Una mostra d’arte: Verso le avanguardie. Gli anni del Futurismo in Puglia 1909/1944 (Seconda parte)

di Antonio Lucio Giannone

Nella prima parte di questo intervento (clicca qui) ho ricordato la mostra “Verso le avanguardie. Gli anni del futurismo in Puglia 1909/1944”, curata da Giuseppe Appella, che si tenne a Bari e a Taranto nel 1988. L’anno successivo, grazie all’interessamento del sindaco della città, Adriana Poli Bortone, la mostra, ampliata e arricchita di opere, si spostò a Lecce, nelle sale del Castello Carlo V, dove rimase dal 31 gennaio al  18 marzo. In quella occasione, vide la luce il  Giornale della mostra, “Futurismo a Lecce”, che doveva servire come guida per i visitatori. Lo curai insieme con Ilderosa Laudisa, allora dirigente dell’Ufficio cultura del Comune e appassionata storica dell’arte, recentemente scomparsa, che qui mi fa piacere ricordare. Non è stata quella l’unica volta che ho collaborato con lei. Nel 1993, scrissi la postfazione del suo volume La città dell’anima. Bella Lecce di Francesco Barbieri e Salvatore Starace (Lecce, Edizioni del Grifo), intitolata Una città come “condizione dell’anima”: Lecce negli appunti di Francesco Barbieri. Nel 2011 invece mi occupai della produzione poetica del pittore leccese Ennio Marzano nel volume da lei curato Ennio Marzano (1908-1984). L’opera ed i segreti della sua ricerca artistica, (Lecce, Edizioni Grifo, 2011). Inoltre le presentai due pubblicazioni: il 16 dicembre 2010, presso l’Auditorium del Museo Provinciale di Lecce, Il Salento di Giuseppe Palumbo, mentre l’8 novembre 2014, presso il Monastero S. Maria della Consolazione, a Martano, Il Museo “Giulio Pagliano “ di Martano. In occasione della mostra, quindi, pubblicammo il Giornale che si affiancava al monumentale catalogo edito da Adda di Bari. Esso conteneva, oltre ai saluti del sindaco, un suo articolo  dal titolo Tangenze futuriste, uno dello scrivente, Lecce e il futurismo, nonché testi e opere dei principali protagonisti cittadini convolti a vario titolo nel movimento, come Antonio Serrano, Vittorio Bodini, Mino Delle Site,  Pippi Starace, Temistocle De Vitis, Nino Della Notte. Anche allora pubblicai un altro articolo sul “Quotidiano di Lecce”, relativo a questa nuova tappa della mostra, che qui ripropongo insieme alle quattro pagine del Giornale.

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Noterellando… Costume e malcostume 32. Casa mia. Elogio del provincialismo

di Antonio Mele / Melanton

Benché tutto sia sempre migliorabile, e per tutto intendo proprio tutto: dai luoghi alle persone, alla politica, alle leggi, all’economia, alle scuole, al clima, al cibo o a quanto di più immaginifico possa venire in mente, ebbene confesso di sentirmi – oggi come ieri – sempre personalmente orgoglioso di essere galatinese e salentino.

Sia detto e inteso, naturalmente, senza alcuno spirito di presunta preminenza campanilistica (come potrebbe peraltro suggerire la pittoresca nomea di “carzilarghi”, nel senso comune di ‘orgogliosi guasconi’, attribuita al popolo della città di San Pietro) ma, più semplicemente e affettuosamente – com’è naturale per i ‘nativi’ di tutti i grandi o piccoli paesi del mondo – per un legittimo e insopprimibile amore alla terra dei padri.

È facile, in fin dei conti. E di generazione in generazione si perpetua ovunque, per tutte le diverse patrie, pur con qualche curiosa o fatale singolarità.

