di Antonio Lucio Giannone
A poco più di un anno dalla fine del secolo (e del millennio), si cominciano a fare i primi bilanci e a tracciare panorami del Novecento nei più diversi settori. Queste operazioni comportano notevoli rischi, perché il tempo, come si sa, ribalta spesso i giudizi e sconvolge le prospettive, anche quelle più assodate. Sarà forse per questo che Cesare Segre, in un recente volumetto (La letteratura italiana del Novecento, Bari, Laterza, 1988), mette in un certo senso le mani avanti, dichiarando che il suo non vuole essere né un bilancio né una storia della letteratura novecentesca, ma soltanto un tentativo di fissare “alcuni punti chiave” di questo secolo, secondo la sua personale prospettiva.
Per chi conosceva, e apprezzava, Segre come un critico attento prevalentemente agli aspetti formali di un testo letterario, questo libro rappresenta senza dubbio una sorpresa. Qui l’elemento formale è solo uno dei criteri che guidano le scelte dell’autore. Accanto a quello, come egli stesso chiarisce, ci sono il criterio morale, che incide a volte pesantemente sulla valutazione (come nel caso del futurismo), e quello comparatistica, che implica il raffronto con gli scrittori contemporanei stranieri. Costante inoltre è il rapporto che egli stabilisce tra vicende letterarie e vicende storiche dell’Italia contemporanea. L’interesse maggiore del libro non sta tanto però, a nostro avviso, nel quadro d’assieme, che non si discosta molto dalla visione ampiamente consolidata del Novecento letterario, ma proprio nelle personali preferenze dell’autore, che emergono con chiarezza attraverso i giudizi e certe icastiche definizioni.
Quali sono allora gli scrittori italiani di questi ultimi cento anni che rientrano nel ‘canone’ di Segre, quella “dozzina” che lui ritiene “incontestabili”? Proviamo a fare dei nomi. Dopo Pascoli e D’Annunzio, che sono giudicati due “innovatori” in un periodo di transizione, Svevo è considerato il “massimo scrittore dell’anteguerra”, mentre Pirandello è apprezzato più come novelliere e drammaturgo che come romanziere. Nel periodo tra le due guerre, a prevalere è la poesia, ma si affermano anche importanti narratori, come Moravia, su cui Segre esprime però qualche riserva (“l’intelligenza è il tratto caratterizzante Moravia; anche a scapito dell’arte”) e soprattutto Gadda, che “giganteggia fra i narratori di metà Novecento” e “si lega al grande romanzo europeo”. I massimi esponenti della poesia, in questo periodo, invece sono tre: Ungaretti, che dopo aver operato, con L’Allegria, un’“estrema scarnificazione del discorso”, ritorna poi alle forme e a i metri della tradizione; Saba, per il quale “tanta semplicità è una conquista”; Montale, del quale “il tratto caratterizzante è la prospettiva cosmopolita”.
Nel secondo dopoguerra poi si affermano definitivamente narratori come Pavese e Vittorini, ai quali si deve, negli anni Trenta, la scoperta della letteratura americana, mentre si fanno conoscere Fenoglio, Bassani, Primo Levi e soprattutto Calvino, di cui Segre sostiene. la “centralità” nel secondo Novecento, con espressioni di grande ammirazione (“Il problema della lingua […] è risolto dall’eleganza e dal gusto istintivo di Calvino, il cui italiano è musicale e limpido, raffinato senza preziosismo: una grazia incomparabile”). Un posto a parte occupa Pasolini, apprezzato oltre che come narratore, anche come poeta in dialetto e in lingua, critico, giornalista “coraggioso, incisivo e potente”, mentre tra i poeti postmontaliani spiccano Luzi, Sereni e Zanzotto.
Non essendo un repertorio, non si può richiedere ovviamente l’esaustività da questo panorama, ma certe assenze colpiscono ugualmente. Per il primo Novecento, nel complesso un po’ trascurato, passi pure la mancanza di poeti come Lucini, Govoni, Onofri e Sbarbaro (citato solo indirettamente per Montale), ma quella di Clemente Rebora, la cui esperienza lirica è una delle più intense e brucianti del secolo, ci sembra difficilmente giustificabile.
Così pure, purtroppo, bisogna registrare la totale eliminazione di un’intera linea, quella dei narratori e dei poeti meridionali, che da Alvaro, Silone, Jovine e Bernari arriva fino a Bodini e Scotellaro, i quali hanno avuto tutti il merito (o il torto, forse, è il caso d i dire a questo punto) di porre al centro dell’attenzione, non solo letteraria, il Sud e i suoi problemi, allo stesso modo di un intellettuale settentrionale come Carlo Levi, che invece è, giustamente, citato. Tutto ciò ci convince sempre più della necessità di una considerazione geografica, oltre che storica, della letteratura italiana, anche contemporanea, se si vuole dare un quadro più completo e obiettivo della situ azione.
Al di là, comunque, delle scelte e dei giudizi, a volte opinabili, particolarmente stimolanti ci sono sembrate alcune osservazioni di Segre su certi fenomeni che caratterizzano la nostra epoca: il rapporto tra letteratura di qualità e letteratura di consumo, che spesso si risolve a favore della seconda, anche se non mancano esempi di best-seller di pregio (un nome per tutti, quello di Eco); la rivoluzione massmediologica, che sta distruggendo la cultura tradizionale; la crisi degli intellettuali, spiazzati dall’affermarsi della civiltà multimediale e dallo strapotere dei media, soprattutto della televisione.
Qual è dunque, in un contesto siffatto, il destino della letteratura? Si tratta di una crisi irreversibile o la letteratura può svolgere ancora una funzione importante nella nostra società? A queste domande Segre risponde che anche la letteratura può fare ancora la sua parte, “per certi aspetti decisivi”, contribuendo a “battersi per lo sviluppo di un senso critico che da solo sarebbe sufficiente per sottrarsi al terribile degrado che ci minaccia tutti”. E una simile affermazione non si può che condividere integralmente.
[Le scritture del testo, Lecce, Milella, 2004]
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