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- Giancarlo De Pascalis, Galatina e la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria – Galatina, 8 novembre 2024
- Il Nuovo Museo Archeologico di Ugento
- Nuove segnalazioni bibliografiche 34. Il compito della letteratura
- Inchiostri 133. L’atrio del “Capece”
- Marcello Toma, La cima azzurra
- Girolamo Comi: Poesia come preghiera (prima parte)
- Mondiali 1970. Pelé prodigio di vento e quel silenzio triste
- Parole, parole, parole 34. Il morbus anglicus
- Gaetano Minafra, Arte sacra11. Madonna
- Manco p’a capa 227. IA: la ragione si dà agli scemi…
- L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo VII. Poesia e prosa
- Gli effetti della Legge di Bilancio sui divari regionali
- Gianluca Virgilio, Antonio Vallone e il calzolaio di Via Luce
- Taccuino di traduzioni 7. Rafael Alberti e la Castiglia
- L’orologio del XV sec. della Basilica del Santo a Padova
Giancarlo De Pascalis, Galatina e la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria – Galatina, 8 novembre 2024
Pubblicato in Avvisi locandine e comunicati stampa
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Il Nuovo Museo Archeologico di Ugento
di Francesco D’Andria
La situazione dell’archeologia ad Ugento non era granché cambiata nei primi anni settanta del secolo scorso, rispetto a quanto descriveva, quasi cent’anni prima, Cosimo De Giorgi nei suoi Bozzetti di viaggio (1888): «Ho veduto io stesso nel fondo Colonne, per esempio, una serie di queste tombe tutte messe sossopra; gli scheletri dispersi e rotti; i vasi di più grossolana fattura ma pur tanto importanti per la scienza, ridotti in cocci dalla zappa o dall’aratro dei contadini.»
Anche la straordinaria scoperta della statua in bronzo di Zeus, avvenuta alla Vigilia di Natale del 1961, si era svolta in circostanze molto avventurose: gli operai, che scavavano le fondamenta di una terrazza, estrassero dal sottosuolo la statua da essi definita «il pupo», che restò tutta la notte abbandonata sopra il cumulo della terra di risulta, accanto ai pezzi del caratteristico capitello con l’abaco ornato da una fila di rosette a rilievo. Ore di buio, con il rischio che il capolavoro venisse trafugato e sottratto per sempre al nostro Patrimonio nazionale, sulla scia di tanti reperti che, in quegli anni, raggiungevano clandestinamente i mercati dell’arte nel nord Europa e negli Stati Uniti. Com’è noto, questo straordinario esempio della scultura tarantina arcaica fu poi recuperato grazie all’intervento della signora Sofia Codacci Pisanelli e dell’insegnante Salvatore Zecca, appassionato cultore di memorie locali. Sull’onda di questa scoperta venne istituito, nel 1968, il Museo Civico, affidato alla direzione dello stesso Zecca, il quale cercava di recuperare il salvabile, da esporre nelle antiche celle dell’ex-Convento dei Francescani, intitolato a Santa Maria della Pietà. E un’altra scoperta sensazionale avvenne nel 1970, quando, lungo la via Salentina, altri lavori edilizi portarono alla luce la “Tomba dell’Atleta”, con il suo corredo di ceramiche figurate e di vasi di bronzo, trasferiti subito a Taranto, per essere studiati e pubblicati dal Soprintendente Gino Felice Lo Porto, che in quegli anni aveva il monopolio dei corredi di vasi di eccezionale valore che, in tutta la Puglia, le tombe indigene restituivano in gran numero. Ma i lastroni della semicamera, recanti i resti di pitture, furono lasciati a Ugento.
Nuove segnalazioni bibliografiche 34. Il compito della letteratura
di Gianluca Virgilio
È difficile parlare di un libro che racconta un’indagine poliziesca senza correre il rischio di rivelare circostanze e dettagli che potrebbero anticipare al lettore la soluzione del caso e l’identificazione del colpevole, senza spoilerare, come si dice oggi nel gergo giovanilistico. Ci proverò, perché nel caso dell’agile poliziesco di Ettore Catalano, Il complesso di Chirone, Progedit, Bari, settembre 2014, sono in ballo ben altre questioni, che la fabula, col suo ritmo accattivate e ricco di suspence, non nasconde e con cui il lettore è chiamato a confrontarsi.
