Francesco Politi e l’universalità della poesia

di Gigi Montonato

22 anni fa, il 20 aprile del 2002, si spegneva a Roma Francesco Politi, germanista e poeta, traduttore e docente universitario, direttore dell’Istituto di Cultura Italiano a Monaco di Baviera e promotore culturale, conferenziere e dirigente di comitati della “Dante” in Italia e in Europa. Aveva 94 anni, essendo nato a Taurisano nel Salento il 14 settembre del 1907. Il suo motto per significare l’universalità della poesia, in senso temporale e spaziale, era “E ccuntine puru iddi comu nui…” (e parlano pure loro come noi). “Iddi”, i grandi, i sommi della poesia. In dialetto, perché la poesia si esprime in ogni lingua. In dialetto, perché ogni lingua può esprimere poesia.

Nell’antologia “Orfeo. Il tesoro della lirica universale”, 2102 pp., curata da Vincenzo Errante ed Emilio Mariano nel 1974 (sesta ed.), per la Sansoni, Politi è tra i più presenti con sue traduzioni: 37 poeti, 72 brani. In prevalenza poeti tedeschi e inglesi, ma anche rumeni e ungheresi (Eminescu e Petöfi). Tra i suoi cavalli di battaglia i poeti del Minnesang, per i quali pubblicò con Laterza un saggio, “La lirica del Minnesang”, nel 1948, tramite il via di Benedetto Croce, all’epoca consulente editoriale della casa editrice barese. E poi Friedrich Schiller, di cui tradusse il dramma “Maria Stuart” pubblicato con Milella nel 1988, riprendendo una precedente pubblicazione del 1960; i sonetti di William Shakespeare nel 1952 con Chiantore; John Keats nel 1952 con Garzanti; Joseph Weinheber nel 1963 con Malfasi;  Hans Carossa nel 1970 per l’Italienisches Kulturinstitut. E ancora, traduzioni in prosa: “L’ombra di Pietro Ohle” di H. F. Blunck nel 1944 con Guanda; “Il faggio degli Ebrei” di Annette von Droste-Hülshoff nel 1987 per la Salerno, la prestigiosa casa editrice diretta da Enrico Malato. Ma un’infinità di altre sue traduzioni è disseminata in numerose antologie scolastiche del ‘900, prima che i criteri di traduzione mutassero nella resa prosastica e rispettosa della filologia. Politi prediligeva di un testo poetico la traduzione come ricreazione, nel rispetto dell’ispirazione, del pathos, del brio, del Geist dell’autore, in una fusione poeta-traduttore.

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Emilio Filieri, “… fia salute…”. Fra Dante, Barocco e Lumi. Avvertenza

di Emilio Filieri

La prima parte dantesca presenta subito la figura di Camilla, che Dante introduce (vv. 106-108) nel primo canto dell’Inferno: la vergine guerriera che guidò i Volsci contro i Latini, già protagonista nell’Eneide, è il riferimento femminile significativo per la ‘nazione’ dal divin poeta coltivata nei suoi scritti. Camilla segue nei versi l’immagine del Veltro (Inf., I 100-105), che l’esule delinea con linguaggio oscuro e sibillino, vero crocevia per riferirsi a un potente rinnovatore, in grado di imprimere la necessaria svolta di rigenerazione. Nel secondo capitolo la riflessione critica accompagna Mario Marti sui due Guidi fra l’iniziale sodalitas di Dante con Cavalcanti nell’elitario cenacolo dei nuovi poeti fiorentini, nella scia di Guinizzelli; ma la coscienza critica militante spinge Dante a un grado superiore di svolgimento, anche nei confronti dello stesso Cavalcanti che, in greve “pesanza” sotto i colpi di Amore, con pari energia poetico-speculativa si oppone radicalmente al pensiero dantesco, sino alle scelte civili e politiche. Nel terzo capitolo, fra le intense figure femminili della Commedia, le donne del Purgatorio sembrano costituire una schiera peculiare e tra loro, nello specifico, una si presenta avvolta da significati plurimi: è l’enigmatica Matelda, la donna pura di natura e felice del sublime piacere originario. Traluce la peculiarità della coscienza del peccato e l’ascesa, in liturgia solidale, fino al Paradiso terrestre è condivisa, con la fede nella vittoria sul male.

