Taccuino di traduzioni 9. Barthes, Sebald, Berger (quattro non-traduzioni)

di Antonio Devicienti

AVVERTENZA: questi testi sono un “esperimento”: ho provato a tradurre un brano in prosa che amo in modo particolare non solo in italiano, ma anche… in versi.
Con il ritmo e il passo della scrittura necessariamente differenti da quelli della prosa ho cercato di suggerire uno stato d’animo, una postura del pensiero, ho provato, anche, a scrivere un mio testo in poesia fortemente ispirato alle parole e alle movenze di pensiero di un autore infinitamente più grande e più capace di me; non nascondo che mi seduceva anche l’idea di una traduzione meno vincolata e virata sull’impatto emotivo del testo originale.

1. SCRITTURA E PALPEBRA

(da Roland Barthes, L’empire des signes)

Pochi tratti
(arbitrari, sì, ma
ordinati e regolari)
a tracciare il pittogramma;
densa la linea
avviata a pieno pennello –
assottigliarsi, poi, curvare:
suo svanire.

L’occhio: come a cominciare
a pieno pennello sull’angolo interno –
rovesciarlo poi
ellittica fenditura
a chiudersi come curvando verso la tempia
(è come foglia, come virgola d’inchiostro:
doppia curva rovesciata
e gli orli affrontati).

Occorre una vita intera
per imparare quell’unico gesto
che
sa
tracciare
il cerchio sublime!

Les quelques traits qui composent un caractère idéographique sont tracés dans un certain ordre, arbitraire mais régulier; la ligne, commencée à plein pinceau, se termine par une pointe courte, infléchie, détournée au dernier moment de son sens. C’est ce même tracé d’une pression que l’on retrouve dans l’oeil japonais. On dirait que le calligraphe anatomiste pose à plein son pinceau sur le coin interne de l’oeil et le tournant un peu, d’un seul trait, comme il se doit dans la peinture alla prima, ouvre le visage d’une fente elliptique, qu’il ferme vers la tempe, d’un virage rapide de sa main; le tracé est parfait parce que simple, immédiat, instantané et cependant mûr comme ces cercles qu’il faut toute une vie pour apprendre à faire d’un seul geste souverain.

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Il laureato, Totò e il Sessantotto che cambiò ogni cosa

di Antonio Errico

Quando una sera d’inverno che hai diciott’anni esci dal cinema gelido di un paese di provincia dopo aver visto, per non saper che fare, “Il laureato”, non sai più distinguere se il mondo reale sia quello con Benjamin Braddock,  la signora Robinson, Elaine e l’ Alfa Romeo duetto rossa che ancora ti sfavilla dentro gli occhi, o se sia la piazza sotto la nebbia soffice accarezzata dalla luce giallastra dei lampioni. Dalla provincia tutto si vede estremamente vicino ed estremamente lontano, allo stesso tempo. E’ tutto vero e tutto falso, tutto bello e tutto brutto, allo stesso tempo. Dalla provincia il mondo ondeggia come il paesaggio liquido di un sogno. La provincia un poco ti ripara e un poco ti esilia. Così te ne vai  verso casa, con il bavero rialzato e le mani affondate nelle tasche, batti i piedi per allontanare il randagio che ti abbaia e ti gira intorno, e voltandoti indietro rivedi in lontananza Anne Bancroft e Dustin Hoffman e Katharine Ross, rivedi la corsa disperata sull’ Alfa Romeo, ti ritorna la fuga in autobus e non riesci, non vuoi toglierti dalla testa le canzoni del film, soprattutto “The Sound of Silence”, di cui non capisci le parole perché non hai studiato l’inglese ma che ti avvolge nei giri di chitarra.

“Il laureato” uscì negli Stati Uniti nel Sessantasette con la regia di Mike Nichols, tratto dal romanzo di Charles Webb.