Ettore Catalano, classe 1946, è professore di Letteratura italiana nelle Università di Bari e del Salento. Il lettore potrà facilmente rintracciare nel web notizie sulla sua attività scientifica e accademica, di cui v’è ampia traccia nelle numerosissime citazioni letterarie presenti nel romanzo. Ora è a riposo, sebbene sia risaputo che chi ha sempre lavorato non sappia cosa significhi questo “essere a riposo”. Pertanto, all’attività scientifica Catalano ha affiancato, sin dal 2019, una fitta produzione narrativa, la saga del vicequestore di Ostuni Donato Tanzarella, ormai giunta al sesto libro, ovvero al sesto noir.
Pubblicato in Letteratura, Recensioni e segnalazioni
Contrassegnato Gianluca Virgilio
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Inchiostri 133. L’atrio del “Capece”
di Antonio Devicienti
Potrei sbagliarmi, ma studiare in una scuola il cui edificio è un antico palazzo nobiliare è un po’ diverso che studiare in edifici “moderni” – è questione di aura, di suggestioni, di qualità e colore della luce che filtra da antichi vetri, è questione di spazi che conservano (e mostrano) le stratificazioni del tempo.
Studiare al “Capece” di Maglie ha significato per me entrare ogni giorno in luoghi capaci di trattenere la presenza delle generazioni precedenti – ancora oggi sogno, talvolta, l’atrio del “Capece” ed è felicità percepita pur nel sonno, perché attraversare il grande portone che mette in comunicazione la Piazza esterna e l’atrio interno significava (e lo scrivo senza retorica e senza sentimentalismi) entrare in una nuova mattinata di scoperte.
Ho avuto tanti ottimi insegnanti, ma la gratitudine più tenace si rivolge sempre alla figura del professor Claudio Micolano – ricordo ancora perfettamente le sue lezioni dedicate ad Alceo e a Saffo, a Sofocle e a Omero, a Catullo, a Lucrezio, a Virgilio… Fu lui a parlarci di Salvatore Toma negli stessi anni in cui il poeta viveva allevando i suoi amati cani alle Ciàncole poco fuori Maglie, fu lui a farci i nomi di Girolamo Comi, di Oreste Macrì…
Ascoltavo e mandavo a memoria quei nomi che esulavano dai “programmi” scolastici tradizionali.
Ma non appena ero riuscito a risparmiare tre o quattro mila lire andavo nella libreria di fronte al “Capece” e compravo, emozionato ed entusiasta, le Bucoliche o l’Edipo Re – l’Edipo a Colono fu la tragedia che preparammo per l’Esame di Maturità (si chiamava anche ufficialmente così, allora) e il coro dedicato ai cavalli e al bosco sacro di Colono mi risuona ancora oggi, luminoso, nella mente.
Il cortile del “Capece”, concluso sul lato opposto all’ingresso principale da un arco a bugnato che immette allo scalone tardo barocco e limitato sui lati destro e sinistro da archeggiati vetrati, è lo spazio aperto (eppure protetto) del transito da un’ala all’altra del palazzo, degli intervalli a metà mattinata, dello sciamare in entrata o in uscita prima e dopo le lezioni.
Ancora oggi m’intrattengo con l’immaginazione in quel cortile, rivedo le mattinate di pioggia e, molto più spesso, la luce salentina che allagava finestre, intonaci, selciato, risento l’orologio del vicinissimo Municipio suonare i quarti d’ora – mai il cortile del “Capece” è stato prigione per me, ma sempre la pagina a cielo aperto di una passione, di uno slancio.
