di Guglielmo Forges Davanzati
Il recente summit di Davos ha messo in evidenza la centralità del problema delle crescenti diseguaglianze distributive su scala globale. L’ultimo Rapporto Oxfam segnala che la ricchezza detenuta dall’1% della popolazione supera quella del restante 99%. In più, si registra che insieme all’Inghilterra e sorprendentemente agli Stati Uniti, Patria dell’ideale del self-made man, l’Italia è il Paese che registra le maggiori diseguaglianze della distribuzione del reddito, all’interno di una dinamica di carattere molto più generale che riguarda la crescente polarizzazione dei redditi in quasi tutti i Paesi OCSE (il fenomeno è relativamente più contenuto nei Paesi scandinavi). La visione dominante spiega la crescita delle diseguaglianze avvalendosi dell’idea secondo la quale è la più alta dotazione di capitale umano, e quindi di scolarizzazione, a generare maggiori salari e, per conseguenza, maggiori differenziali salariali fra individui più o meno istruiti. Una recente ricerca condotta da Maurizio Franzini (Università di Roma “La Sapienza”) e Mario Pianta (Università di Urbino) destituisce di fondamento questa tesi. Innanzitutto, gli autori – correttamente – soffermano prevalentemente la loro attenzione sulla distribuzione funzionale del reddito e, dunque, sull’andamento della quota dei salari sul Pil rispetto a quella dei profitti e delle rendite finanziarie. In secondo luogo, rilevano empiricamente che ciò che maggiormente conta per spiegare la crescente polarizzazione dei redditi sono altre variabili e, in particolare: le reti relazionali (i c.d. effetti di network), ovvero le capacità della famiglia di origine di collocare i propri figli in un segmento del mercato del lavoro con elevati redditi ed elevato status; le c.d. soft skills, o abilità cognitive, che tipicamente sono maggiori nei figli di famiglie nelle quali è maggiore il reddito e il titolo di studio. Queste variabili assumono rilevanza all’interno di una cornice macroeconomica e politica caratterizzata da quella che è stata definita la ‘lotta di classe’ dall’alto o ‘attacco globale al lavoro’, ovvero una condizione di assoluto dominio del capitale (qui inteso nella sua accezione più ampia, includendo grandi imprese multinazionali e percettori di rendite finanziarie) sul lavoro salariato e la piccola impresa. Il principale strumento attraverso il quale questo dominio si esercita è la c.d. globalizzazione che, in quanto genera concorrenza fra Stati per attrarre investimenti (e/o per evitare delocalizzazioni), pone i singoli Governi nella condizione di dover imporre misure di compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori.
E’ dunque opportuno chiarire che le diseguaglianze non hanno nulla a che vedere con il merito e quindi con il contributo individuale alla produzione, ma attengono a rapporti di forza che si determinano nel mercato e soprattutto nella sfera politica. Ciò anche in considerazione del fatto che l’evidenza disponibile mostra che le diseguaglianze sono generate prevalentemente dalla trasmissione intergenerazionale dei patrimoni, così che le differenze dei redditi individuali le spiegano in modo del tutto residuale. Si può anche osservare che le politiche monetarie – il cui unico obiettivo (almeno nell’Eurozona) è ridurre le pressioni inflazionistiche – hanno contribuito ad accrescere le diseguaglianza, vanificando gli aumenti salariali con aumenti dei tassi di interesse e conseguente riduzione degli investimenti, dell’occupazione e dei salari.
Le diseguaglianze, infatti, nonostante la visione ancora dominante in Economia, sono un potente freno alla crescita, per numerose ragioni, non da ultimo per il fatto che – traducendosi in riduzione della quota dei salari sul Pil – riducono la domanda e l’occupazione. In una prospettiva di medio-lungo periodo, e in una condizione già attuale di declino dei tassi di crescita in tutti i Paesi OCSE, la crescita delle diseguaglianze può diventare insostenibile, nel senso che rende sempre più difficile, per i grandi capitali e per i percettori di rendite finanziarie, appropriarsi di quote crescenti del reddito prodotto. In questa prospettiva, ci si troverebbe di fronte a un boomerang. Ancor più preoccupante, dal punto di vista delle élites, è il risvolto politico che la crescita delle diseguaglianze produce: innanzitutto il protezionismo e la contro-globalizzazione.
E’ interessante chiedersi come gli economisti affrontano la questione e quali prescrizioni di politica economica propongono. Schematicamente, ci si trova di fronte a tre posizioni:
1) Le diseguaglianze non costituiscono un problema. Pur trattandosi di una posizione minoritaria, è tuttavia sostenuta da alcuni fra i più autorevoli economisti su scala mondiale, p.e. dal prof. Mankiw.
2) Le diseguaglianze favoriscono la crescita. E’, questa, la posizione dominante nell’ambito della teoria economica neoclassica, ed è sostenuta con l’argomento della trikle-down economics (o effetto di sgocciolamento). Si tratta sostanzialmente dell’idea in base alla quale politiche di redistribuzione a vantaggio dei più ricchi, assunto che questi siano tali perché più produttivi, generano incrementi di produzione, rendendo successivamente ed eventualmente possibili politiche di redistribuzione del reddito.
3) Le diseguaglianze ‘eccessive’ costituiscono un problema. E’, questa, la tesi che è diventata probabilmente maggioritaria negli ultimi anni, grazie anche ai lavori di Atkinson e Picketty. Si può osservare che le prescrizioni di politica economica che vengono fatte discendere sono, da un lato, minimali (nel senso che non aggrediscono le reali cause del problema) e, dall’altro, anche di difficile implementazione. Si tratta di proposte che attengono alla tassazione dei grandi patrimoni e all’aumento dei salari tramite un più incisivo intervento pubblico nel mercato del lavoro. Sono minimali perché è diffusamente riconosciuto che una delle cause ultime della crescita esponenziale delle diseguaglianze è la globalizzazione combinata con la pressoché totale deregolamentazione del mercato dei capitali e tali proposte non intendono incidere su questi fattori (a riguardo, e di recente, sulle colonne del Messaggero, Romano Prodi ha fatto riferimento a un “processo di ragionata globalizzazione”). Sono difficilmente praticabili dal momento che presuppongo proprio ciò che la globalizzazione nega: ovvero il coordinamento delle politiche economiche, essendo del tutto evidente che ogni possibile misura di contrasto alle diseguaglianze, in un contesto di libera circolazione dei capitali su scala mondiale, è destinata a essere controproducente per chi la applica.
A fronte di ciò, si registra un consenso sempre più diffuso fra gli economisti (sebbene sia ancora minoritario) sulla necessità di contrastare l’attuale modello di globalizzazione, introducendo restrizioni ai movimenti di capitale. Ed è peraltro quanto già sul piano politico si sta realizzando: non è qui in discussione la sola politica commerciale degli Stati Uniti di Trump. Da almeno un biennio il numero di misure protezionistiche nei Paesi OCSE è notevolmente aumentato e i risultati, per i Paesi che le hanno attuate, non sono affatto stati deludenti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 10 febbraio 2017]