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L’ostacolo del “fabulare”. La finzione autobiografica dantesca nell’opera volgare dell’Alighieri. Capitolo X. La nuova finzione autobiografica dantesca della “Divina Commedia”

di Gianluca Virgilio

Dalla finzione del Convivio, fondata sulla dialettica “littera”-allegoria, constatato il suo fallimento, cioè sperimentata l’impossibilità d’ogni prosieguo della fabula, l’Alighieri passa alla finzione ultraterrena della Commedia; siamo dinanzi a una radicale trasformazione della fabula, che appare inevitabile quanto necessaria, poiché l’autore prende atto che con la prosa del Convivio (ordinata, almeno nei trattati II, III e IV come commento alle canzoni) egli aveva potuto dissimulare l’antico giovanile nucleo fabulistico, ma non ne avrebbe saputo dare uno nuovo. L’erudizione aveva coperto più o meno bene l’irruenza della passione giovanile, ma alla lunga, trascorsa già l'”età fervida e passionata”, l'”età temperata e virile” avrebbe presto inaridito la sua poesia[1]. Noi abbiamo visto che il IV trattato del Convivio segnava l’abbandono della teoria dei quattro sensi d’interpretazione della poesia, vale a dire della teoria allegorica come l’Alighieri l’aveva formulata in Convivio, II, i; e abbiamo dato di quell’abbandono una spiegazione che dava ragione anche della incompiutezza dell’opera. A questo punto del percorso dantesco abbiamo individuato lo smarrimento del personaggio-Dante, che segnava la crisi profonda della finzione dantesca, foriera d’una rigenerazione che solo in un’altra opera poteva compiersi. Ora, noi sappiamo bene che, come ha detto il Petrocchi con belle parole, “nessuna floreale decorazione di lettere iniziali o ancor più nessuna complessa raffigurazione allegorica e narrativa di miniatore può riempire questa silenziosa immensità di pensiero e di sofferenze dalla quale e dopo tanto prolungarsi della quale scaturisce il primo verso della Commedia[2]; sappiamo bene, cioè, che tra Convivio e Commedia si apre uno spazio vuoto assai difficile da colmare, e che è difficile ripercorrere i passi che condussero l’Alighieri da un’opera all’altra. Eppure alcuni segnali mostrano che un legame tra le due opere esiste, e molto stretto; e questi segnali meritano di essere decifrati.

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Gaetano Minafra, Arte sacra 13. Facciata di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina

Legno. Facciata e fondo eseguiti in bassorilievo e decorati ad acquerello, cm. 70 x 70, 1985.
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“Coronato di serti e cinto di catene”: Giorgio Maniace nelle vicende di Puglia

di Paolo Vincenti

Riassunto. Nel saggio è tratteggiata la figura di uno straordinario personaggio bizantino: il Generale Giorgio Maniace (998-1043), con particolare riferimento al suo coinvolgimento nella campagna militare di Puglia. Per la sua enorme mole, per la forza fisica e l’impeto in battaglia, su di lui si è appuntata la fantasia popolare che lo ha trasfigurato in un eroe semileggendario, sorta di biblico Golia, spietato ed assetato di sangue. Su Maniace esiste una vasta bibliografia che nel saggio viene scandagliata a partire dalle fonti bizantine più antiche fino a quelle contemporanee.

Abstract. The essay outlines the figure of an extraordinary Byzantine character: General Giorgio Maniace (998-1043), with particular reference to his involvement in the military campaign in Puglia. Due to his enormous size, his physical strength and his impetus in battle, popular imagination focused on him and transfigured him into a semi-legendary hero, a sort of biblical Goliath, ruthless and bloodthirsty. There is a vast bibliography on Maniace which in the essay is explored starting from the most ancient Byzantine sources up to contemporary ones.

     Nell’estate del 1038 il Generale Giorgio Maniace era impegnato per conto dell’Impero bizantino ad espugnare la Sicilia strappandola agli Arabi. Comandava un forte corpo armato alla cui testa egli troneggiava maestoso. Georgios Maniaces, o Maniakis o Maniachès, era nato in Macedonia nel 998. Fu uno di quegli uomini speciali, destinati dalla storia a ricoprire grandi ruoli. Di statura enorme, simile al biblico Golia, entrò nella leggenda perché ben presto di lui si impossessò la letteratura scandinava. Sposò la nobildonna Teopapa, della famiglia Crisafo, proveniente dalla regione tessalo-macedonica e da lei ebbe un figlio chiamato Crisafo Maniace. Fece una brillante carriera nell’esercito bizantino grazie alle sue doti fisiche e alla tempra fuori dal comune, fino a diventare protospatario. Nel 1020 fu nominato stratego del thema di Teluch nella Tauride, al confine fra Anatolia e Siria. Un self-made man, diremmo oggi, che pur provenendo da una famiglia della piccola nobiltà locale, probabilmente siriana, raggiunse i vertici dell’esercito bizantino, divenendo Generale[1].  