Pubblicato in Inchiostri di Antonio Devicienti, Memorie
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Marcello Toma, La cima azzurra
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi, Letteratura
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Girolamo Comi: Poesia come preghiera (prima parte)
di Antonio Lucio Giannone
Il tema della preghiera ha una rilevanza particolare nell’opera di Girolamo Comi. Si può dire che tutta la sua poesia è una forma di preghiera, di inno, di celebrazione. Non a caso, in un articolo del 1962, il poeta così scriveva: «Preghiera e poesia, come ha cercato di dimostrare l’abate Bremond, sono una sola cosa» (G. Comi, Ricordo di Arturo Onofri, in «L’Albero», fasc. XII, 1962, n. 36-40, p. 51) . In effetti, Comi, in tutto l’arco della sua attività, ha rifiutato quel tipo di poesia che mette al centro del proprio interesse l’io, le angosce individuali, le inquietudini esistenziali, i propri sentimenti. La poesia per lui deve essere un’attività totalizzante, quasi di tipo sacerdotale, a cui bisogna riservare una dedizione assoluta, rifuggendo volutamente, con profonda convinzione, la gloria, il facile successo, l’applauso del pubblico. Non a caso, fin dal titolo di un suo libro del 1934, egli parla della «necessità» di uno «stato poetico» permanente. Anche il termine “preghiera” è ricorrente nella sua produzione e figura pure nei titoli di alcune composizioni, di sezioni di raccolte e dell’ultimo volumetto.
Ma la poesia di Comi ha attraversato varie fasi, distinte nettamente tra di loro. La prima fase, che va dal 1920 al 1933, è caratterizzata da una concezione immanentista di tipo panteistico sulla quale ha avuta un’influenza decisiva la dottrina antroposofica di Rudolf Steiner. In questo primo momento, perciò, la sua poesia ha celebrato il creato, la bellezza, l’armonia del creato, visto non separato dall’uomo, ma misticamente collegato ad esso attraverso la componente spirituale. Dopo la conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1933, invece, essa diventa vera e propria preghiera a Dio, al Signore, tanto è vero che l’ultima raccolta, pubblicata nel 1966, due anni prima della sua morte, è intitolata Fra lacrime e preghiere.
Mondiali 1970. Pelé prodigio di vento e quel silenzio triste
di Antonio Errico
Il 21 giugno del Settanta, alla fine di Italia- Brasile, Tarcisio Burgnich, il mastino che lo aveva marcato, disse così: prima della partita mi ripetevo che era di carne e ossa come chiunque, ma mi sbagliavo.
Edson Arantes do Nascimento era fatto di carne e ossa. Pelè no. Pelè era fatto di vento. Era brezza folata raffica turbine uragano.
Al 18′ del primo tempo, si alza su Burgnich e spara di testa la palla nell’angolo destro. Comincia con quel gol la disfatta del drappello italiano composto da Albertosi, Cera, Burgnich, Rosato, Facchetti, Bertini, Mazzola, De Sisti, Domenghini, Boninsegna, Riva. Alla fine è un quattro a uno.
Nella pagella della partita compilata da Gianni Brera, soltanto Rosato prende 7. Tutti gli altri si fermano al di sotto della sufficienza. Per esempio: Riva (addirittura) 4,5. Ma dice Brera che bisogna togliersi il cappello di fronte ai campioni brasiliani. Più di quello che era stato fatto non ci si poteva aspettare.
Pelè è il simbolo della partita.
Parole, parole, parole 34. Il morbus anglicus
di Rosario Coluccia
Molti lettori mi scrivono lamentando i troppi anglicismi presenti nella lingua italiana. Un po’ di anni fa Arrigo Castellani, uno dei massimi linguisti del Novecento, scrisse che l’italiano è affetto da morbus anglicus; quella formula talvolta fu oggetto di ironie ma è condivisibile nella sostanza, anche negli obiettivi che sottintende. L’adozione di parole straniere non è un male di per sé, al contrario; è una linfa per le lingue vive, che si arricchiscono reciprocamente con scambi continui, dando e ricevendo parole. Ma i fenomeni vanno attentamente osservati e, quando è il caso, orientati.
Negli ultimi decenni, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, l’anglo-americano si è diffuso a livello planetario, per ragioni socio-economiche e politiche evidenti. Anche in Italia e cresciuta l’attrattiva della lingua inglese e in particolare, specie dopo il boom economico degli anni cinquanta del secolo scorso, dell’American English. Centinaia di parole inglesi sono usate dagli italiani nelle comunicazioni abituali e fanno parte della nostra lingua. Alcuni prestiti sono assimilati e irriconoscibili nella loro provenienza. Risuonano “italianissime” parole come “bistecca” (adattamento ottocentesco dell’ingl. beef-steak ‘costola [steak] di bue [beef]’); “grattacielo” (dagli inizi del Novecento, calco semantico dall’ingl. sky[‘cielo’]-scrapers [‘gratta’]); e molte altre perfettamente amalgamate alle strutture della nostra lingua. Nessuno penserebbe di escluderle dalla lingua quotidiana, ed è giusto così, ci mancherebbe.
