di Paolo Maria Mariano
Ho visto intorno a Notre Dame, nelle stradine del Quartiere Latino, sulla collina di Montmartre, volti sereni di parigine – adolescenti, giovani donne, signore più mature – dall’eleganza discreta, dai gesti misurati, compreso l’eloquio, tutte manifestazioni di gusto, e le ho viste dopo gli attacchi ai civili su suolo francese, dopo il sangue e la paura. Ho visto che ancora rispondevano all’interlocutore con un sorriso istintivo e aperto, senza che fosse una maschera calcolata, nonostante la tensione sociale, già alta prima degli eventi clamorosi e luttuosi, fosse ulteriormente cresciuta.
Tutto ciò era altro da quell’eleganza presunta, e soprattutto esibita, da quei volti aggressivi, da quel parlucchiare vuoto e ossessivo, dal tono inutilmente alto, da quell’inalienabile rozzezza dell’intelligenza e del gusto che ho visto in altri luoghi e in altre circostanze.
Un sorriso sincero ha due ragioni d’essere, primarie e collegate tra loro: una riguarda l’educazione, l’altra l’ontologia. Se l’educazione è un cammino verso il riconoscimento dell’identità dell’altro e il rispetto reciproco, questa sua natura deve essere esercitata in modo sostanziale. Invadere il prossimo, soprattutto chi non ci ha fatto danno alcuno, con la narrazione insistita delle proprie pene o perfino della descrizione pedissequa, senza prendere fiato, delle azioni che si fanno, durante il farle, è una richiesta di attenzione che implicitamente vuole ridurre l’altro a muto spettatore, sperabilmente plaudente, del proprio teatro. È la negazione dell’altrui identità. È anche la dichiarazione, penosa in fondo, del non avere altri argomenti all’infuori di sé. D’altra parte – e qui entra l’ontologia – il dolore, la delusione, il fallimento, la mancanza di realizzazione del desiderio, la malattia, popolano l’esistere. Ci si può abbandonare a essi, arrendersi corrucciati al fato. Così si dimentica il fatto d’essere comunque vivi, la bellezza di un fiore, il canto degli uccelli in una mattina di primavera, il luccichio delle stelle quando scende la notte e la luna è scura. Si dimentica la bellezza che forse dà significato all’esistere, all’affannarsi nei giorni, al cercare d’andare avanti nonostante la percezione della caducità che ci accompagna instancabile e della follia di tanti umani.
Ci sono – è vero – la disperazione, la fame, la privazione, l’impotenza di una vita umana che si riduce quasi a una forma vegetale per poi cristallizzarsi nella morte, la mancanza di sonno quando fuori dall’uscio gli esseri umani sono fiere e vogliono uccidere per sentirsi potenti. In tutto ciò un sorriso sincero, per quanto accennato, per quanto fugace, è una luce che rischiara il buio. D’altra parte, si poteva sorridere ad Auschwitz, a Buchenwald, nei gulag, durante i saccheggi delle città nella Guerra dei Trent’anni? Potevano sorridere coloro che si aggiravano tra la cenere di Hiroshima e avevano già i segni della lebbra radioattiva? Poteva sorridere chi è stato sottoposto a tortura, durante la tortura, chi ha visto nell’esplosione delle bombe o nell’infiammarsi del napalm la gente intorno morire bruciata, mentre bruciava, chi è stato venduto, mentre lo vendevano, chi è stato sfruttato, mentre era sfruttato? Poteva sorridere, insomma, l’essere umano mentre attraversava la negazione di ciò che consideriamo il lato positivo dell’umano? Di tutto ciò Auschwitz è diventato un paradigma ineliminabile: ciò con cui è necessario fare i conti e la cui enormità sembra perfino inenarrabile – leggete Imre Kertész in merito.
È questo ciò che si oppone al sorriso e non è neanche tutto. C’è anche l’invidia, che possiamo anche chiamare gelosia con qualche approssimazione, e che è qualcosa di minuto, di meno evidente, qualcosa che non cambia la nostra stessa percezione delle ragioni del tempo storico, qualcosa che s’insinua in maniera subdola, silenziosa, nella nostra quotidianità sicura, ordinaria, senza sussulti, qualcosa che si nasconde dietro la (spesso apparente) rispettabilità, ma non per questo è priva di violenza, primariamente psicologica, comunque disprezzabile; è il mostro verde – per Shakespeare – che si nutre del cibo che disprezza. Invidia di che, però? Forse il punto sta nella luminosità del sorriso, e penso a quello sincero e aperto, al sorriso che porta una gioia serena. Chi prova istintivamente invidia per chi non vede come plaudente e in un certo qual modo succube, servile, non riesce spesso a sopportare chi esprime una gioia serena perché, da un lato, proprio quella gioia elimina il possibile giogo nei rapporti, dall’altro rappresenta ciò che chi è di fronte ha e che non si riesce a individuare in sé: l’attitudine all’invidia, più precisamente al suo esercizio, oscura, infatti, ciò che uno ha o potrebbe avere nel proprio mondo interiore. “Come posso io essere, se tu già sei?” Si chiede Cecco d’Ascoli, pensando a Dante, almeno secondo George Steiner quando prendeva appunti per un libro che non avrebbe scritto (si veda il capitolo secondo del suo “I libri che non ho scritto”, Garzanti, 2008). La debolezza di Cecco è di non riconoscere che può essere nonostante Dante, diversamente da Dante, senza voler distruggere Dante, perché poi è una lotta vana: si può anche uccidere Dante, ma in ogni caso Dante sarà stato.
Il moto d’invidia può anche essere una debolezza comune, ma è poi frenato in ciascuno dall’etica. L’esercizio dell’invidia, invece, e intendo l’azione contro l’altro, anche solo la pianificazione della maldicenza, che è manipolazione, un affare disgustoso infine, va oltre il calmiere dell’etica, almeno di una che sia positiva, e fa dimenticare la dignità, sempre che se ne abbia una.
Non perdere il sorriso è una conquista, e intendo ancora una volta un sorriso sereno e aperto, così come lo è il riconoscere la possibilità in sé di poter sorridere in tal modo; è un omaggio alla bellezza del mondo, all’opposizione al dolore e alla violenza, a tutto ciò che è costruttivo nell’essere in vita, al sole che si leva al mattino, alla pioggia leggera, al canto degli esseri umani e dei pennuti, allo sguardo dolce di un cane, al sonno delle marmotte, al volo delle farfalle, a ciò che ci fa respirare e ci rende umani.