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Manco p’a capa 196. Il meteorite siamo noi!

di Ferdinando Boero

Le richieste di boicottaggio di accordi tra università italiane e straniere hanno portato alla ribalta le tecnologie duali, a doppia finalità: una civile, molto sbandierata, e una militare, sottaciuta. Non è una novità. I fisici avevano ben altri fini che costruire un ordigno di annientamento. Scoprire i segreti dell’atomo è un’impresa scientifica epica: può darci energia per scopi civili ma si presta anche alla costruzione di bombe atomiche.
L’Iran ha moltissimi combustibili fossili, non ha problemi di produzione di energia e non credo che abbia grande sensibilità ambientale. Non ha bisogno di affrancarsi dai combustibili fossili, visto che li vende, ma ha un programma nucleare. Che se ne fa delle centrali? Azzardo un’ipotesi: arricchisce l’uranio per fare bombe atomiche. La Francia ha la bomba, e tante centrali, e così anche gli altri paesi “atomici”. Il nucleare sarà sviluppato più con finalità civili (energia “pulita”) o con finalità militari (bombe atomiche)? Di solito i nuclearisti non tirano fuori la bomba quando ci spiegano i miracoli del nucleare. Il che mi insospettisce un pochino.
La stessa cosa, forse, avviene con la ricerca spaziale. Spesso si fa lanciando razzi che, volendo, possono veicolare bombe di vario tipo, e sui satelliti si possono installare strumenti potentissimi di osservazione. Studieranno solo l’ambiente, o serviranno per identificare obiettivi militari? A chi esprime dubbi si mostrano i benefici che derivano dalla ricerca spaziale. E io sono assolutamente d’accordo, però se qualcosa viene sbandierata e qualcosa viene sottaciuta, mi insospettisco.

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Conferenza di Antonio Lucio Giannone, Vittorio Bodini fra Sud ed Europa – Galatina, 8 novembre 2010

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Gaetano Romano di Casarano, poeta e intellettuale impegnato sul campo

di Paolo Vincenti

Nella cultura salentina fra i due secoli Ottocento e Novecento, un posto non secondario occupa Gaetano Romano (1883-1910), poeta e giornalista di origine casaranese. Dell’intellettuale, prematuramente scomparso, si occupa Fabio D’Astore con Gaetano Romano tra letteratura e impegno civile, per Milella edizioni[1], volume pubblicato con il contributo dell’Amministrazione Comunale di Casarano. Ben pochi probabilmente si ricordavano di Romano nella sua città natale. Non a caso il volume viene pubblicato nella benemerita collana di Luigi Marrella “I Quaderni di Kèfalas e Acindino”, che negli anni scorsi ha sottratto alle nebbie dell’oblio personaggi casaranesi degni di nota come Giuseppe Pacella[2], Adele Lupo[3], Giovanni Valente[4], solo per citarne alcuni. Gaetano Romano appartiene a quella seconda generazione di poeti dialettali salentini per i quali il versificare non si pone come estemporanea quanto genuina espressione di sé manifestata in modi spiccioli e con toni naif, bensì assume una certa valenza letteraria. Il canzoniere poetico di Romano, in buona sostanza, stando ai parametri letterari codificati dalla critica specializzata e richiamati in premessa dal curatore del libro, si caratterizza come un prodotto di notevole portata, lontano dal mero spontaneismo che aveva caratterizzato la stagione poetica salentina in vernacolo precedente e coeva di Romano e che continuerà a caratterizzare buona parte di quella a lui successiva.

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Ricordo di Antonio Mele / Melanton

di Gianni Vergine

La prima copertina disegnata da Antonio Mele / Melanton

” Ma come diavolo fa?…” “Chi gli guida la mano, lu sciacuddhri?”
” None, quale sciacuddhri…ci sape quale santu ede, ca stè scusu inthru a ddhra matita…”.
Più o meno erano questi i toni che io, poco più che adolescente, ascoltavo durante
le riunioni del comitato di redazione de ” La Civetta “, il giornale che veniva pubblicato
in occasione del Veglione della Stampa.
A me piaceva molto mettermi in un angolo e partecipare, in assoluto silenzio,
a quelle serate in cui, oltre che del Veglione, si metteva a punto l’organizzazione
della Civetta, pubblicazione iconica del Carnevale Galatinese.
Ero reduce da qualche disegno fatto per i giornali d’istituto, alle Scuole Medie e al Liceo, niente di importante, sia ben chiaro, e il vedermi al cospetto di “professionisti”, di quelli che “sapevano fare” un giornale, bbeh, mi faceva sentire un privilegiato.