Pubblicato in Linguistica, Parole, parole, parole di Rosario Coluccia
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Gaetano Minafra, Arte sacra11. Madonna
Pubblicato in Arte, Artisti contemporanei galatinesi
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Manco p’a capa 227. IA: la ragione si dà agli scemi…
di Ferdinando Boero
Nonostante mi abbia dato per morto (clicca qui) ho continuato a usare Chat GPT (non sono superstizioso: porta male). Di solito le chiedo (per me è femmina) cose che già so, per fargliele mettere in ordine. Ed è molto brava a farlo, sa organizzare in modo logico e consequenziale una montagna di concetti e di dati.
Ovviamente ho provato a chiederle quali siano gli animali e le piante più importanti per il funzionamento degli ecosistemi planetari. Chi legge il mio blog conosce la risposta: copepodi e diatomee. Ma Chat GPT non lo legge, e mi ha dato una risposta basata quasi esclusivamente sugli ecosistemi terrestri, tralasciando quelli oceanici. Un dettaglietto non da poco, visto che rappresentano il 90% dello spazio abitato dalla vita. Così ho contestato la risposta, argomentando a favore di copepodi e diatomee. Mi ha ringraziato molto, ha ammesso il suo errore, e ha riformulato la risposta secondo i miei suggerimenti. Ho insegnato cose a Chat GTP, mi sono autocongratulato, tronfio. Dopo qualche giorno ho rifatto la domanda, e l’ho ripetuta anche in inglese. Conferma: copepodi e diatomee. Incredibile, mi son detto. Ho davvero insegnato qualcosa a Chat GPT. Ho chiesto a una collega di rifare la domanda dal suo computer ed ecco che son tornate le api e gli ecosistemi terrestri. Ho aperto la finestra di navigazione in incognito e ho rifatto la domanda dal mio computer: sempre api e ecosistemi terrestri.
L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo VII. Poesia e prosa
di Gianluca Virgilio
Ecco come il commentatore spiega qual è stato, qual è e quale dovrà essere d’ora innanzi il suo ruolo:
“Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle onne dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò, che io dico d’Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente, ma sì come fosse sustanzia corporale: la quale cosa, secondo la veritade, è falsa; ché Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora sì come se fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui.” (V.N. XXV, 1-2)
“La terminologia è scolastica. L’amore, in altre parole, non è una persona, ma una qualità che si manifesta nelle persone”, spiega Charles S. Singleton, [1]. Ci si potrebbe figurare Amore come avente un corpo per il fatto che finora si è detto di lui che si muove, ride e parla. In realtà egli è “sustanzia intelligente”, cioè “pure intelligenza, separata da materia, epperò invisibile (come gli angeli)” e non “sustanzia corporale”, cioè “(…) sostanza corporale, corpo, ossia persona, uomo“[2]. Come mai, allora, il lettore apprende che Amore si muove, ride e parla, proprio come se avesse un corpo? La risposta è che “Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia”, cioè, ancora secondo D. De Robertis, “una qualità, un attributo”[3]. In realtà, cosa voglia dire esattemente questa definizione è chiarito nel seguito della “digressione” dantesca. Intanto l’Alighieri con un excursus storico ricostruisce approssimativamente le origini della poesia volgare che ha sostituito la poesia latina soltanto da centocinquanta anni (“non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni” (V.N. XXV, 4) ). Leggiamo:
“E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore. Onde con ciò sia cosa che a li poete sia conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per rima non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è che a loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a li altri parlatori volgari: onde, se alcuna figura o colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li rimatori.” (V.N. XXV, 6-7)
Pubblicato in Scritti giovanili danteschi di Gianluca Virgilio
Contrassegnato Gianluca Virgilio
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Gli effetti della Legge di Bilancio sui divari regionali
di Guglielmo Forges Davanzati
Esistono fondate ragioni per ritenere che la Legge di Bilancio 2025 porrà le basi per ulteriori aumenti delle divergenze regionali in Italia. La traiettoria di riduzione relativa del Pil pro capite del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord prosegue pressoché ininterrotta da quasi cinquant’anni: l’ultimo anno di significativa convergenza del Pil pro capite delle due aree è il 1975, con un rapporto Pil pro capite Sud/Pil pro capite Centro-Nord pari al 68%, che declina, nei decenni successivi e fino a oggi, a poco più del 50%.