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Incontri con Vincenzo Consolo (seconda parte)

di Antonio Lucio Giannone

Ma dopo i due incontri con Consolo (dei quali ho parlato nella prima parte), continuai a occuparmi della sua opera anche se questo mio interesse non si è tradotto in specifiche pubblicazioni al riguardo. In ogni caso, nell’anno accademico 2016-17, dedicai il corso monografico di Letteratura italiana contemporanea dell’Università del Salento al Sorriso dell’ignoto marinaio, del quale nel corso delle lezioni procedetti a  una lettura analitica. Inoltre assegnai una tesi di dottorato sulla produzione saggistica di Consolo alla dott.ssa Maria Teresa Pano, la quale alla fine ha pubblicato alcuni lavori sull’argomento. Infine invitai a parlare dello scrittore siciliano due tra i maggiori specialisti della sua opera, Gianni Turchetta e Irene Romera Pintor. Il primo, professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Statale di Milano, aveva curato L’opera completa di Consolo, apparsa nel 2015 nella collana dei Meridiani della Mondadori, che contiene un suo saggio introduttivo e Un profilo di Vincenzo Consolo di Cesare Segre. La seconda ha curato e tradotto due opere dello scrittore, Lunaria (2003) e Filosofiana (2008 e 2011), e ha organizzato anche vari Convegni di studio in Spagna curandone i relativi Atti. 

Il 20 aprile 2016, con la presenza di Turchetta, organizzai un’intera Giornata di studi sullo scrittore siciliano proprio in occasione della pubblicazione dell’opera completa. Al mattino, presso l’ex Monastero degli Olivetani, lo studioso tenne un seminario dal titolo “Il sorriso dell’ignoto marinaio e Le pietre di Pantalica,  Un (anti-) romanzo storico e un romanzo storico potenziale”. La sera poi, insieme allo stesso curatore e a Maria Teresa Pano, presentai il Meridiano presso la Libreria Liberrima di Lecce .

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Luigi Latino, Evanescenza


Acrilico su tela 25×20, 2024.













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Su “Le storie dello scirocco” di Paolo Vincenti

di Anna Stomeo

Le Storie dello scirocco (Besa, Nardò 2024) si svolgono ad Oppido Tralignano, una denominazione artatamente costruita dall’Autore (si noti l’esplicito assonante riferimento ai ‘tralignamenti’, alle trasgressioni dei suoi abitanti), borgo surreale, offuscato e tormentato dallo scirocco e dai suoi appiccicosi miasmi, un luogo immaginario e realistico e, perciò, virtuale, attraversato da personaggi disincantati e avidi di vita, al limite del grottesco e dell’osceno. Paolo Vincenti ne coglie tutte le sfumature, dalle più intime alle più eclatanti, e ce le racconta con l’abilità dello scrittore e la lucidità del ricercatore e del saggista. Sono questi, infatti, i tre ruoli, a cui va aggiunto anche quello di raffinato poeta, che caratterizzano, nella sua poliedricità, l’attività intellettuale feconda di Paolo Vincenti, per il quale le molteplici inclinazioni non hanno mai costituito un ostacolo operativo alla scrittura, che, egregiamente, spazia dalla ricerca storica alla saggistica, alla narrativa e alla poesia. La scrittura come dimensione essenziale dell’impegno conoscitivo e culturale di un territorio osservato con disincanto ed ironia, ma anche con spirito critico e qualche amarezza.

Come avviene specialmente in questo romanzo (che fa seguito, con uno stile più realistico e meno pulp, al precedente romanzo di Paolo Vincenti, “I segreti di Oppido Tralignano”, Agave Edizioni, 2023) , in cui si intrecciano le storie, vere e immaginate, di personaggi che obbediscono alla logica della commedia, non senza qualche sfumatura eccentrica di burlesque. Personaggi che si muovono in autonomia intorno alla figura del protagonista, Lorenzo, sedicente Scrittore Mascherato e insoddisfatto, che indossa, letteralmente, molte maschere alla continua ricerca di una soluzione ’editoriale’ ai propri fallimenti creativi, trasformando la propria vicenda in una vera e propria denuncia, indiretta, del degrado in cui versa la cultura del libro, sempre più sottomessa alle regole del mercato, che invadono, ormai, anche la sonnacchiosa e sterile provincia.