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La nuda vita. Congedo

di Gianluca Virgilio



Albrecht Durer, Autoritratto, Matita su carta, 1522, 40.8×29 cm.

Per una volta, in conclusione, lasciamo che sia la penna a dirigere la mano, che la volontà di affermare alcunché la smetta di sbraitare, di rivendicare, di pretendere l’attenzione del mondo. Sottraiamo la parola a qualsiasi uso, all’ossequio verso il potere politico, militare, religioso, alla facile ripetizione dell’opinione comune come alla frustrante recriminazione dell’insoddisfatto, al rancore appena sopito del deluso, dell’ingannato, del reietto.

E’ possibile scrivere una parola priva di questi connotati, una parola svincolata da un’intenzione, da un fine, una parola che sia fine a se stessa, che rifiuti di essere mezzo: clava, pistola, ricatto, paura; una parola pura? E, al contempo, è possibile scrivere una parola necessaria? Che sia simile a un evento naturale, a una conseguenza logica inaspettata che stupisca per la sua bellezza o sgomenti per la sua forza, simile a un destino inevitabile eppure imprevisto? E’ possibile scrivere una parola definitiva, oltre la quale potrebbe non esserci più nulla oppure potrebbe spalancarsi un mondo intero che ci era rimasto sempre nascosto?

La parola che scriviamo, quella che leggiamo, la parola che ascoltiamo, quella che ogni giorno si deposita nelle menti, attraversa i corpi, la parola che dirige le vite e muove gli uomini è una parola asservita e avvilita, ossessiva e tirannica, superba e presuntuosa, falsa e bugiarda.

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Inchiostri 116. Interno otrantino

di Antonio Devicienti

Le persiane accostate a tenere fuori il sole meridiano – l’orologio sul tavolo e l’oscillazione

del pendolo (ma non è tempo che trascorre, è suono di sospensione).

Quando sarà venuta la notte i fanali del porto accesi sui mari della luna spariglieranno tutte le attese. 

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Gaetano Minafra, Opere grafiche 32. Pensieri nel vento

2010, matita, cm 30 X 40.
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Conferenza di Antonio Prete, La lettera, il cielo. Fisica e poetica del libro – Copertino, 29 ottobre 2010

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Da Otranto a Lepanto. Carlo V e la lotta contro il Turco nel Basso Adriatico

di Mario Spedicato


Il dipinto del XVI secolo raffigura lo scontro tra galere cristiane e ottomane a Lepanto. National Maritime Museum, Greenwich, Londra.

Riassunto. Otranto e Lepanto sono due luoghi iconici della presenza ottomana nel Mediterraneo, che segnano le vicende legate alla minaccia islamica, che si materializza nel 1480 con il sacco della città salentina, e, a distanza di quasi un secolo (1571), si neutralizza a Lepanto con la vittoria della Lega Santa guidata da don Giovanni d’Austria. In questo lungo arco di tempo si situa la politica estera di Carlo V, tesa a contenere il pericolo turco con la protezione dei confini orientali dell’impero spagnolo, quelli, come Terra d’Otranto, più esposti alle incursioni delle bande di corsari alle dipendenze del Sultano.

Carlo V sin dai primi anni in cui è posto al comando dell’impero concentra le sue attenzioni di governo sul pericolo turco nel Mediterraneo. Diventa un obiettivo prioritario quello di contenere la minaccia islamica, considerata dopo la cacciata degli arabi di Granada nel 1492 e, prima ancora, del sacco turco di Otranto nel 1480, una vera ossessione e tale da segnare per lungo tempo la politica estera spagnola. Nei programmi del nuovo sovrano spagnolo le scelte si riducono essenzialmente ai due maggiori fronti operativi aperti dall’espansionismo ottomano: il primo obiettivo resta quello di contrastarli duramente nel Mediterraneo meridionale, in prossimità delle coste africane, dove avevano collocato le loro basi strategiche più importanti per colpire la Spagna e tentare di riprendersi l’Andalusia; il secondo si materializza essenzialmente sui confini orientali dell’impero, il più esposto alle incursioni piratesche, soprattutto dopo l’occupazione nel 1478 dell’Albania e di larga parte delle isole dell’Egeo, prima sotto il diretto controllo della Serenissima[1]. In questa parte del Mediterraneo l’imperatore avvia un’azione di prevenzione che mira ad ampliare e a consolidare la difesa del territorio con una catena di torri costiere di avvistamento, capaci di prevenire e porre in atto ad una resistenza efficace alla forza d’urto delle frequenti scorrerie marittime dei Turchi soprattutto sui litorali pugliesi e calabri. In questo contesto operativo Otranto resta la città-martire che ispira e sorregge le decisioni di Carlo V, impressionato dall’eccidio perpetrato nel 1480 dai Turchi e pronto a riscattare gli otrantini sterminati dall’offesa patita[2].