Il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha ricordato (settembre 2024) che, nella storia recente dell’economia italiana, le divergenze sono notevolmente aumentate negli anni compresi fra il 2007 e il 2019, in concomitanza con la crisi finanziaria globale del 2008 e la crisi europea dei debiti sovrani del 2010. Le misure di austerità fiscale attuate in quel periodo hanno danneggiato soprattutto il Sud, generando, in quest’area, una contrazione del Pil nell’ordine dei 10 punti percentuali, a fronte del calo di due punti percentuali per il resto del Paese. In quella fase, infatti, la riduzione della spesa pubblica ha avuto impatti particolarmente severi soprattutto nelle aree – quelle più arretrate – nelle quali è minore la propensione alle esportazioni. In questi contesti, l’austerità ha avuto il solo effetto di comprimere il mercato interno, dunque i profitti, gli investimenti e il tasso di crescita, senza effetti apprezzabili sul recupero della competitività di prezzo e, dunque, sulle vendite all’estero.
Gianluca Virgilio, Antonio Vallone e il calzolaio di Via Luce
Discorso tenuto presso l’Auditorium del Liceo Scientifico e Linguistico Antonio Vallone di Galatina in occasione del Cinquantesimo anniversario della sua fondazione, il 19 ottobre 2024 (video a cura di Giuseppe Frassanito).
Pubblicato in Anniversari, Necrologi, Commemorazioni e Ricordi, Video
Contrassegnato Gianluca Virgilio
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Taccuino di traduzioni 7. Rafael Alberti e la Castiglia
di Antonio Devicienti
De Aranda de Duero
a Peñaranda de Duero
¡Castellanos de Castilla,
nunca habéis visto la mar!
¡Alerta, que en estos ojos
del sur y en este cantar
yo os traigo toda la mar!
¡Miradme, que pasa el mar!
Da Aranda de Duero
a Peñaranda de Duero
Castigliani della Castiglia,
mai avete visto il mare!
Attenzione, ché in questi miei occhi
del sud e in questo mio canto
io vi porto il mare!
Guardatemi: sta passando il mare!
L’orologio del XV sec. della Basilica del Santo a Padova
di Rocco Orlando
Nella Basilica del Santo a Padova esiste un orologio che padre Zaramella (1927-2003) così descrive nel suo articolo “L’orologio che parla in esametri“:“Uno degli angoli più caratteristici della Basilica è quello tra l’entrata in sacrestia e l’entrata in campanile. La parete in alto è occupata quasi totalmente da un grandissimo e bellissimo orologio originale, di non facile lettura, almeno a prima vista, perché di lancette invece di due, ce n’è una sola, non perché l’altra sia stata rubata o rotta, ma perché l’orologio è stato concepito così: l’unica lancetta segna le ore e tra ora e ora i minuti: 11; 11,15; 11,30; 11,45; 12 […]. Pare che funzioni molto bene, è l’orologio del campanile. Di solito le ore del campanile si sentono meglio a distanza che da vicino, però si vedono solo se ci si trova sul piazzale della chiesa. Qui invece le ore si vedono solo se si entra in chiesa e ci si apposta in quell’angolino dell’ambulacro. Ha il vantaggio che, essendo all’interno, non è soggetto alle intemperie, è bello, a colori, ed artisticamente valido; si ricarica ogni giorno alle ore 15, 15 e 18,15. Nella circonferenza esterna splendono d’oro i segni zodiacali; al centro sorride il bel faccione del sole con una densissima raggiera. Il Casanova 1 sotto l’orologio ha dipinto due angeli cardinali in volo orizzontale, che mostrano la scritta programmatica per tutto il creato “Sicut in caelo et in terra”. Sopra l’orologio ha dipinto un vegliardo, il Creatore, che dopo aver lanciato nell’immensità le sue creature, le regge e governa con saggezza; ai lati dell’Eterno Padre la terra e la luna […]. Ai lati, sempre sopra l’orologio e ai fianchi […] delle strisce volanti, contorte ed agitate dal vento… e le parole scrittevi sopra non sono di facile lettura”.