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Inchiostri 136. Ferrovia

di Antonio Devicienti


La foto è di Giovanni Chiaramonte e appartiene alla serie Nascosto in prospettiva, Stazione (2007).

Dalla ferrovia il retro delle case, gli orti, lo scarto tra scarpata e recinzioni.

Istanti subito scomparsi nella corsa: due sul terrazzo, panni stesi ad asciugare, un triciclo abbandonato.

L’andare del treno e il restare delle case e degli orti, degli alberi e dei pali.

Lo scorrere dello sguardo e il dissolversi delle case e degli orti, delle piante e degli incroci.

Un prete attende al volante la riapertura delle sbarre al passaggio a livello, un uccello spicca il volo spaventato, un sacchetto di plastica si agita impigliato a un ramo, l’ombra del convoglio si stampa sul muro di cemento, l’andare del treno è anche elenco di cose, situazioni, istanti. Vuoti. Intervalli. Cesure.

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“Carlo e Francesco Barbieri e il sodalizio con Ennio Flaiano” – San Cesario di Lecce, 19 novembre 2024


Incontro “Carlo e Francesco Barbieri e il sodalizio con Ennio Flaiano”
Si tiene martedì 19 novembre alle ore 18 , al Museo Civico di San Cesario di Lecce, l’incontro “Carlo e Francesco Barbieri e il sodalizio con Ennio Flaiano”, a cura del Centro Studi Phonè e di Astràgali Teatro.
Attraverso l’intervento del professor Antonio Lucio Giannone, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università del Salento , si ripercorre il rapporto stretto che legava i fratelli Carlo e Francesco Barbieri, originari di San Cesario di Lecce, allo scrittore e sceneggiatore Ennio Flaiano.
L’appuntamento fa parte della programmazione “Il Museo parla con la città. Percorsi di apertura del Museo Civico d’arte contemporanea di San Cesario”, rientrante nel progetto “Da qui si vede tutta la città”, finanziato con risorse del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione 2014-2020 e del Fondo Nazionale Politiche Giovanili e vincitrice del bando regionale “Luoghi comuni”, Programma delle Politiche Giovanili della Regione Puglia e ARTI.
Museo Civico – San Cesario di Lecce Ingresso gratuito
Info: 3892105991 – teatro@astragali.org – www.astragali.it
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Seminario sull’autonomia differenziata – Comune di Avetrana (TA), 12 ottobre 2024

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Manco p’a capa 229. Una democrazia da scolari di seconda media

di Ferdinando Boero

In democrazia la maggioranza vince, ma non è detto che faccia la scelta giusta. Molti, troppi votanti tendono a credere a chi dice loro quel che vogliono sentirsi dire; mantenere i propositi, poi, è opzionale. Se non si riesce si incolpano gli altri: io avrei tanto voluto, ma non me lo hanno lasciato fare. E così chi fa false promesse continua ad aver credito.
La verifica dei fatti smaschera chi abusa della credulità popolare. Chi si propone dovrebbe produrre una tabella di marcia che dichiari la tempistica del mantenimento degli obiettivi, in modo da verificare se siano stati raggiunti. Un candidato con un tasso del 10% di raggiungimento degli obiettivi dovrebbe essere ritenuto non idoneo a governare, rispetto a chi ha raggiunto il 40%. Se ce ne fosse qualcuno con l’80% non ci dovrebbero essere dubbi. Da chi vi fareste operare? Da un chirurgo che ha il 10% di successi o da chi ha l’80%? Per il vostro bene vi dovrebbe essere impedito di scegliere il dr 10%.
Fosse così semplice! Nel nostro paese l’evasione fiscale è galoppante: ci sono tantissimi evasori fiscali. Se un politico favorisce gli evasori con ripetuti condoni, e definisce le tasse un’estorsione di stato, gli evasori lo sceglieranno. E se gli evasori, il suo elettorato di riferimento, sono tantissimi (da noi lo sono) vincerà le elezioni democratiche. Soprattutto se i fessi che pagano le tasse saranno così fessi da non andare a votare i partiti che non fanno condoni.