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Manco p’a capa 195. Chi ha le armi prima o poi le usa!

di Ferdinando Boero

Civil war racconta una futura guerra civile che dilania gli USA, la seconda nella storia. Quando i sostenitori di Trump non accettarono la sconfitta elettorale l’assalto a Capitol Hill durò a lungo e, assistendovi dalla TV, rimasi sconcertato dalla lenta reazione delle forze dell’ordine. Erano disorganizzate o aspettavano di vedere come sarebbe andata a finire? In Civil War una parte dell’esercito si ribella al presidente, eletto per la terza volta. Non si capisce chi abbia ragione o torto: la fotografa di guerra, da veterana, spiega alla neofita che non spetta al fotografo stabilirlo. Lo deciderà chi vedrà le sue foto. E lo stesso vale per il film: non valgono ragione e diritti se si ha di fronte una persona armata, decisa ad uccidere. Nei film americani giustizia e ragione trionfano sempre, ma se si assiste ad una rissa già iniziata non si capisce chi abbia ragione, si simpatizza per chi subisce le angherie dei più forti, ma queste potrebbero essere una reazione a chi voleva imporre un’ingiustizia con la forza, pagandone le conseguenze, anche con la vita. Come è successo a Mussolini e a Hitler. Diversamente da quel che è avvenuto a Allende. Saddam Hussein fu impiccato ma non aveva armi di distruzione di massa. Conoscendo tutta la storia potremmo decidere dove siano ragione e torto; spesso, però, la storia la fanno i vincitori, anche se non sempre: i fascisti italiani compirono massacri nella ex-Jugoslavia e la reazione fu altrettanto mostruosa: le foibe. E ora ricordiamo solo le foibe, senza che qualcuno dica: ma noi che abbiamo fatto, prima? Vengono in mente il 7 ottobre e Gaza. O i massacri nel Donbass e quelli nel resto dell’Ucraina. Ogni mostruosità ne giustifica altre, tutte da non dimenticare, anche se noi amiamo dipingerci come “brava gente”, dimenticando le nostre malefatte e, se qualcuno ce le ricorda, le giustifichiamo con le malefatte altrui.

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Antonio Stanca, Universum A-15

20-10-2003, olio su MDF, cm 89,6 x 89,6.
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Una lettera di… 2. A venticinque anni dalla morte: una lettera di Vittore Fiore

di Antonio Lucio Giannone


Monastero degli Olivetani il 13 maggio 1996. Alla destra di Vittore Fiore si riconoscono: Raffaele Colapietra, Enzo Forcella, Carmelo Pasimeni, Vito Antonio Leuzzi; alla sinistra: Angelo Semeraro, Walter Vergallo, Cosima Nassisi, Lucio Giannone, Franco Martina. Più indietro: Ennio Bonea. In alto: Mimmo Fazio.

BA[RI]

8

5

 ‘96

Carissimo Lucio,

hai colto felicemente nel segno con la tua critica ad “Ero nato…” che è caratterizzato da un “singolare, suggestivo impasto ideologico, stilistico, lessicale”. È vero: la nostra solitudine non è eterna e senza nome (Montale), ma si vede, “si susseguono archi di trionfo”. Ora dovrei andare oltre, fino alla “visita al castello”. Fra un mese o poco più verrà alla luce; e tutto ‒ poesie. Ma prima ci vedremo a Lecce, al convegno su Nuovo Risorgimento.

Intanto v. a p. 188, n. 5 non sono riuscito a trovare il testo di Pasolini. Potresti fotocopiarlo per me?

