di Adele Errico
Il pomeriggio del primo giorno di febbraio il Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria di Pavia si è fatto luogo di una narrazione appassionante, è divenuto custode di una storia, quella di Luca e Mattia, padre e figlio raccontati dalla scrittura di Paola Turroni nel romanzo Ti dico la verità (Edizioni Lindau, Torino 2018), percorso di amore e di crescita nel superamento di un lutto per la perdita di una moglie e di una madre. L’autrice, rispondendo a delle domande, ha affrontato alcuni dei profondi significati del romanzo.
Il ruolo della scrittura, in Ti dico la verità, sembra quello di strumento che trasforma l’assenza in presenza, che innalza una storia di vita quotidiana a letteratura, a monumento alla memoria perché non si dissolva con il trascorrere del tempo. Secondo quali dinamiche la letteratura assume questo ruolo?
Questo romanzo nasce innanzitutto dall’esigenza di Luca di raccontare la sua storia, nasce come biografia personale che, però, diventa testo nel momento in cui è un’altra persona a raccontarla, facendosi inevitabilmente storia universale. Questa vicenda si stacca, gradualmente, dall’esperienza personale di Luca per diventare la storia di ciascun lettore: ognuno troverà in questa narrazione il proprio senso. E’ questo il ruolo della letteratura che quasi sempre trae ispirazione da qualcosa di reale, anche quando inventa. La letteratura è traduzione dell’individuale in concetto universale, perché ognuno possa scoprire tra le righe di un racconto un po’ di sé.
L’amore è un elemento costante di questa narrazione. In che modo una storia di dolore diventa storia d’amore?
L’amore è alla base di questa vicenda drammatica. Si potrebbe ricorrere ad una metafora: è come se l’amore costituisse le fondamenta di una casa, sopra le quali i tre protagonisti, Mattia, Luca e Viviana, hanno provato a costruire ed è come se improvvisamente un terremoto, la morte di Viviana, avesse distrutto la casa, creando un’immensa voragine, la voragine del dolore. Ma il terremoto non ha distrutto le fondamenta. L’amore, risoluto, ha resistito, è rimasto, permettendo di dare spazio al dolore, un dolore che non è stato nascosto, di cui non si ha avuto paura, un dolore al quale è stato dato un nome, si è imparato ad affrontarlo, attraversarlo, gestirlo. Amore e dolore, in questa vicenda, sono complementari, l’uno sostiene l’altro.
I rapporti tra genitori e figli, la perdita e il lutto, la memoria di un genitore preservata nel racconto dell’altro, sono spesso stati tòpoi della letteratura, penso a Penelope che racconta a Telemaco di un padre lontano da casa da vent’anni. C’è un precedente letterario a cui può essersi ispirata?
E’ probabile che, anche istintivamente e inconsciamente, possa essermi sovvenuta la figura di una Penelope madre che parla al figlio di Ulisse, dal momento che Penelope è un personaggio di cui ho avuto modo di scrivere, però posso citare un libro che, in realtà, non avevo in mente prima di iniziare a scrivere. Tuttavia, mi sono resa conto, mentre scrivevo, di come in qualche modo il pensiero di questo libro mi attraversasse emotivamente: “La strada” di Cormac McCarthy. Credo che il rapporto tra padre e figlio descritto in quel libro mi abbia decisamente aiutata.
Mi ha colpita una frase pronunciata durante la presentazione: “ogni essere umano è un abisso”. Come si può attraversare questo abisso?
E’ una sensazione: è come se nel momento in cui ci si accosta ad una persona e la si conosce sempre meglio, ci si renda conto della profondità che questa persona ha dentro di sé. Più ci si avvicina a qualcuno, più si scopre quanto abbia dentro. Ma non c’è una fine, non si smette mai di scoprire, è un abisso, appunto, un pozzo di cui non si vede il fondo. Ed è soprattutto nel dolore che si dà spazio e adito all’abisso, ci si libera di ogni maschera. Ognuno di noi cammina sul proprio abisso, e quando lascia che chi gli è vicino ne varchi la soglia, la sensazione che l’altro prova è forte, è come precipitare.