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All’ombra delle lettere in fiore …

di Antonio Prete

                                                                         per Gérard Macé

               Le sibilanti vestivano la voce di mia madre, erano le gemme della sua collana. Pali luminosi per l’altalena delle vocali : un frusciare di venti, e il racconto era la vela nel mare della sera, quando seduto su un muricciolo, dinanzi alla persiana verde, ascoltavo le storie che venivano dall’Oriente, le storie che avevano attraversato terre e mari e avevano portato con sé il profumo delle lingue incontrate nel loro peregrinare. Quel profumo diventava l’onda sulla quale riandavo verso quelle terre, verso quei mari, mentre la voce saliva e scendeva nella sua musica, dilatava una vocale fino a farla diventare una nuvola, e si abbracciava al suono d’una consonante come a un tronco d’albero per riposarsi dopo il  cammino. Quella voce scendeva e correva  nei miei pensieri come l’acqua nel solco delle zolle secche, si spandeva fino alle radici dell’esile pianta, così quei racconti me li sono portati con me insieme con quella voce, che era grana e respiro e vento delle parole, delle storie fatte di parole.

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Fototessere

di Paolo Vincenti

Da vecchi cassetti polverosi salta fuori una mia fototessera scattata in una cabina londinese in un viaggio di troppi anni fa. Ero poco più che un adolescente alla scoperta del mondo e infatti il mio sguardo allucinato, nello scolorito reperto, testimonia tutto lo sconcerto misto all’entusiasmo di trovarsi nella megalopoli inglese. Del resto, avevo appena diciott’anni e di viaggi, fino ad allora, ne avevo fatti molto meno dei miraggi. Roma in gita scolastica di terza media, forse qualche Zoo Safari di Fasano e Grotte di Castellana o al massimo sassi di Matera, e Budapest alla gita dell’ultimo anno di liceo. Poca roba, proprio il minimo sindacale, davvero miseri viaggetti. Appena in culla, i miei figli ne avevano già fatti di più.

Comunque la fototessera, definita la madre di tutti i selfie, è ormai un residuato bellico. Oggi, le vecchie polverose cabine, un tempo note come Photomaton, divenute digitali e high tech, sono gestite da un’azienda italiana, la Dedem, di Ariccia (Roma), che produce e distribuisce le macchinette in tutta Europa e nel mondo. Le foto vengono inviate dal telefonino e stampate direttamente dalla cabina in pochi secondi (contro i tre minuti che ci impiegavano quando le utilizzavamo noi boomers), con grande comodità e utilità. Ora, saranno le foto high tech più belle rispetto alle vecchie foto analogiche? O non reggono il confronto? Probabilmente ognuno risponderà in base all’anagrafe. I ragazzini della generazione zeta si faranno una risata già alla domanda. I più stagionati come me saranno nel dubbio fra la morsa della analogica nostalgia e l’innegabile efficienza e la maggiore praticità del digitale. Gli amatori, i collezionisti e i cacciatori di memorabilia si pronunceranno certo a favore delle foto analogiche per quel romantico sapore di vintage. Io credo che non si possa fare un confronto fra le vecchie ingiallite foto e quelle scattate dallo smartphone. Si tratta di categorie del tutto diverse. Le fototessera poi, occupano un settore di nicchia, certo meno battuto rispetto a quello più vasto delle fotografie propriamente dette e a quello artistico delle foto d’autore. Ogni fotografia è un oggetto di senso, generato dal rapporto fra l’occhio e la mente, secondo la prospettiva semiotica di Jean-Marie Floch, ossia istituisce un rapporto di scambio fra fotografo e fotografato. La foto d’arte ha come valore aggiunto una plurisemanticità del messaggio visivo. Invece, la fototessera non è dinamica, in essa non c’è mediazione umana, men che meno artistica, e si rinuncia a qualsiasi montaggio o interpolazione da parte di un operatore che ci scatti una fotoritratto. Non a caso, la fototessera è utilizzata quasi esclusivamente per scopi istituzionali (carta d’identità, patente, passaporto), attiene quindi a quell’ambito così poco creativo che è la burocrazia nelle cui maglie tutti siamo attanagliati ogni giorno. Una volta però, e la mia foto londinese è lì a confermarlo, essa poteva avere anche uno scopo ludico, senza alcuna utilità pratica.