Grazie, con affetto

Vittore

La lettera di Vittore Fiore (Gallipoli, 20 gennaio 1920 – Capurso, 21 febbraio 1999), che qui si pubblica, vergata con grafia incerta a causa dei problemi di salute che lo affliggevano negli ultimi anni di vita, mi venne inviata dopo che sul primo fascicolo (n. 90) del 1996 della  rivista “Critica letteraria” era uscito un mio saggio sul suo libro di poesie, Ero nato sui mari del tonno, apparso a Milano presso l’editore Schwarz nel 1954. L’articolo derivava da una relazione che avevo tenuto a Gallipoli il 7 aprile 1994 in occasione di una manifestazione dal titolo  “Omaggio di Gallipoli a Vittore Fiore”, organizzata dal compianto amico Aldo D’Antico e dal suo Centro di cultura “Il Laboratorio” di Parabita. La conoscenza diretta di Vittore risaliva però a dieci anni prima, allorché partecipai al Convegno di studi “Scotellaro trent’anni dopo”, svoltosi a Tricarico e Matera dal 27 al 29 maggio 1984, dove tenni una relazione su “Scotellaro e gli ermetici meridionali”. Fu proprio Fiore, in quella occasione, che si avvicinò molto cordialmente a me per congratularsi per il mio intervento in cui, fra l’altro, l’avevo citato, inserendolo nella linea meridionale della poesia novecentesca. Egli, a sua volta, tenne una relazione dal titolo “Nel fuoco del divario”, pubblicata, insieme a tutte le altre, nel volume che raccoglieva gli Atti del Convegno (Matera, Basilicata editrice, 1991).  Sempre a Gallipoli, il 26 giugno 1997, si svolse un’altra serata, anche questa organizzata da D’Antico, con la partecipazione, oltre che dello scrivente che la introdusse, dell’attore Riccardo Cucciolla, che lesse magistralmente alcune liriche di Fiore, Vittorio Bodini e Vittorio Pagano. Ancora nella Città bella, il 27 aprile 2017, in occasione del Festival della poesia, tenni una lezione su di lui presso il Liceo “Quinto Ennio” diretto da Antonio Errico, in cui ripercorrevo tutte le tappe della sua produzione poetica dalla raccolta del ’54 fino agli ultimi anni.

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Epidemia da epatite A (HAV)

di Rocco Orlando

      Il 7 aprile 2024 il Ministero della Sanità ha fatto ritirare dai mercati alcuni lotti di frutti di bosco Versilfood per la possibile presenza di Norovirus (chiamato anche virus del vomito invernale) e di virus dell’epatite A. I frutti di bosco sono commercializzati da Versilfungo S.p.A. e da Maxi Di. Questo tipo di frutti se surgelati vanno consumati dopo cottura e solo in questo modo viene garantita la salubrità dell’alimento. Viene subito alla mente l’epidemia del 2013-2014 che colpì molti Paesi europei, tra cui l’’Italia. L’epidemia era dovuta a frutti di bosco surgelati o congelati crudi e contaminati, in seguito scongelati e consumati senza averli cotti. La stretta collaborazione fra i Paesi europei e le loro autorità sanitarie creò un sistema di allerta rapido al fine di individuare la fonte del contagio: si trattava di sette impianti di produzione e di cinque fornitori dell’Europa dell’Est. La contaminazione molto probabilmente si era verificata o durante la coltivazione nei campi o negli impianti di surgelamento/congelamento. I prodotti incriminati erano in particolare i ribes rossi prodotti in alcune regioni della Polonia e le more coltivate in Bulgaria.

      L’epatite A è diffusa in tutto il mondo sia in forma sporadica sia in forma epidemica. Nei Paesi in via di sviluppo, dove si registrano scarse condizioni igienico-sanitarie, l’infezione si trasmette rapidamente tra i bambini nei quali la malattia è molto spesso asintomatica, mentre molti adulti risultano già immuni ad essa. Si ritiene che a livello mondiale le infezioni sintomatiche si riscontrano in 1.4 milioni di persone all’anno; tuttavia, le forme silenti o asintomatiche potrebbero essere di alcune decine di milioni. Nei Paesi industrializzati, con buone condizioni igienico-sanitarie, il rischio di entrare in contatto con il virus HAV è basso, ma non escluso, per cui in alcuni gruppi e in particolari condizioni si possono avere focolai epidemici.