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Presentazione di Luigi Scorrano, Lettere salentine – Tuglie, 20 febbraio 2025

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I resti di Babele 19. Luigi Malerba. Quella sceneggiatura che poteva essere un romanzo

di Antonio Errico

Luigi Malerba, uno dei più grandi scrittori del Novecento, ha lavorato in modo significativo anche con sceneggiature per cinema e televisione. Diceva che la scrittura di sceneggiatura era un lavoro fatto anche con molta partecipazione ma senza sofferenza. Per Malerba, quindi, sceneggiature e romanzi erano due condizioni testuali che difficilmente trovavano punti d’incontro. Almeno intenzionalmente, nella fase di progetto.  Ma la sceneggiatura di Poveri homini che esce in questi giorni da Manni, con un’introduzione di Gino Ruozzi che ne analizza compiutamente la genesi e la struttura, si legge come un romanzo. Ha il passo di un romanzo. E’ il racconto del modo in cui alla metà del Cinquecento, attraversa la vita la gente di Berceto, un paesino del parmense (dove Malerba è nato), la sua miseria e le vessazioni dei potenti: tasse, gabelle, requisizioni. Le ribellioni e le repressioni. La fame. “Questi delinquenti! Questi morti di fame!” dice uno dei personaggi, e un altro risponde: “La gente affamata è cattiva, signor Podestà”.

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Sugli scogli 30. Eleggo il mare

di Nello De Pascalis



Caspar David Friedrich (1774 – 1840), Due uomini al mare al crepuscolo (1817), 66 x 51 cm, Olio su tela.

… e masnade e ciarle

e vie melmose

ove figure muffe sguazzano;

e gonzi avari d’impeti,

codardi e ciechi,

e poi viltà e parvenze:

tutto mi ripugna, indi lascio,

eleggo il mare a mio confino

e là finisco.

Sul mare ho vele tese

e vi campeggia il tuo volto,

mia compagna,

e tu mi sei rimpianto.

Verrà – urlavi – quel flutto

che turbina e travolge,

verrà un giorno in cui…

un colpo d’ala,,,

(sognavi e davi il tuo tributo)

ma sento che non reggo agli anni,

già sette volte dieci.

Chissà.

Sonorità di mare

e tu passata ad altra vita,

anacoreta per necessità

a voi protendo, arreso.

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Il fantasma di Craxi in un libro di Massimo Franco

di Gigi Montonato

Il notista politico del «Corriere della Sera» Massimo Franco ha, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Bettino Craxi (Hammamet, Tunisia, 19 gennaio 2000), pubblicato un volume, che lo stesso afferma di avere scritto nel 1995, per Solferino (Il fantasma di Hammamet. Perché l’ombra di Bettino Craxi incombe ancora sull’Italia, 2025, pp. 224). Craxi all’epoca era da un anno ad Hammamet e in Italia si viveva lo sconcerto della vicenda di Tangentopoli. Una situazione che a ricordarla oggi ha dell’incredibile. Mai nella sua storia il popolo italiano ha vissuto qualcosa del genere, né prima né dopo. C’era stato lo scandalo della Banca Romana alla fine dell’800, che aveva costretto Giolitti alla fuga in Germania per non essere arrestato, ma niente al paragone con Craxi e Tangentopoli. I sentimenti e le opinioni più vari e più contrastanti attraversavano le coscienze di un paese intero, a volte in maniera anche oscena, come la goduria esibita dai nemici di Craxi nel vedere lui e i socialisti nella polvere.

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L’antico Chiostro del Generale nella Basilica di S. Antonio a Padova

di Rocco Orlando

     Nella Basilica del Santo a Padova esiste il Chiostro del Generale.  Padre Placido Cortese in un articolo del 1943 “descrive con maestria il chiostro chiamato del Generale o della Biblioteca o della lettura, nel quale i pellegrini e i visitatori possono incontrare le memorie di alcuni musicisti famosi per la  storia della Basilica e della Cappella Musicale Antoniana, illustre quest’ultima per la secolare tradizione e per i suoi direttori di chiara fama”. Il Chiostro è opera del 1435 di Cristoforo da Bolzano; da qui si accede alla Biblioteca Antoniana, mentre sul lato ovest alla Mostra Antoniana, una realizzazione audiovisiva sulla vita di S. Antonio.

