina Commedia – e dell’insegnante – che ha speso i suoi anni nelle scuole secondarie – e infine quello del critico attento e raffinato. Ho avanzato recentemente, per definire il particolare procedere della ricerca di Gigi, la formula di “critica della parola”. Si tratta di individuare, nel momento della lettura dei testi, e poi della loro interpretazione, nella parola, nella sua forma e nel suo rapporto con il sistema delle altre parole, un momento decisivo per comprendere le caratteristiche di un autore, le sue peculiarità e il significato di un’opera.
Si prenda un paragrafo di grande chiarezza, nel volume, che Gigi dedica al rapporto tra personaggi e linguaggi nelle commedie teatrali: si tratta di un’analisi che i critici sapranno giudicare nella loro importanza; ma a me qui interessa sottolineare come l’autore sia capace, proprio con questo strumento, di introdurre anche il lettore meno attrezzato nel laboratorio dell’Ariosto, nelle sue parti più minute eppure importanti. Nella commedia dedicata alla figura di Lena, donna di dura esperienza amorosa, con un’esperienza tutta intenta al guadagno, un punto chiave è isolato nel momento in cui Lena viene definita “cruda”. Scorrano sa bene che si tratta di parola pesante, su cui tanta poesia ha accumulato l’idea della donna che respinge e disdegna; eppure, in questo paesaggio che disegna l’idea della femmina crudele, il critico avanza l’idea interessantissima di un fondo non solo amaro, ma anche dolce, sfrangiato, quasi distaccato, quello di una donna, Lena, ormai disillusa, che, nel rifiutare anche questo rimprovero-complimento, esprime una forma di cinico e dolce risentimento nei confronti della vita. Lena diventa rappresentativa di tante figure femminili, che arrivano fino al cinema e alla letteratura di oggi, pur radicandosi nell’antichità classica.
Se la parola e il suo miracolo è il nucleo del giudizio, capite immediatamente che Ariosto è, forse in apparenza, una sfida difficile. L’Ariosto dell’epopea, dei paladini e dei cavalieri, delle battaglie mortali e virili e delle scaramucce amorose – ebbene, Ariosto sembra tutto sommato poco congeniale a un’analisi di questo tipo; egli, cioè, sembra un poeta di cose e non di parole, anzi di narrazioni, racconti, mirabolanti affabulazioni, e non di momenti singoli e singolari. Nel volume di Scorrano si vede continuamente questo corpo a corpo tra una sensibilità per il suono e il linguaggio e questa imponente sinfonia di storie plurali. Io vedo questa battaglia anche nella forma che ha assunto questo libro: appunto, un libro, mentre il tempo che si addice a Scorrano è quello, straordinaria e tipica della nostra tradizione, del saggio breve, appuntito e fermo.
Qual è il risultato di questa battaglia? Riuscitissimo, perché, appunto, pur dando tutti gli elementi anche al lettore meno smaliziato, l’autore ci guida con l’eleganza che gli è propria in tutto il mondo dell’Ariosto, un Ariosto che finalmente non è più, soltanto, quello dell’Orlando Furioso. Scorrano ci illustra pazientemente – ed è elemento non comune nei volumi dedicati al tema – l’intero svolgersi dell’opera. Così, nel secondo capitolo, ci viene mostrato il lungo tirocinio della scrittura in versi dell’Ariosto, una scrittura che non viene mai raccolta in un’antologia o in un canzoniere come libro autonomo ma che rappresenta come uno stage, nei quali sono più importanti i fallimenti che i successi; e il successo è, appunto, il superamento di limiti della tradizione poetica per conquistare un’ariosità più adatta al racconto, finalmente, alla narrazione; un paragrafo straordinario è dedicato al teatro, in particolare alla Lena e al Negromante e all’incompleto I Studenti, collocati nelle innovazioni che alla forma della drammaturgia dà il Rinascimento.