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Citazioni 15. La scienza, la politica, l’arte

“Non credo che la scienza stia al centro della nostra società: eccitante ed instabile metafora, che rimanda insieme alla città ed al bersaglio; la scienza non è oggi che lo strumento principe della politica; quel che rende a me lievemente ripugnanti le imprese spaziali, è la coscienza che si tratta di intraprese politico-militari, con qualche sinistro tocco ginnico; sulla luna metterà piede quanto prima un colonnello o un maggiore, gente che non migliora per cambiar di pianeta; e con la corsa successiva arriverà la polizia. La scienza è stata collocata, oggi, nel centro tattico della società; ma il centro strategico o teoretico è altrove: dove si scontrano coloro che fanno della società il bene assoluto, unità di misura degli altri beni, che in essa confluiscono e fanno organismo, e coloro che hanno scelto la regione eversiva dell’immaginazione, e dunque dell’arte.”

Giorgio Manganelli, Imminente, quotidiana fine del mondo, in Emigrazioni oniriche, Adelphi, Milano 2023, pp. 16-17. L’articolo è del 1969.

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La BCE e il Mezzogiorno

di Guglielmo Forges Davanzati

La BCE ha proceduto al primo aumento recente dei tassi di interesse il 21 luglio 2022, manovrando il tasso di rifinanziamento principale con una frequenza di aumento mai registrata nella sua storia. È in previsione la loro riduzione, che dovrebbe avvenire a giugno prossimo. Concorrono a questa decisione l’evidenza di una riduzione del tasso di inflazione e di una contrazione della crescita economica nell’area euro. Le tensioni in Medio Oriente suggeriscono al Consiglio Direttivo della Banca Centrale di rinviare questa decisione, soprattutto in considerazione dei possibili effetti inflazionistici in Europa derivanti dall’interruzione delle catene di approvvigionamento.

La politica monetaria agisce sugli squilibri regionali tramite diversi canali, che attengono alla dinamica dei consumi, degli investimenti e alle fluttuazioni del tasso di cambio. Per chiarire i termini della questione, si può ricordare che anche la FED statunitense ha proceduto ad aumenti dei tassi di interesse, a seguito di un aumento della domanda stimolato anche dalle politiche fiscali espansive dell’amministrazione Biden (in primis, l’Inflation reduction Act). Ma, come molti analisti hanno evidenziato, occorre anche chiarire che le condizioni macroeconomiche sono molto diverse fra USA e UME: negli Stati Uniti, infatti, l’occupazione è elevata e in aumento ed è elevato il tasso di crescita dei salari nominali, mentre vi è la sostanziale inesistenza della spirale salari-prezzi nell’area euro.

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Noterellando… Costume e malcostume 7. Meglio belli e sani che brutti e malati…

di Antonio Mele / Melanton


Massimo Catalano con Renzo Arbore

Il titolo di oggi – omaggio cordiale a Massimo Catalano, scomparso nella primavera dello scorso anno, trombettista di jazz, indimenticabile e ironico ‘battutista  dell’ovvio’ nella popolare trasmissione di Arbore “Quelli della notte” – riapre il mai chiuso discorso sulla sanità pubblica.

Permettetemi, cari Lettori, di andare per una volta controcorrente, conoscendo anch’io quanto sia diffuso (ma spesso impropriamente) il concetto di ‘malasanità’.

Dichiaro intanto il mio massimo e convinto rispetto per chi sia malauguratamente incappato in casi deleteri di cure o interventi sbagliati. Nessuna giustificazione è, in tali casi, sostenibile né consentita. Tuttavia, non è parimenti sostenibile, né consentita, ogni forma di generalizzazione, stigmatizzando e criticando ‘a prescindere’  l’operato di centinaia di migliaia di persone, che pure si adoperano – con competenza, responsabilità e dedizione – per la nostra salute.

È mio desiderio, e anche dovere, spezzare quindi per una volta una lancia a favore della classe medica in particolare, e dell’intero sistema sanitario, che troppo spesso è nell’occhio del ciclone. Potremo forse non trovarci d’accordo su alcuni concetti, ma parlarne e confrontarsi senza pregiudizi e con massima serenità sarà di certo una cosa buona e giusta.