     La Biblioteca Antoniana è denominata Pontificia Biblioteca Antoniana perché passata in proprietà della Santa Sede insieme con la Basilica e il Convento del Santo nel 1932, in seguito ai Patti Lateranensi. Annessi alla Biblioteca e accessibili agli studiosi sono l’Archivio Musicale e l’Archivio della Veneranda Arca di  S. Antonio.

     Il chiostro era chiamato anche del refettorio in quanto una volta il refettorio dei frati era nell’attuale sala dello studio teologico per laici, al quale refettorio si accedeva da questo chiostro.  È anche detto chiostro della Cappella Antoniana, perché da esso si accede alla sala, dove la cappella musicale del Santo effettuava le prove di canto.

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Guglielmo Forges Davanzati, Elementi di critica della politica economica – Lecce, 18 febbraio 2025

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Le più belle poesie di Charles Baudelaire, a cura di Antonio Prete

In libreria

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A Grossman

di Pietro Giannini

Il 4 febbraio La Repubblica ha pubblicato una poesia di Grossman scritta a proposito delle operazioni di Israele nella Striscia di Gaza. Nell’intervista che la accompagna lo scrittore israeliano esprime il proprio sgomento per la situazione che si è creata e lamenta che ormai “non resta che vivere nell’odio”. Egli giustifica la sua scelta di esprimersi con una poesia, anziché con un articolo o un discorso, con il fatto che, “dopo “i massacri a cui abbiamo assistito, le parole non bastano” e che la poesia fosse la forma più adeguata per lanciare quello che egli chiama “un urlo”. Ma nei versi scritti si parla solo del dramma israeliano, della ferita del 7 ottobre.

Mi è venuto spontaneo commentarli con altri versi estemporanei.

No, Grossman, no.

I tuoi versi nascondono e confondono.

Urlano (lo dici tu) ma per chi?

Per chi sono le luci che tremano

i tunnel che ululano

il mondo nero e bianco?

Vi compatiamo: tu, tua moglie e il bambino

che avete paura di fuggire.

Ma per i morti di Gaza

nemmeno una parola?

Non sono anch’essi uomini,

ossa e carne viva,

maciullati sotto macerie infrante?

Non patiscono anch’essi la paura

d’esser banditi dalla loro terra?

Solo Israele ha diritto ad una patria?

No, il discorso non regge.

Metti giustizia nelle tue parole e dì

che anche Palestina deve vivere.

Almeno dillo e, se puoi, fallo.

Che il paesaggio lunare

tra cui passano in mesta litania

colonne di esuli sconfitti

ritorni in case e palme verdeggianti.

“Una rivoluzione ci vorrebbe”.

No, non bisogna cedere al destino.

In ogni momento

la storia può cambiare direzione.

Basterebbe avere occhi nuovi

per guardare il vicino, il confinante, il limitrofo,

ognuno il suo.

Questo basterebbe.

Basta tagliare i ponti con la storia:

non più passato, odi e risentimenti

tutto da riscrivere di nuovo.

E non dirlo impossibile.

Basta volerlo.

Tenta anche tu.

Tentiamoci tutti.