Ora: non è che il maggior poema non sia studiato e sviscerato: due capitoli se ne occupano; ma è la posizione di Gigi che è originale. La lunga, faticosa scrittura e riscrittura dell’Orlando è modulata su due movimenti. C’è prima il poeta che affronta l’opera con la sfida ai predecessori – cosa non detta mai – per poi vincere la sfida e chiedere, con pietà, di essere sciolto dal nodo della fatica, in un intreccio strettissimo e affascinante con il suo personaggio principale, Orlando, che dalla pazzia è restituito al senno e alla realtà. E c’è poi il racconto, che viene scrutato nella sua partitura, sì, come uno spartito musicale, di cui si distinguono i movimenti – il meraviglioso e la bellezza – per poi tornare, in chiusura, ai conti con le fonti e al rapporto tra la scrittura di Ariosto e la tradizione poetica precedente (in particolare Dante e Petrarca). E poi, infine, in un gioco di corrispondenze, troverete nel capitolo quinto, come in una cornice che si unisce al secondo capitolo, una apertura dal poema maggiore alle opere minori, in questo caso i Cinque canti e le Satire, viste come “angoli”, cantucci di moralità – attenzione, mai di moralismo – che Ariosto ritaglia in contesti volutamente leggeri.
Lo capite bene: è parte integrante del libro una sapienza dello scrivere, una piacevolezza che non è mai eleganza distaccata. Prendete questo passaggio a p. 102 :
«L’Orlando Furioso è un poema cinetico. Ogni personaggio, si direbbe, vive di corsa oppure è costretto a consumare le proprie energie, o a provarne la resistenza, proprio attraverso la gara di corse che deve ingaggiare con qualcuno o con qualcosa che lo costringe alla fuga, all’allontanamento da un luogo, alla necessità di scampare ad un pericolo, al desiderio di raggiungere un posto al sicuro. Corsa esteriore, a piedi o a cavallo o con qualunque altro mezzo; ma anche corsa interiore, fuga dai doveri imposti, tensione ad una metà che potrà essere anche irraggiungibile. La corsa, la fuga, l’ansia dello spostamento sono circostanze o immagini che attraversano tutto il poema e sempre trovano pertinenti motivazioni.»
C’è qualcosa di jazzistico, di Cole Porter, in questo accumulo che sembra improvvisazione ed invece è sapiente uso del ritmo che stabilisce un patto a tre fra il lettore e l’autore e l’oggetto della sua riflessione (l’Orlando, in questo caso): un patto di servizio, un contratto di comprensione e di continuo arricchimento, come in un pezzo musicale a cui vengano continuamente aggiunti degli strumenti.
Evoco e ricordo il patto, perché credo che è questo il regalo più straordinario che Scorrano ci fa con questo volume. Con un gesto non polemico rispetto alla nostra immagine tradizionale, che faceva di Ariosto un autore ironico e distaccato, ebbene Scorrano ci descrive un Ariosto finalmente più moderno, in cui il rapporto con il contesto sociale si fa più chiaro, in cui emergono anche e soprattutto, direi, le debolezze di un mestiere anomalo, quello di scrittore. Il contesto è quello delle corti, ambienti certo eleganti, coinvolti nella violenza della guerra e della conquista, e quindi capaci magari di fare emergere eroismi e passioni, ma anche luoghi un poco “burocratici”, in cui l’intellettuale, che aveva dalla sua la specializzazione della parola, era impegnato non raramente nel disbrigo della pubblica amministrazione, con le sue noie, le sue ripetitività. Poeta di mestiere, e politico-burocrate suo malgrado, Ariosto è forse il primo a esprimere un disagio – un’amaritudine – che è di una attualità sconcertante, perché si colloca in questo punto di contraddizione, in questo conflitto fra la mancanza di poesia dei suoi impegni al servizio dei vari signori ferraresi e la consapevolezza e il progetto di una gloria letteraria.
Scorrano sottolinea una formula che Ariosto usa per esprimere il suo rapporto con il signore presso il quale svolge il suo servizio, il Cardinale Ippolito d’Este: la formula è l’umil servo vostro, e in questo autodefinirsi servo non c’è una rinuncia all’indipendenza. Ariosto ricava uno spazio per la letteratura in cui la servitù è servizio, perché si basa su un patto che non deve venire mai meno, e mai deve tradire la libertà dello scrittore:
Or, conchiudendo, dico che, se ’l sacro
Cardinal comperato avermi estima
con li suoi doni, non mi è acerbo et acro
renderli, e tor la libertà mia prima.
(Satire, I, 262-265)
Si dovrebbe stamparla, questa frase, in tutte le aule dell’università, come un monito a riflettere su limiti e miserie della nostra missione.
Nel contesto che ho ricordato prima, quello delle guerre d’Italia e delle corti, Ariosto è capace di pensare, di descrivere e praticare lo spazio, stretto, di una libertà per l’intellettuale quando è faccia a faccia con la storia. Per questo la sua parola non è il prodotto di un giudizio definitivo, quanto l’espressione della difficoltà di emetterlo, quel giudizio, l’umiltà di riconoscere i segni di un mondo non più ordinato e non più ordinabile. Un mondo completamente diverso da quello di Machiavelli, che si serve della politica, la inventa, per decifrarlo.