Parolai
di Paolo Vincenti
All’ennesima riunione di lavoro, l’altra sera, non sono riuscito a trattenere un moto di stizza e sono uscito dall’aula abbandonando gli astanti coi quali la mattina dopo mi sono prontamente scusato addebitando allo stress accumulato negli ultimi tempi la causa della mia intemperanza (chiave universale, scusa sempre valida per ogni giustificativo, lo stress può essere invocato e, come il cacio sui maccheroni, sta bene dappertutto, anche sui certificati medici per i lavativi). Però il mio disappunto resta. Perché la gente impiega tanto tempo a parlare, sprecando un’ora e mezza, anche due ore, per argomenti che potrebbero essere efficacemente sintetizzati in mezzora? Maledetti logorroici e perdigiorno. Non sopporto i parolai, che mi costringono a sprecare il tempo in bubbole. In videocall o in presenza, il mio lavoro è ormai contrappuntato da innumeri e infinite riunioni. Quello che è peggio è che i colleghi pare non abbiano la stessa mia esigenza di stringere i tempi, ossia terminare la riunione per poter passare ad altro, ma se la prendono comoda ed aggiungono altri punti del giorno a quelli in scaletta sicché il breafing si trasforma in una seduta plenaria, diventa sfiancante, come l’ostruzionismo che fanno le opposizioni in Parlamento, presentando mozioni su mozioni, per allungare i tempi e costringere la maggioranza alla resa su alcuni argomenti fortemente controversi. Ci vorrebbe la sala riunioni inventata dalla Diesel di Renzo Rosso, The capsule. Devo proporla ai miei colleghi. Si tratta di una sala volutamente piccola e scomoda posta su un piano inclinato, con un timer di 15 minuti. I convegnisti sono costretti a sbrigarsi. Allo scadere dei 15 minuti, il box comincia a inclinarsi facendo cadere documenti, telefonini e tutto ciò che è sul tavolo e quindi occorre chiudere la riunione tirando le somme. Chissà se The capsule è ancora in produzione.
Autotelia, Finissage – Torino, 3 novembre 2024
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Eric Hazan, l’inventore di Parigi
di Antonio Montefusco
Sulla tomba del cimitero di Montmartre, Stendhal ha voluto una lapide in italiano: «Arrigo Beyle [era il suo vero nome, nda] Milanese, scrisse, amò, visse». Lo scrittore non era riuscito a entrare all’Ecole Polytechnique, e da raté (grande perdente), si imbarcò con Napoleone Bonaparte. Uno dei più francesi degli scrittori romantici, sepolto in uno dei più parigini dei cimiteri, non amava assai la Francia e i francesi, che trovava arroganti. Per questo motivo, lo considerava assai simpatico Eric Hazan, leggendaria figura di editore francese scomparso a 88 anni lo scorso giovedì 6 giugno. Paradosso dei paradossi per un parigot autentico: amante appassionato di Parigi, e cultore di letteratura soprattutto francese (e specialmente ottocentesca, quella del grande romanzo e poi della Bohéme), trovare simpatico il “non” amore di Stendhal.
Hazan è stato l’inventore di un modo moderno di fare editoria indipendente in un mondo di grandi colossi – uno dei quali, tra l’altro, aveva acquisito la casa editrice del padre, specializzata nei libri d’arte, negli anni Novanta – e cioè trasformare la pubblicazione di un libro in una cassa di risonanza della discussione pubblica e la casa editrice in un crocevia accogliente di tutto il pensiero che mette in discussione l’ordine di cose esistente e sfida continuamente e provocatoriamente il consenso e il racconto unitario della Repubblica. È qualcosa di difficile da cogliere al di fuori della Francia, dove la «rivoluzione» con la R maiuscola è ingabbiata in una religione civile solo apparentemente inclusiva – fraternité – ma in verità attraversata da linee di frattura che le pubblicazioni della Fabrique, immediatamente riconoscibili nelle sue copertine monocolore e nei suoi caratteri tipografici vintage, volevano trasformare in tumulto, insurrezione, contro-narrazione.
