di Guglielmo Forges Davanzati
E’ noto che la disoccupazione giovanile in Italia si assesta intorno al 40% e in alcune regioni, soprattutto del Mezzogiorno, supera il 60%. E’ anche noto che, nonostante le politiche di sottofinanziamento delle Università, gran parte di questa popolazione ha un livello di istruzione molto alto, ed è anche noto che la disoccupazione giovanile in Italia dipende in larghissima misura dal fatto che la gran parte delle nostre imprese – di piccole dimensioni, poco innovative – non necessita di manodopera altamente qualificata. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno impostato le loro politiche formative finalizzandole al depotenziamento della qualità dell’offerta di lavoro. E le hanno legittimate con la retorica dei giovani bamboccioni, choosy, non ‘occupabili’, quasi collocati in un limbo idilliaco di ozio a spese dalle loro famiglie: più tecnicamente è il welfare familiare – troppo generoso – a frenare la ricerca di lavoro. Fra le tante dichiarazioni in tal senso, merita di essere ripresa quella rilasciata dal prof. Andrea Ichino – uno dei più accreditati economisti italiani, rilasciata al Resto del Carlino. Traendo spunto da un episodio di cronaca – i pochi candidati a un’offerta di posto di lavoro di Rayan Air – il docente non esita a proporre la sua diagnosi, con le seguenti parole: “eppure se prima della notizia di oggi avrei detto che i giovani bolognesi, grazie alle tutele familiari, non sono disposti a muoversi per cercare lavoro lontano da casa come normalmente accade in altri Paesi, il caso di Ryanair mi segnala un problema ancor più profondo: il welfare familiare addirittura frena la ricerca di un lavoro, perfino quando viene offerto sulla soglia di casa” .
Si sorvoli pure sull’uso disinvolto del congiuntivo e ci si chieda: Perché, dunque, tanta acrimonia nei confronti delle giovani generazioni?
Una ragionevole risposta risiede nella considerazione del fatto che, essendo mediamente molto istruiti, i giovani italiani tendono a rifiutare offerte di posti di lavoro in condizioni di sottoccupazione intellettuale, ovvero tendono a rifiutare di svolgere mansioni di livello inferiore rispetto a quelle acquisite a scuola o in Università. Il che confligge con l’obiettivo degli economisti che a vario titolo sono consulenti del MIUR, dal momento che il loro obiettivo è fondamentalmente quello di depotenziare la qualità dell’offerta di lavoro per generare moderazione salariale: o meglio, per accentuarla, al fine di rendere “occupabile”, a qualunque condizione, la forza-lavoro giovanile. In tal senso, la dichiarazione del prof. Ichino è rilevante e significativa per interpretare le apparenti follie delle politiche formative italiane. Sono apparenti follie dal momento che, in modo del tutto controintuitivo, riducono fondi alla ricerca scientifica, laddove la gran parte della ricerca economica stabilisce che la ricerca scientifica – e i flussi di innovazione che fanno seguito – costituisce il principale motore della crescita economica. Ma sono appunto follie apparenti, perché – nel modello implicito di Ichino et al – la crescita economica è trainata da bassi salari. I bassi salari accrescerebbero la competitività di prezzo delle nostre imprese, aumentando le esportazioni e attrarrebbero investimenti. Vi sono due MA. Innanzitutto le esportazioni italiane non aumentano via competitività di prezzo, o almeno non solo per quello. In altri termini, sono poche le imprese italiane che esportano e quelle che esportano lo fanno per l’elevata qualità del prodotto, non perché il prezzo è basso (si pensi ai beni di lusso). La qualità del prodotto è una variabile altrettanto rilevante, se non più rilevante del prezzo. In secondo luogo, la compressione dei salari – oltre a comprimere la domanda interna, generando fallimenti e riduzione dell’occupazione soprattutto al Sud e soprattutto riferita ai giovani – non attrae investimenti. Su fonte Banca d’Italia, gli investimenti diretti esteri in Italia hanno un saldo netto negativo e sono molto differenziati fra Regioni: sono cioè maggiori i flussi di capitale in uscita rispetto a quelli in entrata. Cosa che può essere spiegata adducendo numerosi fattori, fra i quali la diffusa presenza della criminalità organizzata.
E c’è poi un problema, anzi IL problema. Anche se il modello non funziona, occorre reiterarlo forse perché un giorno funzionerà (e in quel giorno i disoccupati saranno di lungo periodo e, per effetti di isteresi, non più occupabili) e per farlo funzionare – o per sperare che funzioni – bisogna convincere i nostri giovani nullafacenti a lavorare. L’Italia del prof. Ichino non può permettersi tanta disoccupazione volontaria!
perfetto. L’essere vitelloni o mammoni non è il prius, ma il posterius. Può darsi che ci siano delle abitudini di tipo culturale, ma anche queste potrebbero essere combattute con politiche sociali appropriate. Detrazioni fiscali per le imprese che assumono giovani laureati o altrimenti specializzati. Analoghi aiuti a imprese che fanno una politica occupazionale che incoraggia il rientro dall’estero. Insomma tutto il contrario di quello che avviene da noi. Però c’è una questione cruciale, che noi vecchi non abbiamo pagato entrando nel mercato del lavoro alla fine degli anni Sessanta: e cioè che l’università offriva opportunità di lavoro che adesso non ci sono. Il soggetto pubblico come occupatore in ultima istanza degli scritti di Federico Caffè…
Povero Federico, se ci sei batti un colpo.
Caro professore,
grazie per aver dedicato attenzione a questo mio articolo. L’idea che
il soggetto pubblico sia il datore di lavoro di ultima (ma forse anche
di prima?) istanza mi convince in pieno. Le detrazioni alle imprese
meno, almeno perché, per quanto ne so, non hanno funzionato in modo
significativo, a volte per niente – v. p.e. il tentativo del governo
Letta di incentivare via sgravi fiscali l’assunzione di dottori di ricerca.
Cari saluti
Guglielmo