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Non si può leggere tutto. L’importanza di scegliere

di Antonio Errico

Non si può leggere tutto. Magari fosse possibile, ma non si può. Tutti i giornali non si possono leggere, nemmeno se ne può leggere uno solo per intero. A volte si strappano alcune pagine e si conservano per quando si ha un po’ più di tempo. Poi, invece, il tempo non si trova e succede anche che quando si riprendono quelle pagine non si ricorda più perché erano state strappate. Non si possono leggere tutti i libri, nemmeno tutti quelli che appartengono ai territori del sapere che di solito si attraversano. Se uno si occupa, per esempio, di economia, non potrà mai riuscire a leggere tutti i libri di economia. Se uno si occupa, per esempio, di letteratura, non riuscirà mai a leggere tutti i romanzi e tutte le poesie e tutta la critica su quei romanzi e quelle poesie.  Allora bisogna scegliere, selezionare. Inevitabilmente. 

Ma il problema comincia proprio a questo punto, quando bisogna scegliere. Si potrebbe dire che la selezione si fa in base agli interessi, ai gusti, e va bene. Si potrebbe dire che si fa in base a quelli che sono i libri essenziali che rientrano in certi contesti della conoscenza, e va bene anche questo. Però, se gli interessi e i gusti in quanto tali non si discutono, su quelli che sono i libri essenziali una qualche discussione si potrebbe pure intavolare, ma inutilmente, perché non porterebbe da nessuna parte in quanto si dovrebbe definire che cosa si intende per essenziale, per quale motivo un libro risulta essenziale, e poi altre questioni una dopo l’altra. Non si arriverebbe da nessuna parte.

Un esempio classico: I promessi sposi. C’è sempre qualcuno che sostiene che quel romanzo non si dovrebbe più leggere, non si dovrebbe più considerare a scuola, sostanziando l’affermazione con proprie personali ragioni.

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Una conversazione tra Antonio Prete e Carla Saracino: la scrittura che attraversa la vita

di Adele Errico

La scrittura che attraversa tutta la vita. Il dialogo ininterrotto con i libri, con la molteplicità dei loro significati. È questo il senso della letteratura per Antonio Prete, originario di Copertino, docente di letterature comparate, critico, narratore, poeta, traduttore. La scrittura come espressione dell’esperienza di esistere, come modalità di confronto con il mondo, come incontro con l’Altro, con la Storia. È uscito per l’editore Fallone “Dal tempo qui raccolto”,  una conversazione tra Antonio Prete e Carla Saracino, che rappresenta una sintesi essenziale di quelle che sono le direzioni e le occasioni di scrittura di Antonio Prete, che coincidono con le direzioni e le occasioni dell’esistenza.  Prete si muove nell’universo dei testi,  ascoltando, indagando, formulando domande, cercando risposte, interpretando i segni evidenti o nascosti.

Per Antonio Prete, la lettura e la scrittura di testi è un modo di esistere. Anzi, è una molteplicità di modi di esistere. Dice che non c’è ermeneutica senza un rapporto con l’alterità, “sia perché il testo è l’altro  cioè la differenza, sia perché al di là del testo e dell’interprete c’è ancora l’altro come scrittura, come luogo dove l’esperienza del rapporto si mette in scena, si racconta, si comunica a un ‘altro’ lettore”. Ma cosa c’è all’origine di ogni forma di scrittura di Prete, che sia poesie, saggio, racconto? È il tempo che rappresenta l’origine di ogni ricerca e di ogni scrittura di Prete. Scrivere è attribuire una forma alle domande sul tempo, alle sue figure, al suo trascorrere inevitabilmente, alla sua irreversibilità, al tempo come ricordo,  forma dell’attesa,  rappresentazione connessa con lo spazio,  principio del conoscibile e respiro di ogni essere vivente. Allora, per Prete, ogni sua scrittura è una meditazione e rappresentazione del tempo che si manifesta attraverso accadimenti, passaggi di stagione, divenire dei corpi. Con le sue interrogazioni, Carla Saracino riesce a far emergere i significati profondi di quella che si potrebbe definire l’avventura di pensiero e di scrittura di Antonio Prete. Non è incalzante, non è indiscreta. Aspetta che Prete faccia qualche accenno, che introduca un argomento, che schiuda le porte di un tema, che accenda il fuoco di un problema. A quel punto spinge  alla puntualizzazione, all’approfondimento. Come  quando partendo dall’esperienza dei luoghi consente a Prete di ritornare con la memoria alla targa di una Cinquecento blu targata LE 99033, oppure a Oreste Macrì che a Firenze gli parlava in dialetto magliese.

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