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I resti di Babele 18. Amore e poesia in Franco Melissano

di Antonio Errico

Poesia d’amore , innanzitutto, è quella di Franco Melissano. Dice: “ Ristava nelle coppe del tuo seno/il profumo dei tuoi occhi appena schiusi”. Poesia d’amore e di memoria. Dice: “Voglio dimenticare/ ogni malinconia/per ricordar soltanto/il tempo dell’amore”. Una poesia d’amore che si fa espressione del  respiro, della sensazione, della pulsione, del sogno, della felicità, della tristezza, dell’assenza e della presenza. L’amore è presenza concreta, sensoriale, corporea.  E’ anche espressione di quello che si vorrebbe che fosse, al di là di quello che è. Oppure è il rintracciare nell’esistenza un solo filo, un solo elemento, a volte anche non primario, per attribuirgli intensità semantica. C’è sempre una differenza – lo scarto di un ricordo, la nostalgia per una distanza, una condizione di sospensione del tempo, una sfumatura nei giorni che passano, l’offuscamento dell’orizzonte-  tra la realtà e la parola poetica con cui Franco Melissano attribuisce figurazioni alla realtà, tra la sostanza delle cose e la  memoria fluttuante, tra il desiderio di consegnare le storie ad una immagine immutabile e il loro trasformarsi continuo, la loro mutazione incessante. Melissano rielabora il reale attraverso l’elemento esclusivamente percettivo che frequentemente produce uno scarto tra reale e desiderio del reale. Melissano va oltre la figurazione. Scava, disarticola, scompone per cercare quelle immagini che sono oltre, che sono dentro, e poi riarticola, ricompone, ricopre lo scavo, perché  è riuscito a trovare il senso del sentimento e se lo vuole custodire.

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Gaetano Minafra, Arte contemporanea 12. Casa rurale

Materiali vari e colori acrilici su tela, 40 x 30, anno 2013.
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12 febbraio: brindiamo alla salute di Darwin!

di Ferdinando Boero

Jean-Baptiste de Lamarck, con il Trattato di filosofia zoologica, fondò la teoria dell’evoluzione nel 1809, anno di nascita di Charles Darwin. Oggi nessuno considera la zoologia una branca della filosofia, anche se Aristotele scrisse il primo trattato di zoologia, diviso in tre parti: Historia animalium, De partibus animalium, De generatione animalium. Con la zoologia inizia la cultura tramandata: le pitture rupestri raffigurano animali e sono le prime testimonianze del nostro approccio alla conoscenza e all’arte. Le categorie kantiane, applicate alla zoologia, ci permettono di ascrivere le specie a categorie tassonomiche (la tassonomia studia la biodiversità e dà un nome alle specie), fissate nel Settecento da Linneo nel suo Systema Naturae. Nella Genesi, il Creatore affida un solo incarico ad Adamo: dare il nome agli animali.
Con l’avvento della teoria dell’evoluzione, le specie sono raggruppate in categorie sempre più ampie: generi, famiglie, ordini, classi, phyla, regni. Specie affini evolutivamente, discendenti da un antenato comune non condiviso con altre specie, sono classificate all’interno dello stesso genere, e i generi affini sono classificati nella stessa famiglia. E così via. Noi, ad esempio, apparteniamo al genere Homo e alla famiglia Hominidae, che comprende anche i generi Pongo (oranghi), Gorilla (gorilla) e Pan (scimpanzé). Discendiamo tutti da un antenato comune vissuto nel Miocene inferiore, circa 20 milioni di anni fa. Poi le strade dell’evoluzione si sono divise. Lo studio dell’evoluzione mira a ricostruire la storia delle specie, risalendo ai loro antenati. La discendenza comune è il cardine della teoria dell’evoluzione. Tutti i viventi discendono da un antenato comune e remoto. Nel corso di milioni di anni i discendenti di quell’antenato si sono diversificati. Alcuni sono rimasti molto vicini alla condizione ancestrale, come batteri e archea, altri invece hanno acquisito forme e funzioni sempre più complesse. Tutti, però, parlano lo stesso linguaggio chimico: il codice genetico a base DNA-RNA. I meccanismi di diversificazione sono molteplici, e la selezione naturale premia quelli vantaggiosi, scartando quelli svantaggiosi.