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Marcello Toma, Nemesi


Olio su tela, 70×50 cm, 2022.
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Perché conviene potenziare il sistema portuale meridionale

di Guglielmo Forges Davanzati

Uno dei più importanti economisti meridionalisti del primo Novecento, Francesco Saverio Nitti, deputato dal 1904, Presidente del Consiglio dei Ministri nel biennio 1919-1920, ebbe a scrivere che sarebbe un’”illusione pericolosa” quella di ritenere che il Mezzogiorno possa svilupparsi come un “grande albergo o un grande museo”. Nitti fu estensore della legge speciale su Napoli del 1904 che diede vita a un ampio programma di industrializzazione della città e dei territori circostanti, a partire dalla nazionalizzazione della produzione di energia elettrica.

La posizione teorica e politica di Nitti, riassumibile nella convinzione che lo sviluppo economico del Mezzogiorno debba essere guidato dall’industria e soprattutto dall’industria di Stato, è stata alla base dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, a partire dal 1950, gradualmente abbandonato fino al definitivo superamento nel 1992.

La svolta liberista dei primi anni Novanta, e dunque lo smantellamento dell’economia mista, dell’impresa pubblica e del Welfare pubblico, ha determinato una radicale inversione di tendenza nelle politiche perequative che si prolunga fino ai giorni nostri e che ha generato non pochi danni. In particolare, la reiterazione – negli ultimi trent’anni – di misure di privatizzazione, di precarizzazione del lavoro e di austerità fiscale ha prodotto questi risultati:

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Parole, parole, parole 36. Non è mai troppo tardi

di Rosario Coluccia

Anniversari. Alle 11 del 3 gennaio del 1954, settant’anni fa, la presentatrice Fulvia Colombo lesse dagli studi Rai di Milano il messaggio di inaugurazione delle trasmissioni televisive del Programma Nazionale, l’attuale Rai 1. Fu il punto di arrivo di un processo di sperimentazione faticoso, cominciato più di vent’anni prima e interrotto dalla seconda guerra mondiale. Nel giorno di esordio i televisori accesi (ovviamente in bianco e nero) furono in tutto ottantamila, e gli abbonati non superarono le ventimila unità, anche a causa degli alti costi del servizio: all’epoca il prezzo medio di un televisore era vicino al costo di un’automobile e sfiorava le dodici mensilità del reddito di un impiegato. Inizialmente i programmi duravano quasi quattro ore e la pubblicità non esisteva. Le trasmissioni iniziavano alle 17.30 con «La Tv dei ragazzi», centrale era il telegiornale delle 20.45, alle 23 tutto chiudeva.

Cento anni fa, il 3 febbraio 1924, nasceva Alberto Manzi, figura che, grazie alla trasmissione televisiva da lui condotta, si conquistò una straordinaria popolarità negli anni Sessanta del secolo scorso. Quella trasmissione si chiamava Non è mai troppo tardi e si rivolgeva ad adulti analfabeti per insegnare loro a leggere e scrivere: «Corso di istruzione popolare per adulti analfabeti», così recitava la didascalia che accompagnava il titolo. Iniziato il 15 novembre 1960, il programma andò in onda in diretta alle 18 di ogni martedì, giovedì e venerdì; terminò nel 1968. L’Italia del tempo, uscita da poco dalla guerra, era afflitta da percentuali di analfabeti mediamente superiori all’80%. L’inaccettabile analfabetismo comportava condizioni economiche miserrime per popolazioni in larga maggioranza contadine. Pochissimi sapevano parlare e scrivere l’italiano e, in una vita tutta chiusa in ambiti angusti, comunicavano per lo più oralmente e quasi esclusivamente in dialetto, in uno dei tanti dialetti della penisola, dal Piemonte alla Sicilia.

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Bodiniana secunda

di Antonio Devicienti

(bodiniana secunda 1) il palmizio e la chiesa del Rosario

(NOTA: queste brevi prose ispirate all’opera di Vittorio Bodini presuppongono che chi legge abbia dimestichezza con i libri del poeta – è questo il motivo principale per cui non si forniscono note esplicative e/o di carattere bibliografico. Aggiungo che ogni prosa è stata concepita quale reverente, ammirato omaggio al poeta salentino).