In Ariosto si apre, invece, una storia che ci porta a un’altra opera che di nuovo utilizza l’epopea dei cavalieri: penso al Don Chisciotte di Cervantes. Proprio in quella celebre battaglia dell’hidalgo coi mulini al vento, considerati dei giganti, c’è ormai il divorzio tra le parole e le cose, tra il mondo com’è e il mondo come la letteratura può descriverlo e ordinarlo, che è ancora al centro della nostra riflessione di letterati. E io vorrei dirvi che Scorrano ci mostra che Ariosto è un nostro contemporaneo, non ci consola ma ci aiuta a districarci in un mondo esploso nei conflitti, ritrova lo spazio per l’amarezza e il disincanto ed è quindi capace di slanci inauditi, di scoperte inattese. Forse addirittura, a differenza di Cervantes, ci sa indicare delle strade per ricucire quello strappo tra noi e il mondo, tra le parole e le cose.
Sono molte, e Scorrano ce le sa indicare. Non ve le elenco, per non rovinarvi la sorpresa della lettura del libro. Mi soffermo, in chiusura, sull’Erbolato. L’Erbolato è un testo inclassificabile su cui i critici continuano a interrogarsi. Testo teatrale? Forse recitato nelle pause della recitazione? Scherzo destinato unicamente alla stampa? Non è facile rispondere; l’opera è una sorta di ampio monologo che, partendo dalle lodi per la virtù della medicina, si trasforma in un’esaltazione, un po’ truffaldina, di un miracoloso rimedio medicinale. La pronuncia un certo Antonio da Faenza, che sembra ricordare da vicino i venditori di farmaci che compaiono nei film western, assisi su improbabili carrozze davanti ai polverosi spiazzi delle città americane del secolo della conquista, oppure quegli uomini della Madison Avenue di New York, che negli anni ’50 avrebbero inventato la pubblicità come la conosciamo e la vediamo tutti noi, oggi, alla televisione. Il filosofo Emanuele Coccia, recentemente, ha indicato nella pubblicità l’unica bussola morale dei nostri giorni, capace di indicarci – forse più di Ariosto, sicuramente più delle massime di maestro Yoda – il bene e il male partendo dalle cose. Ed è proprio nell’Erbolato che le cose e le merci assumono per la prima volta un posto centrale nel discorso e nella nostra letteratura. È qualcosa che disorienta e stupisce e spaventa.
Scorrano, con quella capacità di essere maestro e politico, e dico politico in senso lato, lascia balenare queste intuizioni con leggerezza e disincanto. Dobbiamo imparare a valorizzarle, ed è il nostro inevitabile modo di essergliene grati.
[Presentazione di Luigi Scorrano, Ariosto, Roma, Ediesse, 2015, Tuglie 22 Dicembre 2015]
Per informazioni sulla collana, cfr. http://www.ediesseonline.it/catalogo/fondamenti.
Almeno due titoli per orientarsi nell’attuale situazione culturale, caratterizzata da circolazione massiva di informazioni e storie: H. Jenkins, S. Ford e J. Green, Spreadable Media. I media tra condivisione, circolazione, partecipazione, Apogeo, Adria, 2013; Y. Citton, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Alegre, Roma, 2013.
Jacques Rancière, Le Maître ignorant : Cinq leçons sur l’émancipation intellectuelle, Paris, Fayard, 1987
Oggi si può leggere nell’edizione Adelphi (Venezia 1992), ma l’edizione originaria è del 1920.
Ancora valido, il corpus di fonti individuato da P. Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze, Sansoni, 1900.
Elementi di base si trovano in J. Flori, Le crociate, Bologna, Il Mulino, 2013.
Continuerebbe a impallidire, Ferrara, nello scoprire la genealogia protestante di molta cultura pop – compreso, appunto, Maestro Yoda – ricostruito dall’interessante M. Alizart, Pop théologie, Paris, PUF, 2015.
Sul contesto storico, G. Galasso, Dalla “libertà d’Italia” alle “preponderanze straniere”, Napoli, Editoriale scientifica, 1997.
Particolarmente rappresentativo di questa lunga durata è W. Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, Messina, D’Anna, 1974.
- Scorrano,Ludovico Ariosto, Roma, Ediesse, 2015, pp. 82-87.
Vedi su questo le pagine di M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1986.