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Postfazione a “Gran Varietà” di Paolo Vincenti: omaggio al potere della parola e alla sua capacità di in-cantare

di Maria Antonietta Epifani

Il linguaggio con il quale noi parliamo con gli altri, quello di tutti i giorni, si è modificato man mano in un linguaggio nel quale è difficile trovare la parola giusta, un linguaggio che porta a poco a poco a superficializzare i rapporti umani, appiattendoli nel dire consueto.

Essendo originariamente incantesimi, le parole conservavano ancora intatta la vis primordiale del suono che crea e dà contenuto alla realtà immaginata.  L’energia segreta della parola è stata custodita nella parola stessa, che può essere parlata, cantata e dunque ascoltata. Il soffio, l’alito della parola “incantata”, diviene strumento di attivazione di quel principio terapeutico interno alla realtà che ci consente di “leggere” la stessa realtà, condividerla e comunicarla.

Paolo Vincenti, ricercatore, scrittore e saggista, questo lo ha compreso, consegnandoci un saggio avido di conoscenza che non rimane chiusa nel suo forziere, ma che consegna alla comunità di lettori perché ne possano fare tesoro. Infatti, “i diletti e le divagazioni erudite, interessi, ansie e ilarità aggallano in questo libello che, pur con i suoi pregi e difetti, fra articoli, aggi e note, costituisce, negli elzeviri qui raccolti, un significativo squarcio del più recente periodo della mia vita”, dirà l’autore. Il suo è un parlare autentico che ha attinto alla ricchezza espressiva della nostra lingua e ha recuperato anche i perimetri destinati al silenzio. Le parole, in un continuo inseguirsi, formano una trama appetitosa: il risultato è una raccolta stuzzicante che permette al lettore di entrare in spazi insoliti.  E così, l’autore alterna parole “domenicali” a parole “feriali”, parole cariche di senso a parole svuotate, esperimenti verbali a consuetudini consolidate, pescando nella curiosità e creatività linguistica tipica del bambino, spazio elettivo dove il prestare attenzione è, ai suoi occhi, estremamente importante.

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Filosoficamente – 6 dicembre 2024 – 26 marzo 2025

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Una mostra d’arte: Verso le avanguardie. Gli anni del Futurismo in Puglia 1909/1944 (Prima parte)

di Antonio Lucio Giannone

In un mio recente intervento su questo sito (clicca qui), riguardante il pittore leccese del primo Novecento Antonio Serrano, ho accennato alla grande mostra attualmente in corso presso la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma (GNAM), dal titolo “Il Tempo del Futurismo”, curata da Gabriele Simongini, che celebra l’ottantesimo anniversario dalla scomparsa del fondatore del movimento, Filippo Tommaso Marinetti, avvenuta il 2 dicembre 1944. Il futurismo è stato a lungo emarginato dalla cultura italiana per pregiudizi di carattere ideologico, essendo stato accusato, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, di connivenza col fascismo. In realtà, com’è noto, esso è nato nel 1909, ben prima quindi dell’avvento della dittatura, anche se sono innegabili i legami con quella. Dagli anni Settanta in poi, però, il movimento marinettiano è stato fortemente rivalutato ed è considerato ormai la prima avanguardia artistica del Novecento che ha costituito un modello per tutte le altre venute dopo. Da allora quindi è stato fatto oggetto di numerosi studi ed è stato al centro di importanti esposizioni, tra le quali ricordiamo soltanto la mostra di Venezia del 1986, “Futurismo e futurismi”, e quelle realizzate nel 2009 in occasione del centenario di fondazione. Ebbene, un’ampia rassegna, dal titolo “Verso le avanguardie. Gli anni del futurismo in Puglia 1909/1944”, curata da Giuseppe Appella, venne organizzata anche a Bari e Taranto nel 1998. Dati i miei studi sul movimento marinettiano, fui invitato direttamente da Appella a collaborare al catalogo con un intervento sul Futurismo nel Salento. Al tempo stesso, sempre su invito del curatore, affidai ad alcuni miei allievi l’approfondimento di singole figure coinvolte in questa vicenda. Tutti questi contributi figurano nel ponderoso catalogo riccamente illustrato, di quasi 500 pagine, pubblicato dall’editore Adda di Bari nel 1998. A questa mostra dedicai l’articolo apparso sul “Quotidiano di Lecce” il 5-6 luglio del 1998, che qui ripropongo.