Mentre ci si avvicina a una delle porte dove sembra che Lecce stia per finire (oltre ci sono i viali e c’è un’altra Lecce) la mente ricapitola passi e stratificazioni di passi, cieli scorti tra i cornicioni e stratificazioni di cieli che nulla hanno a che fare col tempo aritmetico dell’orologio.

Il Rosario, che prelude a Porta Rudiae, i palmizi scorti attraverso anditi occasionalmente aperti (innumeri sono i giardini nascosti di questa città) – ma anche viceversa: il Rosario, primo splendore che s’incontra entrando attraverso Porta Rudiae e i palmizi pù o meno celati, tutto questo già contiene, in nuce, la città.

Raramente pensiamo che siamo soltanto gli ultimi di molte generazioni che hanno abitato stanze e animato strade, pregato in chiese fatte non soltanto di pietra porosa e reattiva alla luce, ma anche di tempi del vivere che, patine sottilissime, affiorano nelle pagine dei poeti.

Il palmizio e la Chiesa del Rosario. 

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Citazioni 26. Intelligenza artificiale


Affresco eseguito da assistente (Rinaldo?) su disegno di Giulio Romano, Pasifae entra nella mucca costruita da Dedalo, Palazzo del Te, sala di Psiche, parete est, Mantova, 1528.

Nel mito di Pasifae, la donna che si fa costruire da Dedalo una vacca artificiale per potersi accoppiare con un toro, è lecito vedere un paradigma della tecnologia. La tecnica appare in questa prospettiva come il dispositivo attraverso cui l’uomo cerca di raggiungere – o di raggiungere nuovamente – l’animalità. Ma proprio questo è il rischio che l’umanità sta oggi correndo attraverso l’ipertrofia tecnologica. L’intelligenza artificiale, alla quale la tecnica sembra voler affidare il suo esito estremo, cerca di produrre un’intelligenza che, come l’istinto animale, funzioni per così dire da sola, senza l’intervento di un soggetto pensante. Essa è la vacca dedalica attraverso la quale l’intelligenza umana crede di potersi felicemente accoppiare all’istinto del toro, diventando o ridiventando animale. E non sorprende che da questa unione nasca un essere mostruoso, col corpo umano e il capo taurino, il Minotauro, che viene rinchiuso in un labirinto e nutrito di carne umana.

Giorgio Agamben, Il toro di Pasifae e la tecnica, in Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben, dell’ 8 luglio 2024

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Incontri con Vincenzo Consolo (prima parte)

di Antonio Lucio Giannone

Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, Messina, 18 febbraio 1933 – Milano, 21 gennaio 2012) è uno dei maggiori scrittori italiani della seconda metà del Novecento. Dopo aver esordito con il romanzo La ferita dell’aprile (1963) si è imposto all’attenzione di pubblico e critica con Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), considerato il suo capolavoro. Poi ha pubblicato, fra l’altro, il lavoro teatrale Lunaria (1985), Retablo (1987), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo casa per casa (1992), Lo spasimo di Palermo (1998), oltre a saggi, articoli, prose memorialistiche.

Ho avuto il piacere di presentare due libri di e su Consolo, entrambi con la presenza dello scrittore. La prima volta è stata nel 2003, allorché presentai Oratorio, un volumetto pubblicato con l’editore Manni di Lecce. L’incontro si svolse a Calimera il 12 aprile di quell’anno, nell’ambito di una rassegna libraria.

Oratorio comprende due scritti: Catarsi e L’ape iblea. Elegia per Noto. Il primo è un testo teatrale, un atto unico composto per il Teatro stabile di Catania nel 1989 e rappresentato in quella stagione insieme ad altri due lavori di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, compresi sotto il titolo unitario di Trittico. Il secondo è un testo per musica, composto per il musicista Francesco Pennisi che a sua volta aveva ricevuto l’invito di una composizione musicale da parte dell’Orchestra della Toscana e di Radiotre. La composizione venne eseguita nel 1998 al Teatro Verdi di Firenze. E il titolo del volumetto, Oratorio, vuole alludere appunto alla forma particolare in cui sono stati rappresentati questi due testi, senza cioè allestimento scenico.

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