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Inchiostri 132. William Turner dipinge in un acquerello Castel dell’Ovo (con Capri sullo sfondo)
di Antonio Devicienti
Talvolta compio una sorta di esercizio mentale: da Salentino e Mediterraneo, nato e da sempre immerso nella luce meridiana, mi sforzo di capire (o d’immaginare) le sensazioni e i pensieri di chi, figlio del Nord, giunge a Sud delle Alpi.
Sono germanista di formazione accademica e ho familiarità con i testi di chi, fin dal Settecento, intraprendeva il grand tour dell’Italia; io stesso, meridionale, sono letteralmente affascinato dai paesaggi e dalle architetture che si vedono attraversando la Germania fino ad arrivare a due mari completamente diversi dal “mio” (il Mar del Nord e il mar Baltico). Si tratta, forse, di una sorta d’attrazione per il polo opposto.
Ebbene, a parte l’innegabile e riconosciuta maestria di Wiliam Turner, negli acquerelli che dipinse durante e dopo il suo viaggio in Italia c’è una trasparenza che non è soltanto luce e sublime tocco del pennello insieme con il sapientissimo dosaggio delle mescole, ma metamorfosi dello sguardo in un tutto che, azzurrità e serena lontananza, pulsa vivente materia.
Castel dell’Ovo fluttua, isola dell’immaginazione e della visione, nell’ampiezza del Golfo e Capri si profila, maravigliante riflesso di nuvole, mare, spazio, lontananza, respiro, musica.
L’acquerello è del 1819 – Turner lascia l’Italia l’anno dopo, ci vorranno ancora tredici anni perché Giacomo Leopardi venga a Napoli: che cosa si sarebbero detti il sublime pittore inglese e il sublime poeta e filosofo italiano scendendo insieme dalla Via di Chiaia per raggiungere Castel dell’Ovo?
Nuove segnalazioni bibliografiche 33. Visioni eterodosse della poesia salentina
di Gianluca Virgilio
Fresco di stampa il libro di Simone Giorgino, Eretico barocco. Una linea meridiana della poesia italiana del Novecento, Carocci Editore, Roma, settembre 2024, edito nella collana Lingue e letterature. L’autore insegna Letteratura italiana contemporanea in qualità di ricercatore presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università del Salento. Questo suo libro, dunque, nasce nell’alveo di una tradizione critica letteraria che viene da lontano, ovvero dagli studi di Donato Valli, Mario Marti, Oreste Macrì, Antonio Lucio Giannone, che per primi hanno isolato e definito un canone della poesia salentina, collocandola nel contesto nazionale e internazionale; con risultati senza dubbio ottimi sul piano del metodo critico quanto non del tutto efficaci dal punto di vista della ricezione e dell’accoglienza nel canone letterario italiano e tantomeno europeo, con qualche eccezione, s’intende. Il punto di vista critico di Giorgino è sintetizzabile nella particolare “prospettiva geo-letteraria” (a monte vi sono gli studi novecenteschi di Carlo Dionisotti col suo famoso Geografia e storia della letteratura italiana del 1967), dalla quale occorre guardare ai poeti oggetto di studio. E allora, occorre innanzitutto definire la posizione geo-letteraria del Salento, che appare come un luogo “estremamente periferico rispetto ai maggiori distretti culturali del nostro paese ma situato nel cuore del Mediterraneo, e perciò esposto ai flussi e alle influenze delle culture e delle civiltà letterarie che si affacciano sullo stesso bacino”. (p. 10). Questo l’assunto metodologico.
Purtroppo, l’esperienza mi dice che nelle scuole superiori sono pochissimi i professori di lettere, che pure hanno fatto i loro studi nell’Università del Salento, che osino proporre ai loro allievi una poesia di Girolamo Comi o di Raffaele Carrieri e tanto meno di Vittorio Bodini e Vittorio Pagano; e così nessuno si azzarda a proporre agli studenti, neppure ai maturandi, la poesia di Carmelo Bene (la sola lettura di qualche canto dantesco o leopardiano li sciocca).
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