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Massimo Galiotta, Arte e pensiero critico

In libreria.
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Il lupo di Dossena

di Gianluca Virgilio

Matita di Luisa Coluccia (2010).

Accadde un sabato pomeriggio di alcuni anni fa, alle ore 16.30. Già il piccolo paese di Dossena era avvolto nelle prime tenebre della sera, il ghiaccio lo stringeva nella sua morsa, e tutti i camini fumavano, quando all’improvviso, negli interni riscaldati delle case, alcuni abitanti udirono un ululato lungo e profondo, che per molto tempo, dopo quella sera, sarebbe rimasto impresso nelle orecchie e nella memoria della gente. Sembrò giungere in quella estrema propaggine della Valle Brembana da gelide lontananze, da siderali latitudini, veicolo di esperienze che si credevano esaurite in un passato atavico e misterioso, ormai del tutto dimenticato. E infatti chi lo udì per la prima volta, pur essendone profondamente colpito, non ne capì o non ne volle capire il senso, e lo attribuì a un cane sperduto nelle tenebre della sera che abbaiava alle stelle.

Quando però l’ululato fu udito due e tre e quattro volte, e non più da poche persone, ma da tutti gli abitanti di Dossena, non ci fu alcun dubbio: era proprio l’ululato d’un lupo. La sera stessa fu convocato d’urgenza in seduta straordinaria il Consiglio comunale, che si tenne alle ore 18.30 con grande concorso di popolo.

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Taccuino di traduzioni 18. Il tempo di Macondo (da Gabriel García Márquez, Cien años de soledad)

di Antonio Devicienti


Particolare dalla versione illustrata da Luisa Rivera di “Cent’anni di solitudine”, 2017.

Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo. Macondo era entonces una aldea de veinte casas de barro y cañabrava construidas a la orilla de un río de aguas diáfanas que se precipitaban por un lecho de piedras pulidas, blancas y enormes como huevos prehistóricos. El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo. Todos los años, por el mes de marzo, una familia de gitanos desarrapados plantaba su carpa cerca de la aldea, y con un grande alboroto de pitos y timbales daban a conocer los nuevos inventos. Primero llevaron el imán.

Remotissima sera

quando conobbe il ghiaccio –

Macondo venti case

di fango e bambù

Macondo limpido impetuoso fiume

tra rocce-uova avanti la storia

(enormi: lisce: bianche)

tra cose senza nome

– suo padre quella sera remotissima –

poi vennero i gitani, Melquíades

la calamita che schiavarda i sogni.

E ora, Aureliano, il plotone:

schierato.

Chiarimento: mi piace molto giocare con i testi che amo in maniera particolare e così mi sono inventato una (improbabilissima) “traduzione” in versi dell’incipit famoso di Cent’anni di solitudine – quasi nessuna fedeltà alla lettera del testo, ma uno sguardo sempre commosso e ammirato all’intero romanzo, al labirinto di storie che abiteranno per sempre Macondo.

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Sera d’aprile a Milano

di Antonio Prete

Una mezzaluna velata su piazza Vesuvio.

E una panchina stordita dal sonno.

Nelle voci che attendono l’autobus

suoni di una lingua

che ha l’abbaglio improvviso

del deserto nelle sillabe.

.

Il cielo è chiuso in una sua nera dimora.

.

La sera di mezz’aprile si sfoglia,

s’infoglia in altre sere.

.

Dal terrazzo appariva uno spicchio della darsena

e un tratto scuro del Naviglio.

Saliva il frusciare della notte,

piano si posava nel respiro

delle nostre parole,

nel silenzio delle mani.

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